domenica 6 gennaio 2013

POLLO SARA’ LEI



Francesca ha ragione, e l’arte gliene renderà merito.
La pop art, sia chiaro. Quella cialtrona che amo io, che sta nei musei a dispetto dei santi ed adorna i muri di case in cemento armato. Che decora le copertine dei dischi e (certi, ormai non troppi…) cartelloni pubblicitari per strada.
E a dirla tutta, gliene renderebbe merito anche Giacomo Puccini, se fosse qui a parlarne, ne sono certo.
Passo pochi giorni all'anno nella mia città di origine, La Spezia, ma quest’anno, sotto le feste anche se in mezzo ad un tocca e fuggi, sono riuscito a vedere "IMAGINARIUM, la mostra" la bella esposizione delle opere pittoriche di Francesca Pasquinucci, curata - col solito garbo discreto di chi sa e non ha bisogno di ostentarlo – da Anna Maria Monteverdi. 



Ci volevo essere, anche perché con Francesca, pur senza conoscerci di persona – e continuiamo a non averlo fatto, perché il giorno della mia visita lei non c’era… - avevamo parlato epistolarmente, per epistola elettronica dico, al tempo dell’uscita del mio libro “Tenco e gli altri”. Le volevo parlare di una mise en espace del mio “Un fannullone senza talento”, monologo dedicato a Giacomo Puccini e avevo pensato che dei suoi cartonati un po' alla Lele Luzzati sarebbero stati un ottimo luogo scenico.


Il mio era un Puccini toscanaccio, un po’ cialtrone e smaliziato, come mi piace immaginarlo (e come non sono affatto certo che fosse, se non per intuito, che i ben informati possono contestare ma non smontare: Tiè.). Un Puccini per il quale sentivo il bisogno di un contrappeso che lo restituisse al mito, anche se nella lettura iconoclasta di Francesca. Un Puccini che si presentava in scena con greve accento luccese e col disincanto di chi parla dalla fine dei secoli.

I figli de’ gatti, prima o poi… finiscono per acchiappare i sorci.  (ci pensa)  Eh. E icchè sarà mai. E’ saggezza popolare. (enumerando, con lieve tono di sufficienza) “Da un fico ‘un vien fuori una mela.”… “Il frutto non cade lontano dall’albero.”… “Mastro Santo ha lasciato il disegno, che la tacca assomiglia al legno.”…e… “I figli de’ gatti, prima o poi, finiscono per acchiappare i sorci.”
Sòna pure simpatica, a sentirla. Gli è musica.
(Solfeggia la frase, accompagnandosi con il tipico gesto della mano…)
“I figli de’ gatti…” …tutte sincopi, sentite come ogni sillaba appoggia sulla battuta dopo? “Prima o poi…” una bella quartina, con un legamento alla terza nota … “…finiscono per acchiappare i sorci.” Qui, tutte terzine. E poi la corona. Sulla “o” di sorci.  (allarga le braccia: come volevasi dimostrare) Gli è musica. (un tempo, si rabbuia) Fuori che per me.
(ci pensa ancora, come se dovesse sputare un rospo. Poi…)
E son figlio di gatto, va bene? Vengo da una famiglia di gatti.  Cinque generazioni di gatti.  Cinque generazioni d’organisti, maestri di cappella, insegnanti di musica…  …ma se ve lo posso di’… io ‘un c’avevo punta voglia, di andare a caccia di roditori.  Ma poi… si sa come vanno queste cose, mio padre ci ha mollato troppo presto, è morto prima di darmi il tempo di inventarmi un modo per campare la vita, pace all’anima sua, e a casa ‘un si poteva mica scialare, in qualche modo la scodella in tavola a desinare andava messa…
…sicché ho finito per acchiappare topi.

Ero stato io a cercarla, Francesca, dopo aver visto in foto – Dio benedica i social network - il suo Puccini Pop ed esserne rimasto entusiasta. Un Puccini rimasticato, smontato e rimontato. E poi rimesso nel suo mezzo busto in bianco e nero, e ripittato con gli stessi colori del glitter rock: gialli dorati, rosa shoking, verde shampoo alla mela acerba.   


Alla faccia dei puristi. 
Che poi sono quelli che a forza di nutrirsi delle mele acerbe della loro supponenza, e delle limonate astringenti del loro settarismo prima o poi si procurano una stitichezza emozionale. Ma che vogliamo fare, le nonne lo dicevano sempre, di non esagerare col limone.

Insomma, se riesco per una volta in vita mia a non divagare, racconto di come mi piacque moltissimo l’idea di prendere il buon Giacomo ed imbrattarlo di colori psichedelici ed elettrici, restituendolo alla dimensione che – a mio modestissimo e vituperabile parere – è sua da sempre: quella di pop-star. E ancora, anche se è prevedibile, ma che ce ne frega, siamo alla gara a chi la inventa più originale? No, mi pare, stiamo parlando di emozioni...
E ancora dicevo, l'omaggio ai quattro ragazzi di Liverpool, che di quel pentolone pop in cui tutto gorgoglia sono tra i numi tutelari.


E fin qui, tutto bene, in fondo è luogo comune che Puccini fosse un grande genio della musica ma anche uno splendido cialtrone no? Non sono i Beatles ad avere dato il via - nei secondi anni sessanta, non soli, ma di certo tra i più incisivi - ad una estetica stralunata e coloratissima con Yellow Submarine? Insomma, ci muoviamo nel lecito, no?
No. Francesca imbratta di colori elettronici anche Verdi, il compositore per antonomasia – che adoro, sia chiaro – la gloria della musica – seria – italica, così serio e impettito che è finito perfino  sulle millelire.


E qui, già sento le lamentazioni, i pianti e i laii dei soliti padroni della cultura e della musica, quella classica ovviamente, l’unica vera musica, intangibile ed iperurania.
Occhio. Gli stessi discorsi, nella mia ormai disincantata vita di cultore del suono che procura emozioni, che non ha pareti, li ho sentiti fare dai talebani del free jazz, dai ludditi del blues di New Orleans, dai fricchettoni del progressive, dagli arguti intellettuali della canzone d’autore e così via. E ovviamente da preti di ogni razza e colore: qui ci sta la verità, il resto è cacca.
Personalmente, adoro scollinare e dirazzare, correre su qualsiasi campo mi si schiuda davanti, purchè mi emozioni. Certo, posso capire una  certa intransigenza se parliamo di Gigi D’Alessio o Fabio Volo, e se qualcuno tira fuori la Pausini o Baricco divento addirittura forcaiolo. 
In tutti gli altri casi, a mio modestissimo parere,  le categorie altro non sono che steccati tranquillizzanti per i miopi. Così non rischiano di perdersi nella vastità del mondo.



Ma qui il discorso si fa troppo greve. Francesca Pasquinucci invece ha mano leggera e disincantata, e non si spaventa a mantecare colori da evidenziatore con pastelli di memoria cinquecentesca. Prende il buon Giacomino e lo veste con le divise – paradossalmente ironiche già allora – indossate dai Beatles sulla copertina del Sergente Pepe. 



E lo stesso gioco fa, citando e insieme sfidando il suo inevitabile riferimento, Andy Warhol, quando candida Marlene Dietrich ad alternativa esistenzialista alla Marilyn che tutti conosciamo, e diciamocelo, amiamo. Ma lo fa sbaffandole il viso come facevamo da bambini, giocando agli indiani.
E non mi voglio neppure avventurare nella ricerca di un significato recondito, perché sono quasi certo che non c'è.
Vedete, in certi casi uno rischia di fare la figura del pollo. 

Che c’entra il pollo? C’entra.

Un altro caro amico, Renato de Rosa, indefinibile corsaro della scrittura e talmente indefinibile che a volte scambia l’essere ostinato e contrario per essere sempre in posizione scomoda e criticabile, ha pubblicato per Mursia uno splendido libro: La variante del pollo, ovvero come fare bella figura senza aver mai letto un libro.



Beh, Renato, che è cresciuto a pane e ironia - tanto che non riesco a capire come faccia ad essere juventino, ma nessuno è perfetto - ha scritto varianti d’autore scombiccherate di tutti quegli scrittori che si citano – si devono citare – nelle cene e nei salotti colti. 
Così, anche se uno non sa, fa la sua bella figura. 
Perchè in questa Italia di improvvisati, di pressapochisti, di giannizzeri e nani, di elefanti del Circo di Mosca, l'unica cosa di cui non si ha davvero bisogno, e sapere le cose.
Sapevatelo.
Per cui, nella nostra Italietta delle mezze calze al potere, è assolutamente sufficiente fare finta, leggere in fretta un riassuntino prima di correre a una qualsiasi riunione di buoni, che, come dice Edoardo Bennato, arrivano perchè finalmente hanno capito che qualcosa qui non va, ah-ah-ah-a, ah-aha-ah.
Ma sì, basta il riassuntino. Tanto la cultura non è mica materia elettorale. Tanto non c'è nessuno, meno che mai tra chi ti deve valutare, in grado di capire se le cose le sai o no. E così, ben venga il riassuntino, caso mai servisse.

Però si sente, in lui - in Renato, dico, non in quello che fa la sua bella figura - il ghigno di chi sa e conosce, e in cuor suo se la ride, anche fuori se si atteggia a persona seria, come un commesso viaggiatore che ha scoperto che c’è lo sciopero e al casello non si paga.

Francesca invece ha una grazia tutta femminile nel giocare col mito. Parlo dei miti della cultura popolare, quelli del pop e dei fumetti, e della musica che tutti conoscono e amano, come Puccini  perché prima di tutto, per la gente comune, è l'autore di grandissime canzoni. 

Ma il mio mistero è chiuso in me... il nome mio nessun saprà...


E soprattutto, questa considerazione ci suggerisce garbatamente che la figura del pollo la fa chi pensa di non esserlo, e colma le sue lacune coi social media e coi Bignami. (Su questo penso sia d’accordo anche Renato, ma lui non lo dice, deve vendere il libro…)
(Ma no, lo dice... Però non ditelo in giro.  Anche perché il suo libro non è un Bignami, è bello grosso.)

Dicevamo: che c’entrano i polli? Come vedete, c’entrano sempre.  

Francesca che non ha nessuna pretesa di insegnare nulla – non è, come direbbe qualcuno, un’intellettuale spocchiosa - buon per lei – è ben consapevole di non avere inventato l’acqua calda. Sa benissimo che c’era Andy Warhol anni e anni prima e prima ancora il Big Bang. Tanto è vero che - a prova di pollo -prende e cita la famosa lattina di zuppa Campbell, casomai non si fosse capito. 


Perché, da artista senza passaporto, che non fa parte dei poeti laureati,  che non conosce come non le conosco io le strade che portano ai palazzetti del potere dove siedono dal principio dei tempi quelli che hanno imparato a memoria l'Argan... - o lo dicono, tanto nessuno si prende la briga di controllare, e magari hanno appena chiesto a Renato de Rosa di simulargliene alcuni stralci (non ti invidio, Renato...)...
Francesca sa bene che la pop art è soprattutto questo. 
Riuso del riuso del riuso.



E che della pop art, come del maiale, non si butta via niente.
E neppure del pollo, se è vero, come è vero, che in Cina ho visto servite come antipasto zampe di gallina marinate.



Il pollo. Già. Ecco cosa c'entrava il pollo. 

Il pollo ruspante ed impettito di Renato, che razzola per le stanze della sedicente cultura, nei corridoi di Viale Mazzini e di Cologno Monzese, nelle istituzioni culturali e alla direzione di festival cinematografici e teatri civici. Ciambellano del nulla, avanzo di segreteria, scriveva Francesco De Gregori.

Il pollo pop e vagamente fumettistico che Francesca personalizza e rende riproducibile all’infinito – su magliette, grembiali da cucina, salviette, cuscini, tendine e strofinacci – il segno artistico che si spernacchia e si sberleffa da solo.

E che mette in cornice un altro pollo.



Eccolo lì, lo riconoscete?
Sublime simbolo di una cultura che non sa ridere di sé.