sabato 21 giugno 2014

Game of Thrones, il destino dei figli







Mi par di capire che se c’è un fuoco narrativo, un tema di fondo, dico, che muove la quarta serie di Game of Thrones, la serie di produzione HBO tratta dalla saga di George RR Martin A Song of Ice and Fire.
Mi direte che è una bella scoperta, ma mi sembra di cogliere un punto di vista abbastanza nuovo, per lo meno nel genere, sul rapporto tra padri e figli.
Mi si dirà che in fondo, trattandosi di un fantasy, è una tematica abbastanza consueta. Vero, e per certi versi inevitabile: non giochi a football senza dar calci alla palla cercando di spingerla in rete.
Ma la novità, questa volta, è il punto di vista con il quale la storia è stata pensata e scritta, se vogliamo dirla così, l’angolazione dalla quale si guarda al rapporto con chi ti precede, o con chi prosegue i tuoi passi. 

In un racconto epico, è evidente che il tema del destino, della predestinazione, del peso degli anni e delle ere, delle rivalità antiche, delle onte da lavare col sangue inseguite per millenni, è ingrediente indispensabile.
L’intera narrativa epica, mi sembra di poter azzardare, si fonda sul compimento del destino di un uomo, sia esso patronimico o frutto di predestinazione. 


E gli antichi avevano già intuito ampiamente che l’essere segnati dal destino o da una missione non sempre è fardello accolto con gioia. Andate a dirlo ad Ulisse, che a Troia non ci voleva andare e si finse pazzo, e arò la spiaggia per convincere gli increduli.
O al pio Enea, che per fondare Roma si sporcò la coscienza di un vero e proprio furto di terra con pulizia etnica annessa.
O a Frodo Baggins, mi si passi il parallelismo ardito, che si trovò in mano un anello e non aveva nessuna intenzione di permettere a quel cerchietto d’oro di terremotargli la vita.
Insomma, raccontare un predestinato reticente e recalcitrante non è questa novità.
Ma forse lo è in un genere così ligio ai codici come la fiction tv.
Credo infatti - quando si tratta di narrativa popolare il dubbio è d’obbligo - che un piccolissimo guizzo di novità baleni in questa nuova stagione di Game of Thrones.
La quarta serie mi pare chiudersi con una evidente affermazione non tanto della monoliticità del destino scelto dai padri e consegnato ai figli come di un impegno dal quale è difficile sfuggire, quanto sull'imprevedibilità della strada che quegli stessi figli scelgono per compierlo.

E questo è vero per tutti, siano questi figli ieratici e tormentati, come si addice alla casa Stark, o portati senza ancoraggi dal vento della passione, del potere e della follia, come invece accade agli eredi Lannister.  





I figli si ribellano al destino tracciato dai padri, sia esso riconosciuto e condiviso, sia esso disprezzato ed odiato. Ma lo fanno non tanto perchè disconoscono il valore di fondo, che pare - per lo meno nei casi in cui quel valore esiste - essere ampiamente condiviso, ma perchè in molti casi non capiscono o rifiutano i metodi per perseguirlo, quel valore.

Si ribellano per trovare un’altra strada.
Siano essi figli umani, o rettili volanti generati da uova anch’esse antiche, e tramandate dagli avi, i padri - e le madri - si interrogano sulla propria capacità di indirizzarli, quei figli, di tenerli a freno - ammesso che tenerli a freno sia la scelta giusta – di gratificarli o minacciarli, ma in definitiva sul modo di stringere ancora in mano le redini del mondo. Perchè il momento è solenne, le scritture si stanno compiendo, la lotta è al suo culmine.

E l’inverno, ormai lo sanno tutti, sta arrivando.



C’è, dietro queste preoccupazioni dei genitori, mi pare, una opzione di sfiducia nei propri figli, il dubbio, quasi sempre smentito dai fatti e dalla narrazione, che l’impegno sia molto superiore alle deboli forze di rampolli tenuti troppo al sicuro e troppo protetti dal conflitto che muove la società.
Perché in definitiva, lo sappiamo bene tutti, c’è una giungla, lì fuori.
Ma altrettanto chiaramente mi pare di poter dire che ci sono le preoccupazioni di chi scrive la storia, e di chi vi assiste. L’America si interroga su se stessa, sulla propria missione – vera o supposta, o semplicemente millantata, questa non è la sede per dibatterne – e si riconosce scoperta. E non tanto alle spalle, quanto davanti: verso il futuro.
Chi insegna, i miei amici docenti, o semplicemente chi cerca di passare alla nuova generazione un modo di guardare la vita, un ideale, un sogno - o anche solo una piccola esperienza già fatta su come far bene una cosa - sa quanto sia difficile, con un figlio, o con un allievo, trovare l’equilibrio tra protezione e lungimiranza. Personalmente non credo che la risposta si trovi in alcun libro e sono certo di avere sbagliato parecchie volte, cercando il modo migliore.
I giovani invece ci risponderebbero che semplicemente vorrebbero essere lasciati liberi di sbagliare da soli, ed anche questa è la storia del mondo.

 
Ma quel che mi interessa in questa sede è che questi temi, antichi quanto l'umanità, ed eternamente rinnovabili e rinnovati, perché sempre leggermente diversi da quelli della generazione che ti ha preceduto, possono diventare il fascino e il pathos di una relazione tra personaggi - quel che gli antichi chiamavano semplicemente fabula - e che tutto questo può avvenire attraverso l'azione, attraverso le situazioni, anche attraverso l'esotismo e non necessariamente dentro lo steccato sempre più angusto e claustrofobico del family.



La lezione che ci viene dalla fiction d’oltreoceano è sempre più quella che si può parlare di valori, di problematiche esistenziali, di rapporti umani e relazioni familiari senza necessariamente raccontare storie a tutti i costi edificanti o – peggio ancora – strutturalmente costruite per sfociare in un kyrieleison nel finale buonista.

Ci dimostra, Game of Thrones, ma azzarderei anche Walking dead, Homeland, True detective, House of cards, solo per citare le serie tv che più mi hanno colpito negli ultimi tempi, che il genere non è solo e semplicemente un copione fatto di ruoli mandati a memoria e di frasi fatte, ma può essere invece un ottimo luogo nel quale esplorare e raccontare contenuti umani, stralci di esistenza reale, storie di vita.



Mi rendo conto perfettamente che il primo argomento che si può usare contro quel che ho appena sostenuto è che i costi sono proibitivi per una produzione italiana, e ho più o meno idea di quale budget è servito per realizzare Games of thrones o Walking dead, per dirne due.




Ma sono certo che i miei colleghi sceneggiatori italiani, ed io con loro, sarebbero ben felici di accogliere la sfida.
Perché non è vero che “Loro in America hanno scrittori bravi, registi bravi, attori bravi e qui da noi non farmi parlare…”. 

Certo, qui da noi ci sono personaggi che ti chiedi che ci facciano, scritti nei titoli di testa. Ma sono sicuro che quei personaggi ci sono anche da loro. 

Troppo spesso, il problema è – come si dice in questi casi, spesso per non dire niente – culturale. Intendo dire che troppo spesso non ci si prova neanche, e invece si potrebbe.
Lungi da me qualsiasi tipo di polemica, visto che la fiction la faccio, e cerco di farla al meglio, e so quanta gente preparata ci sia nel nostro settore. E lungi da me qualsiasi tipo di alibi che troppo spesso si sente sventolare per supplire alla pochezza di certe storie e di certi copioni.
Io credo sinceramente – voglio dirlo ancora più chiaro - che anche in Italia ci siano le professionalità e la cultura (a volte) per scrivere e realizzare prodotti come questi. Quanto meno, che abbiamo la stessa voglia di narrare, affascinare, coinvolgere raccontando storie.

E che, quando siamo messi nella condizione di farlo, lo sappiamo fare bene anche noi vituperati scrittori, registi, realizzatori di fiction tv.
 
Il problema, troppo spesso, è la pigrizia, o il conformismo.
Ma ne sono certo, saremmo capaci anche noi, di fare di più e di meglio. Ogni tanto, ci capita già di fare film o serie che il mondo riconosce. Penso a Gomorra  - a proposito, non ci crederete ma la serie è stata scritta da sceneggiatori, anche se nessuno si cura di nominarli: Stefano Bises, Leonardo Fasoli, Ludovica Rampoldi e Giovanni Bianconi, Filippo Gravino e Maddalena Ravagli



a Romanzo criminale - scritto da Giancarlo De Cataldo, Leonardo Valenti, Barbara Petronio e Daniele Cesarano -  ai quali mi sento solo di criticare (pur capendo che l'hanno fatto a ragion veduta) la scelta di una assoluta mancanza di una prospettiva positiva, non sto dicendo di buoni, ma almeno l’intuizione di una via di uscita, ma penso anche a Braccialetti rossi




 – scritto da Sandro Petraglia e Giacomo Campiotti, che sia come sia ha affrontato il tema della morte e della malattia in prima serata su Raiuno. Penso non a caso a tre prodotti di genere. Due crime story e un hospital drama.

Prodotti, come si dice oggi con una pessima parola, che possono dire la loro fuori dai confini italiani.
Non nuovi, nuovo o vecchio significano ben poco, e personalmente ho molti dubbi sul fatto che la parola nuovo sia sinonimo di migliore. 
E meno che mai innovativi, brutto neologismo sempre figlio del culto del nuovo, che nasconde una illusione vichiana di miglioramento progressivo che non ha senso di esistere, se ci si allontana dalle radici.
Io credo, e lo dico al netto delle considerazioni sul costo produttivo, che il genere sia un ottimo veicolo di contenuti, ed anche che ci tenga al sicuro da storie di preti melensi e tutori della legge senza il più piccolo lato oscuro.
Non perché non se ne debba parlare, ma perché forse, per raccontare le stesse cose e per veicolare gli stessi valori – oppure per discuterne e far discutere, che non è detto che la fiction debba per forza incarnare un punto di vista ufficiale – si potrebbero battere molte altre strade, e raccontare molte altre storie alla gente.
Che non è vero che non capisce. 
Capisce eccome.
Quando può scegliere, però.

sabato 14 giugno 2014

QUATTRO SCIOCCHEZZE PER IL COMPLEANNO DI FRANCESCO GUCCINI








Non ho mai scritto qualcosa su Francesco Guccini, forse perché lo hanno fatto in tanti, forse per quel che rappresenta nella mia formazione individuale. E mi rendo conto che è sbagliato, perché qualcosa di pulsante, di vero, me l’ha regalato. 

O meglio. 
Perché le sue parole sono state le prime che, ero poco più che quattordicenne, allora, mi hanno dato la sensazione che quel disagio, quello sconcerto, quel senso di smarrimento con cui mi affacciavo alla vita non era solo mio, e soprattutto, non era destinato agli “anni belli” dell’adolescenza, in mezzo ai quali cercavo affannosamente di traghettare, ma potevano essere la cifra di un’esistenza. Potevano essere il marchio di un modo di vivere.

Ma d' illusioni non ne abbiamo avute,
o forse si, ma nemmeno ricordo,
tutte parole che si son perdute
con la realtà incontrata ogni giorno.
Chi glielo dice a chi è giovane adesso
di quante volte si possa sbagliare,
fino al disgusto di ricominciare
perché ogni volta è poi sempre lo stesso.
(Canzone per Piero)

Canzone per Piero mi ricorda subito il mio vecchio amico di giorni e pensieri, il professor Roberto Danese, oggi raffinato docente di lettere classiche e di tecniche cinematografiche. 
Le nostre sere d’estate passate ad elucubrare sul futuro, e su tutto il resto erano esattamente quelle della canzone del maestro. 
E probabilmente, altrettanto ininfluenti sul destino dell’universo.

Eppure il mondo continua e va avanti
con noi o senza e ogni cosa si crea
su ciò che muore e ogni nuova idea
su vecchie idee e ogni gioia su pianti.
Ma più che triste ora è buffo pensare
a tutti i giorni che abbiamo sprecati,
a tutti gli attimi lasciati andare
e ai miti belli delle nostre estati.
(Canzone per Piero)

Però…
Per fortuna c’era, e c'è ancora, mi pare di poterlo azzardare, un però.
Si poteva – faccio per dire – far diventare quel senso di spaesamento che sentivo agitarsi nella pancia il motore, il propellente. La rotta ostinata e contraria verso il sogno.

Certo, ognuno di noi ha la sensazione – tragicamente falsa, ma inevitabile – che le sue domande adolescenziali siano uniche, speciali. Esclusive. Ed io, seppellito nella periferia della periferia di una città alla periferia di un paese alla periferia del mondo…

…piccola città, bastardo posto…

…non riuscivo a non pensare – come tutti gli altri adolescenti, ho scoperto poi – che quel malessere era una speciale condizione dell’essere. Una esclusiva capacità di intuire la condizione umana.

Le antiche carte dei corsari
portano un segno misterioso
e ne parlan piano i marinai
con un timor superstizioso:
nessuno sa se c'è davvero
od è un pensiero,
se, a volte, il vento ne ha il profumo
è come il fumo che non prendi mai!
(L’isola non trovata)

C’erano, nascoste nei risvolti di quella raffinata eco Gozzaniana, un sacco di cose importanti,
una serie di cose che non era facile raccontare ai genitori, e che, per raccontarle agli amici, c’era bisogno di trovare degli amici veri. 
E anche questo, non è stato un lavoro facile. 



Quelle cose lì, quel dolorino alla bocca dello stomaco, quel… mio dio, ancora una volta la definizione migliore l’ha data Pier Paolo Pasolini: quel sogno di una cosa, per il quale ero capace di non dormire la notte, non era cosa facile da raccontare in giro. Neanche ad una mamma. 
Anzi, soprattutto a lei.
Ma poi, improvviso come un lampo nel cielo notturno, nelle anse di una canzone, sputata fuori dallo stereo, mi era parso di scorgere qualcosa di familiare.

Anch’io tra i fiori, tempo fa,
giocavo sulla sommità
con i compagni miei dentro alla segale,
ma il prenditore non mi ha scorto,
quando son caduto al mondo
per l’eternità.
(La collina)

Mi era parso, in quel delicato ed esclusivissimo omaggio Salinger che si schiudeva in questa canzone, che Francesco Guccini mi stesse dicendo che quelle cose lì le sapeva anche lui. 
E che le sapeva da un bel pezzo prima di me.

Un vecchio e un bambino, si preser per mano…

C’è un racconto di fantascienza che lessi in quegli anni, sarà stato il 1984, direi di Robert Sheckley, ma forse no, e non so più ritrovarlo, anche se mi ha lasciato un ricordo indelebile, che si intitola più o meno: “Dopo che sei stato in equilibrio sul centro esatto dell’universo, che altro ti resta da fare?” 
Il titolo evidentemente non è indelebile come il ricordo, ma è più o meno questo. Se qualcuno lo riconosce, me lo segnali, gliene sarò grato.

In questo racconto, un ragazzino della profonda provincia americana, una specie di Tom Sawyer pensoso e isolato passa l’estate assieme ad un amico silenzioso a fare il bagno in uno stagno affogato nella campagna. Al centro dello stagno spunta un tronco morto e marcito e i due ragazzini giocano a salirci sopra e rimanervi in piedi più che possono. E’ l’estate prima delle superiori, davanti si spalanca il baratro del futuro. E loro, isolati e schiamazzanti, si sfidano a rimanere in piedi su un pezzo di legno fradicio alla periferia del nulla.
Ricordo i brividi, leggendo quella storia.
Insomma, va a finire che l’ultimo giorno d’estate, l’amico di sempre non viene. E il ragazzino ostinato va comunque a fare il bagno nello stagno. E quel giorno… scende un’astronave aliena. 
Aspettate. Non fanno stragi, non sparano col laser. 
I lucertoloni scendono, appendono un cartellino di metallo luccicante proprio al legno marcito in mezzo al lago, e se ne vanno.
Sul cartellino di metallo c'è scritto, in tutte le lingue della galassia (quindi, bonta loro, anche in inglese, ma non so se in italiano...): CENTRO ESATTO DELL'UNIVERSO, AGGIORNATO SECONDO IL RILEVAMENTO DEL...

Proprio lì. Sul legno da cui, per un’intera estate, quei due si sono tuffati.
Che c’entra? C’entra.
Perché in quegli anni di sconcerto e di languori, e di scoperte, e di paura, chissà che avrei dato, perché scendesse una lucertola di Vega a dirci dove cavolo stava, il centro esatto dell’universo. Magari avrei potuto trovare la risposta nelle parole del curato, ma evidentemente, anche se sono cresciuto in parrocchia, non sono state quelle giuste.

Vedete, non erano solamente le strette di stomaco causate dagli ormoni in circolo e dal crollo della ghiandola timo. Non era solo l’overdose di libri, di rock e di cantautori che – dicono i bene informati – non aiuta tanto a maturare, era qualcos’altro, che forse era più vero e lacerante allora che non oggi.
Ma so che ognuno di voi lo sa. Come me.
Solo che probabilmente, come me, non lo sapeva allora. E si sentiva strano, sbagliato, fuori posto.
Poi arriva Guccini e dice di non preoccuparmi. Che sono scemo quanto tutti gli altri.

Perché a vent’anni è tutto ancora intero
a vent’anni è tutto chi lo sa
a vent’anni si è stupidi davvero
quante balle si ha in testa a quell’età…
(Eskimo)

…direte: questa degli adolescenti che si illudono si è già sentita. 
Eh sì.
C’è in tutti noi, più o meno dichiarata, la convinzione che poi arriva un momento in cui la vita prende il sopravvento, in cui le cose – come si dice di solito – concrete passano in prima fila. 
In cui le preoccupazioni quotidiane ti costringono ad appoggiare i piedi per terra.

La vita quotidiana, ti ha visto e già succhiato
come il caffè che bevi appena alzato
e l’acqua fredda in faccia
cancella già i tuoi sogni
e col bisogno annega la speranza…
(La canzone della vita quotidiana)

C’è, in tutti noi, la convinzione che sì, va bene, l’adolescenza è il momento delle domande, ma poi c’è la vita. C’è indubbiamente anche una buona quantità di verità in questo. Salvo che, in quello
sconcerto, in quel sogno della giovinezza, di cui la vita inevitabilmente deve essere la realizzazione, non può non esserci la radice dell’uomo che sarai.

E infatti, Eskimo, la canzone da cui è partita questa digressione, continua  così:

…oppure allora si era solo noi
non c' entra o meno quella gioventù:
di discussioni, caroselli, eroi
quel ch'è rimasto dimmelo un po' tu...
(Eskimo)

Invece no. Eh, per Dio. Invece no. 
C’è differenza tra crescere e invecchiare. E non esagero se dico che questo ho cominciato a capirlo ascoltando le canzoni del maestrone, che forse giovane non è stato mai.

Non sai che ci vuole scienza, ci vuol costanza,
ad invecchiare senza maturità,
ma maturo o meno io ne ho abbastanza
della complessa tua semplicità.
Ma poi chi ha detto che tu abbia ragione,
coi tuoi "also sprach" di maturazione
o è un' illusione pronta per l'uso
da eterna vittima di un sopruso,
abuso d' un mondo chiuso e fatalità;
ognuno vada dove vuole andare,
ognuno invecchi come gli pare,
ma non raccontare a me che cos'è la libertà!
(Quattro stracci)

Sono stato a casa di Francesco Guccini, la prima volta, alla fine degli anni ottanta. Era appena uscito “Quello che non…”, ed andai ad intervistarlo a Bologna. Via Paolo Fabbri 43, credo di non svelare alcun mistero.

Fra "krapfen" e "boiate" le ore strane son volate,
grasso l' autobus m' insegue lungo il viale
e l' alba è un pugno in faccia verso cui tendo le braccia,
scoppia il mondo fuori porta San Vitale…
(Via Paolo Fabbri 43)

Ovviamente avevo un milione di domande da fargli, e molte esulavano dal disco in uscita, e il solerte discografico, il mio amico Paolo Romani, vigilava che la promozione fosse fatta come Dio comanda. E allora, glielo chiesi alla fine, quando ci fermammo a fare due chiacchiere in quel giardinetto affollato di gatti e Francesco tirò fuori l’immancabile fiasco con il rivestimento di
paglia. Gli chiesi se alla fine non fosse meglio tenerseli stretti, quei sogni di ventenni che ci avevano resi stupidi.
Vedete, Francesco Guccini è difficile da intervistare, lo ammetto.
Ma molto più difficile da interrogare, perché rifugge a qualsiasi eco per quanto lontano di retorica. E allora, prendendosi il tempo di un bicchierozzo, mi squadrò con un lampo ironico, e io seppi che avevo fatto la mia, a sparare quella domanda.
“Perché, tu sei capace di scegliere se liberartene o no?”
Eccolo là. Finii il mio bicchiere di rosso, e pensai che un giorno gli avrei risposto.
Perché ero davvero convinto, che in quel suo continuo interrogarsi su cosa si fosse perduto dei sogni e degli ideali della giovinezza non ci fosse la sconfitta. Forse un po’ di malinconico disincanto, questo sì. Ma non la sconfitta. Ultimamente, soprattutto nell’ultimo disco, la stanchezza, questo sì.

(e per inciso, come potrebbe essere diversamente, quando ad ogni angolo spuntano nuove idiozie da scansare?)

Stanchezza, ma non sconfitta. 
Perché l’ideale, perfino per uno come lui che ne racconta la dolorosa assenza, vola sempre più alto.
Lo ho incontrato altre volte, da allora. Scorbutico e spigoloso, ma denso come uno sciroppo. Con quel senso di sospetto verso gli intellettuali che eredita dal contadino che ha dentro, brucia con l’ironia qualsiasi volo pindarico. 
Ma, intellettuale suo malgrado, non può fare a meno di volare.

Venite gente vuota, facciamola finita,
voi preti che vendete a tutti un' altra vita;
se c'è, come voi dite, un Dio nell' infinito,
guardatevi nel cuore, l' avete già tradito
e voi materialisti, col vostro chiodo fisso,
che Dio è morto e l' uomo è solo in questo abisso,
le verità cercate per terra, da maiali,
tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali;
tornate a casa nani, levatevi davanti,
per la mia rabbia enorme mi servono giganti.
(Cyrano)

Mi sono sempre detto che gli avrei risposto, e lo faccio oggi, che compie 74 anni.
No, Francesco. Magari non ti ricorderai neanche di quella domanda e di quella volta là.  Anzi, senza magari. Ma io ti rispondo lo stesso, te lo devo.
Non solo non sono capace di scegliere se abbandonare o meno il sogno della giovinezza. 
Ma non voglio neanche. Sono come la bambina portoghese, e continuo ad esserlo, anche se non ho più l’età per definirmi bambino. Continuo ad intuire qualcosa che sta lì. 
Dietro l'angolo, a portata di mano. 
E io non sono capace di afferrarlo.

O sogni o visioni, qualcosa la prese e si mise a pensare,
sentì che era un punto al limite di un continente,
sentì che era un niente, l'Atlantico immenso di fronte...
E in questo sentiva qualcosa di grande
che non riusciva a capire, che non poteva intuire,
che avrebbe spiegato, se avesse capito lei, quell' oceano infinito...
Ma il caldo l'avvolse, si sentì svanire e si mise a dormire
e fu solo del sole, come di mani future;
restaron soltanto il mare e un bikini amaranto...
(La canzone della bambina portoghese)

Ma questo, in mezzo a quel mare di sconcerto che erano i miei
sedici anni, mare sterminato come l’Atlantico immenso di fronte, me l’hai insegnato tu: a non vergognarmi dei miei sogni. Anzi, a coltivarli e inseguirli, perché contengono in sé una domanda che non si può mettere a tacere. Anche se, purtroppo, non ho incontrato nessuno che sapesse darmi una risposta che acquieta il cuore.
Almeno, fino ad oggi.