giovedì 6 settembre 2012

Trilussa, storia d'amore e di poesia.




Qualche giorno fa, nella conferenza stampa di presentazione di “Trilussa, storia d’amore e di poesia”, in mezzo alle tante domande entusiastiche sull’ambientazione e  i costumi, il cast (lavoro davvero eccellente del nostro amico Lodovico Gasparini, che oltre ad avere il merito infinito di essere amico nostro, è, a tempo perso, anche un grande regista), tra qualche punturina non sempre benevola - ed ingiustificata -  al Trilussa “Apulo-trasteverino” di Michele Placido (critica ingiustificata, dico, perché un grande attore è un grande attore, e Michele lo dimostrerà…), e  i sorrisi irresistibilmente modesti di Monica Guerritore per la prima volta nella parte di una donna che vota la vita al ruolo di vestale del genio - una donna così diversa da lei…. - , in mezzo ai commenti sulla scelta della Titanus che produce il film di girare a Roma (vivaddio!), e non andare a sbattere, come ormai è gioco forza, in qualche teatro di posa dell’est (ma il discorso è complesso, lo rifaremo, qui in Italia la fiscalizzazione e la sindacalizzazione raddoppiano tout court il costo di un film prima ancora di battere il primo ciak…), prima di tutto questo, un giornalista malignazzo ha punzecchiato Michele Placido con una domandina impertinente che riassumo,  non avendo la trascrizione originale, ma garantendo di rimanere assolutamente fedele sia nella formulazione che nello spirito:
“Ma a lei, che ormai è un mostro sacro del teatro italiano, che ha realizzato come interprete e come regista film importanti come Romanzo criminale, per citare solo uno degli ultimi, che sta sbarcando trionfalmente in Francia, dove dirigerà al cinema  Berenice Bejo, protagonista femminile del film  premio Oscar “The Artist”… chi gliel’ha fatta fare di andare a rischiare su una fiction televisiva?”

Domanda sfacciatella ma legittima. Tanto più che mi piacciono i giornalisti non succubi dello status quo, che almeno un pochino si permettono di essere impertinenti e di dire una cosina fuori dal coro. Visto che la razza è in estinzione, come dire, ci si rincuora quando si vedono segnali di vita sul pianeta.
Solo che…
Eh. Solo che, dopo tanta illuminata domanda, degna di un giornalismo rampante all’americana, la risposta di Michele Placido – nei resoconti del giorno dopo sulla carta stampata - si è persa.  In sostanza, dopo aver sparato la domandina malignazza, nessuno si è premurato di dar conto di quel che ha risposto Michele Placido.  Nessun complotto, credetemi, nessuna malafede. Solo il supremo, disarmante disinteresse verso l’autorialità - sempre ammesso che non sia una parolaccia - e verso chi pensa, elabora, scrive le storie. Che fa sempre un lavoro importante e di solito poco riconosciuto.
E invece è giusto riconoscerlo e dare allo sceneggiatore ignorato quello che è dello sceneggiatore ignorato. Perfino quando lo sceneggiatore ignorato, tra gli altri, sono io.
La risposta di Michele Placido (anche in questo caso non sarò testuale, ma garantisco una fedeltà benedettina nel riportare i contenuti) è stata questa:

“Ho accettato perché, oltre all’entusiasmo con cui la Titanus mi ha proposto il progetto, ho letto, dopo tanti anni, una commedia degna di Age e Scarpelli.”

Ecco qui: c’est tout. Io questa frase me la incarto, me la porto a casa e me la conservo per le sere d’inverno.


Solo che questa frase, sui giornali, non c’è finita. Forse anche perché, secondo i nostri maestri di pensiero, il pubblico non sa neanche più chi siano Age e Scarpelli. Forse perché lo sceneggiatore di solito non è glamour, lo immaginano tutti come una macchietta con gli occhiali spessi, la camicia abbottonata fino al collo e colorito giallastro da nerd, come in Boris, forse perché in definitiva è solo un imbucato dello star sistem, a meno che non scriva romanzi d’appendice facendo finta che siano d’avanguardia, non abbia il gruppo creativo a seguito, non si faccia ritrarre in servizi fotografici su GQ, XL, e via radicalsciccando, che in Italia è uno sport che piace a tutti, grandi e piccini e che finisce per attivare un passaparola virale che stabilisce in pochi mesi che sei un genio. E a quel punto lo sei per tutti, vita natural durante. Anche per chi non ha letto neanche una riga scritta di tuo pugno. (non ci fate caso, parlo per invidia. E’ così evidente.)
Ma ammettere l’errore, di questi tempi, è una mezza discolpa. In questa gigantesca e catartica autodafé delle colpe sociali, ammettere qualsiasi cosa, dall’aver pagato gli arbitri a regalare soldi alle povere ragazze per toglierle dalla strada ti ripulisce ipso facto. E ti pone immediatamente nelle condizioni di recriminare. Per cui ammetto: sto scrivendo per invidia e per un po’ di rodimento. Ecco fatto.
E allora, ladies and Gentleman, anche se pare brutto, anche se chi si loda si imbroda, e d’altra parte non vedo altro modo di imbrodarmi, se non facendolo con i miei mezzi, il nome dei tre sceneggiatori di "Trilussa, storia d'amore e di poesia", ve li dico io.
 Sono il genio rurale e imbronciato di Peter Exacoustos, cuore romano, cognome greco, ascendenza tedesca, poeta borbottone ritiratosi a fare il contadino sulle colline di Arezzo,  che  ha concepito, prima del nostro Trilussa “Terra Ribelle”,  “Le ragazze di Piazza di Spagna” “Una donna per amico” “Una donna che ritorna” … grandissima penna e grande anima, preoccupatissimo che a sua madre, romana de core, possa non convincere il nostro Trilussa. Ma sono sicuro che lo fa per scaramanzia.
L’altro innominato è Alessandro Pondi, da anni mio partner di scrittura, modi spicci da sceneggiatore romagnolo, che non è mica un’offesa, se pensiamo a Tonino Guerra e a Fellini, e che in sovrappiù ha la dote sovrannaturale di vedere gli elementi che intessono la struttura di una storia, la sua scansione e la sua sequenza,  esattamente come Neo – l’eletto di Matrix -  vede le linee verdoline che compongono la Matrice.
Magari qualche decibel il meno mentre si accalora potrebbero essere una buona idea, ma si può avere tutto?
Infine, come direbbe il mio amato Dante Alighieri “Io fui terzo tra cotanto senno”
Abbiamo creato – a questo punto, libero e senza vergogna, sdoganato dall’outing,  dico “creato”, perché fermarsi a “scritto”? – questo “Trilussa, storia d’amore e di poesia” con un occhio a certi film picareschi di Magni, orecchiando i sapori del “Marchese del Grillo”,  de “In nome del papa Re”, film che amiamo e che a volte, anche solo per giocare,  ci divertiamo a citare a memoria, ma non è una fatica, perché alcune è proprio impossibile dimenticarle.
Come si fa a non ricordare: “Perché io son io e voi nun siete un cazzo?”
Abbiamo scritto questa storia con quei film negli occhi e nel cuore.  Ecco perché quella risposta di Michele Placido, che nessun giornalista si è preso la briga di pubblicare, ci onora e ci inorgoglisce.
Ma dentro il nostro Trilussa ci sono soprattutto due temi sui quali abbiamo investito molto, sia in termini di cuore che di scrittura.
Prima di tutto, il tema dell’ineluttabilità del tempo che passa, “la vita è un mozzico…” ,  la malinconia sorniona dell’antico tombeur de femmes che si scopre anziano, e fuori dai giochi di fronte alla bellezza acerba della stella – Giselda - che sta per sbocciargli tra le mani e volar via, nel firmamento dello spettacolo, il dolore dell’anziano poeta che, come Cyrano, compone lettere d’amore che un altro, Arturo, un ragazzino fresco di giovinezza e inebriato di vita porgerà a Giselda.
Ma, dall’altro lato, il tema che ci sta molto a cuore – e a me in particolar modo – del rapporto dell’intellettuale con il potere.
Abbiamo voluto ambientare questa storia nel 1937 in quanto cerniera cruciale nella storia italiana e del fascismo. Sarebbe stato facile raccontare il periodo – come la storiografia troppo spesso fa, con pigrizia e con conformismo – come un gigantesco lager italiano in cui tutto era sopito, tutto era grigiore, tutto era morte.
Sia chiaro: c’era e c’era stato lo squadrismo. C’era stato il delitto Matteotti. Eventi gravissimi, che nessun revisionismo può negare. E non i soli, potremmo metterci qui a fare la lista, salvo che di solerti compilatori ce ne sono già stati molti. (Parlo così perché non amo le storiografie a tesi. E se il fascismo ha rivelato proprio in quel secondo decennio il suo volto bestiale, Roma, fino al 1937, grazie ad una impareggiabile capacità  tutta italiana di vivere e di trovare degli spazi anche quando sembrano non esserci, era una città viva, culturalmente e perfino – non dico eresie – politicamente.  Spesso in clandestinità, certo. Ma viva.
In questo scenario, l’apparire delle leggi razziali, le prime stelle di David tracciate sui muri del ghetto per lo sconcerto di una popolazione, quella romana, naturalmente puttanona, quindi aperta a tutti, le vetrine sfondate, il sospetto delle deportazioni che divenne ben presto certezza, avevano risvegliato bruscamente una Roma, che fino a quel momento aveva creduto davvero di essere ancora, per la seconda volta, il “Caput Mundi”.
E invece si guardava le terga, e si scopriva le pezze al culo.
Ecco, Trilussa sta impiantato proprio lì, guarda Roma sua che si scopre schiava e indigente con un occhio colmo di un cosmico disincanto, quasi un distacco dalle cose del mondo. Quasi come sapesse già che i ladri di verità e di giustizia sono molti, hanno molte facce, e che è giusto liberarsi,  certo, ma non è detto che non succeda di nuovo…  e insieme, Trilussa non può, col cuore che batte all’unisono con la sua città e con la sua gente, non dire quel che gli urla dentro.

- Conterò poco, è vero:
- diceva l'Uno ar Zero -
ma tu che vali? Gnente: propio gnente.
Sia ne l'azzione come ner pensiero
rimani un coso voto e inconcrudente.
lo, invece, se me metto a capofila
de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
È questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so' li zeri che je vanno appresso. 


Versi di un poeta che la critica laureata e allineata ha definito qualunquista. E che invece, esattamente come Benedetto Croce sul versante accademico, aveva fatto la scelta di rimanere lì, e cercare di rappresentare, con poche ma assestate parole, una sorta di controcanto interno. Versi di un poeta che prima di qualsiasi altra cosa non sopportava l’ottusità dello schierarsi acriticamente, di mettersi in coda al primo “capo in testa con il distintivo sfavillante” come avrebbe detto, molti anni dopo, con identica ironia, parlando di altri militanti accodati, Edoardo Bennato.


Francesco Malgeri, il direttore del Messaggero,  il giornale che pubblicava Trilussa, era disperato. Praticamente ogni sonetto del poeta gli valeva una reprimenda del MinCulPop, l’arcigno Ministero della Cultura Popolare, ma praticamente ogni sonetto infiammava i romani e gli regalava il tutto esaurito.
Trilussa, voce e core de Roma, non ebbe mai dal Fascismo ne’ onori ne’ prebende, che invece furono riservate a Gabriele d’Annunzio, cantore dei fasti Italici, e che il nostro non sopportava granché, pur dicendosene amico.  Qualche volta, più spesso si ricordano battibecchi in punta di forchetta tra i due, che ci siamo divertiti a mettere in scena. Nessun riconoscimento, per Trilussa, dal potere fascista. Solo un disinteresse infastidito ma quasi divertito, che, credo, derivasse da una parte dall’averne sottostimato il potenziale di eversione sociale e dal’altra dalla consapevolezza che se il fascismo avesse toccato il Poeta di Roma, forse la città sarebbe insorta in sua difesa. Questa lungimiranza di Mussolini  l’abbiamo messa in scena nel nostro film, in un incontro  tra il Dittatore e il Poeta che abbiamo ambientato a Palazzo Venezia nella Sala dei Mappamondi, e che mi pare uno dei momenti felici della sceneggiatura.
Ho fatto tutto questo rigiro perché ho letto in qualche articolo sul giornale, che descriviamo Trilussa che beve vino fino ad ubriacarsi per dimenticare il fascismo.
Smentisco categoricamente.
Trilussa il fascismo e le sue implicazioni,  soprattutto dopo le famigerate leggi razziali, li aveva ben chiari. E probabilmente negli ultimi anni del regime - quelli in cui il potenziale e la spinta rivoluzionaria si erano arresi ad un rigurgito borghese e reazionario -  si stava interrogando se fosse il momento di venire allo scoperto, o di continuare  - come fece – ad essere la voce di quel malcontento sotterraneo, borbottone, romanesco, che pure ha dato propellente, al momento giusto, per l’eroica liberazione di Roma. Perchè Trilussa, nel modo bonario dell'uomo che molto ha visto e molto ha compreso, della storia e del mondo, quel che pensa non lo manda mica a dire. Qui è al capezzale del povero Arturo, il suo protegè, ridotto a malpartito dai manganelli degli squadristi:

TRILUSSA
L'hanno ridotto male, povero Arturo.
MASTRO SERGIO
E je sta bene, così se ‘mpara a ammischiarsi de politica con quei delinquenti, invece de stà a
bottega a damme na mano.
TRILUSSA
Mastro Se', fattelo dire… E' proprio perchè ognuno ha pensato alla bottega sua, che ora abbiamo bisogno di ‘sti giovanotti che s'immischiano di politica.

Questo per quel che riguarda la politica.
Il vino, invece, quello no.
Quello, lo beveva solo perché gli piaceva.
Dei castelli.
Alla fraschetta.