giovedì 2 luglio 2015

CHIAVI DI (RI)VOLTA - A ROMA CHIUDONO I TEATRI DELLA CINTURA









Io ne so poco, di politica.
Nel senso che più passa il tempo e più mi convinco, mio malgrado, che – per dirla con Giorgio Gaber - sia una cosa schifosa che fa male alla pelle, governata da meccanismi che non conosco e che non riuscirei a capire neanche se me li spiegassero.
Sì, d’accordo, poi a questo punto si deve precisare che però la politica, quella vera, è un’altra cosa, che per politica si intende passione civile, voglia di migliorare il mondo e le condizioni di vita dell’uomo, eccetera, eccetera. Beh, se mi guardo attorno, mi riesce difficile far combaciare questa dichiarazione di intenti con quel che vedo ogni giorno nella gestione della cosa pubblica.
Tutto questo giro di parole per dire che non sono in grado di spiegare i meccanismi ufficiali – e di conseguenza neppure quelli occulti, che probabilmente spesso sono i più fondati – che portano al fatto che dal primo luglio i teatri della cintura romana sono chiusi e che nei prossimi giorni coloro che in questi due anni hanno lavorato, messo ingegno e impegno, e passione e voglia per riempire di fatti, di emozioni, di cultura, e soprattutto di gente quei luoghi saranno costretti a riconsegnare le chiavi.
Lo faranno con una cerimonia di consegna, che io avevo suggerito di battezzare CHIAVI DI (RI)VOLTA. Ma forse era solo un rigurgito movimentista, chissà.
Certo, mi si dirà che non è la fine di tutto, che la voglia di creare cultura e di occupare spazi troverà altri sfoghi ed altre strade. Ma certo, ma per carità. Io ne sono certo e questo auguro ai miei amici che hanno investito anni di vita in quei teatri.
Però è sempre così, la voglia di migliorare deve trovare la dimensione del volontariato, per radicarsi. E quando lo fa, non sempre trova il potere dalla sua parte.  Anzi, quasi mai. A volte lo trova distratto, ed è il caso migliore. Più spesso lo trova antagonista, pronto ad importi lo sgombero, o a multarti per violazione del diritto d’autore, o per evasione dei diritti Siae, e tutte le amenità che possono venire in mente. Più spesso trovi le strutture pubbliche, quelle che dovrebbero aiutarti a produrre cultura, che invece ti osteggiano e addirittura ti sparano alle gomme.
Perché?
Perché non è prevista l’improvvisazione, le cose devono passare attraverso il sistema, questo è. Una antica cultura centralista, figlia di svariate chiese novecentesche fa sì che non sia prevista l’iniziativa individuale. Le decisioni le prende il sistema. Le cose le fa la struttura pubblica. Salvo che poi il sistema si dimentica di farle. Oppure le fa fare a chi non le sa fare, ma questo è secondario, di fronte ad una lunga storia di appartenenza ad una fazione. Non dico sia avvenuto in questo caso. Dico che quel che accade nell’assegnazione di posti di responsabilità nella cultura, e non solo, è sotto gli occhi di tutti.
E il risultato è quello da cui siamo partiti: lavori bene, anzi benissimo per anni, e al dunque si dimenticano perfino di dirti grazie.
Io non lo so, perché avviene tutto questo. Mi pare assurdo, non lo capisco.
Di certo non per demerito, basta essere stati una sola volta al Teatro Tor bella Monaca per accorgersene. D’accordo, ho molti amici in quella struttura, e – d’accordo – io stesso ho collaborato per un paio di eventi che ancora ricordo come bellissimi. 




Ma quel che so, e che nessuno può smentire è che al centro di un quartiere per anni considerato il Bronx di Roma, si apriva una struttura in cui la sera si radunavano giovani e gente comune, in cui si tenevano laboratori per bambini e corsi di teatro, in cui si parlava di musica e la si ascoltava. In cui, in una parola, si faceva cultura, nel senso più bello del termine.
In quel senso bello che sarebbe fantastico tornare a dare anche alla parola politica.
Invece no. L’assessore alle politiche sociali semplicemente non ha promulgato il bando per il rinnovo delle convenzioni, oppure chissà, lo scopriremo nei prossimi mesi, ha lasciato che scadesse, ed ora i teatri della cintura sono chiusi.
Ma sono anche terreno libero territorio di caccia, chissà. Non posso e non voglio dire che ci sia sotto qualcosa. Sia perché non ne ho le prove, sia perché le dietrologie non mi appartengono. Però chissà.
Oppure no, oppure c’è qualcosa di molto peggio della malafede: l’inconcludenza, l’abulia, l’incapacità di occupare un posto di pubblico potere per metterlo al servizio della collettività, ma al contrario usarlo per gestire relazioni, equilibri, parentele e amicizie.
Si sa, in Italia le cose spesso vanno così, e allora è difficile trovare anche il tempo di riconoscere il buon lavoro di chi ha creato dei poli di aggregazione dove prima c’era il nulla. E’ difficile, con tutta la politica che c’è da fare, pensare a garantire i luoghi in cui i cittadini possano godere di quel lavoro. Come se uno facesse l’assessore alle politiche culturali per quello. Ma no, che avete capito.
La politica – quella che dicevo e speravo io, parecchio tempo fa, tanto che quasi non me la ricordo più… - è una cosa diversa.
E’ difficile, non dico valorizzare ed agevolare gli operatori culturali che in questi anni hanno lavorato nei teatri della cintura, ma almeno tentare di non ostacolarli, di non sabotarli.
Di non seppellirli nell’ottuso menefreghismo dell’uomo di apparato. Che è lì per coprire un tassello, non per cooperare al meglio.
Quello sarebbe fare politica, in quel senso bello che ci stiamo scordando.
E mica si può fare tutto, nella vita.