venerdì 25 luglio 2014

DURA PIOGGIA CADRA'


E' che... una volta che hai deciso di lasciarlo andare per il mondo, di non ostinarti a scriverlo e riscriverlo, cambiare, limare, togliere aggiungere dubitare e amletizzare... insomma quando hai deciso di separartene e rassegnarti al fatto che esca, che venga letto, criticato, a volte amato, a volte non capito, a volte disprezzato... beh, quando decidi tutto questo, non vedi l'ora che esca.
Mi succede esattamente questo.






(...) Come è stato possibile, che succedesse a lui. 

Il vecchio sa che quello che gli è appena successo non si può liquidare frettolosamente con un coma etilico. Si è rintanato dentro se stesso alla ricerca di una risposta, ecco cosa, di un buon motivo per andare avanti. E non perché aveva bevuto.

Non solo.

Le luci della città, là in fondo, non sanno dargli risposte. L’acquedotto romano, circondato da rovi e coperto di scritte, si staglia contro i lampioni gialli che illuminano il caseggiato.

Roma, antica città. Ora vecchia realtà.

E’ bella, e antica, e incomprensibile, posso vederla con gli occhi del vecchio. Posso sentire il vento sulla sua pelle e assaporarne il profumo.

Il vecchio chiude l’impermeabile, rabbrividendo. Che cretino. Tutto, potrebbe andare all’aria. Solamente perché non è più capace di reggere il peso della sua missione.

Eppure hai accettato con entusiasmo, quando l’eternità ti sembrava una bella prateria su cui lanciarti al galoppo.

Hai detto bene: sembrava.

Non avrebbe pensato di arrivare al punto di desiderare di arrendersi, abbandonarsi e lasciarsi andare, spiaggiarsi da qualche parte e lasciar perdere tutto.

Cadere in un posto qualsiasi, e dormire. Nient’altro. Un modo sciocco e piccolo per mettere in pace il cuore, dimenticare i dolori accumulati nell’anima. Patteggiare un sogno che non si trasformi in un incubo, purché non preveda risveglio. Sia tranquillo, da bambino, sia che puzzi del russare da ubriaco. (...)


(Dura pioggia cadrà - Castelvecchi editore. A settembre in libreria) 

domenica 20 luglio 2014

UNA TIGRE NELLA NOTTE DI ARZANA - UNA STORIA ANTICA, COME POTREBBE ESSERE ANDATA DAVVERO.




“Dormi” diceva la mamma.
Ma la piccola Elisa continuava a guardare fuori, a quel cielo che l’assenza di luce elettrica riempiva di stelle.
Le notti di Arzana cerco di immaginarmele simili a quelle che conosco, notti estive con l’odore di mirto e di montagna che arriva galleggiando sull’aria ferma e rovente, appena scossa da un soffio che soffia dai boschi, erano buie, probabilmente. Interrotte dalla luce di piccole lanterne a olio che ingialliva i quadrati delle finestre.
“Dormi, se no arriva a Stocchino” diceva la mamma – bisnonna Murredda.
E la piccola Elisa chiudeva gli occhi nella penombra dello stanzone.
Stocchino, il bandito, viveva a Supramonte. O almeno, così raccontavano gli uomini in paese, anche se nessuno poteva dire di averlo visto davvero, dove si nascondeva.
E se qualcuno giurava di sì, fabbulando, stava.
Li strizzava, gli occhi, quasi, per fare credere che stava dormendo davvero, e che potevano dire al bandito che restasse dov’era, infilato nella macchia o acquattato in qualche domus de janas, su per i boschi di lecci e querce di sughero che a quel tempo coprivano completamente il dorso del monte.
Il Gennargentu, la porta d’argento. Supramonte.


C’erano i falchi, lassù. E i mufloni. E cespugli di mirto aggrappati alla roccia. E c’erano quelli che si nascondevano.
La mamma aspettava che gli occhi della piccola smettessero di agitarsi qui e là sotto le palpebre – quanti sogni, nella testa di quella figlia… - e che il respiro si facesse profondo.
Allora, forse,  rimboccava le coperte e se ne andava a dormire pure lei.
Ma forse no, probabilmente quello era un mondo diverso, con meno delicatezze, forse allora tutto era più ruvido, più sbrigativo, non c’era tempo per le smancerie: il lavoro quotidiano era sopravvivere, e i figli – soprattutto se ne avevi dieci, e avevi un gregge aggrappato alle pendici del grande monte a rosicchiare le stoppie e i gambi del mirto selvatico, e avevi un laboratorio di falegnameria da mandar avanti – erano la quotidianità assidua e sbrigativa, in mezzo ad milioni di altre cose da fare.
Non c’era tempo per delicatezze e nostalgie da ricchi.
I bambini che cercavano troppo la mamma erano guardati con disapprovazione dai vecchi che stazionavano in piazza a godersi il poco fresco della sera distribuendo lapidarie sentenze. 
Este sempere appicigau a s'antalena de sa mama
E’ sempre attaccato al grembiale, non sa cavarsela da solo.
Così, forse, la mamma – bisnonna Murredda – non le rimboccava proprio per nulla, le coperte, alla piccola Elisa. Ma solo forse.
Perché è bello pensare che qualche ruvida carezza riuscisse a strapparla, a quella mamma che cominciava a diventare anziana.

La piccola Elisa, zia Elisa, era l’ultima di una famiglia di dieci, dodici figli - non ho mai capito esattamente, tra bambini morti piccoli ed altri figli dispersi in guerre novecentesche, e carbonchio e polmonite – una bambina nata quando i fratelli più grandi erano già uomini.
Quando io l’ho conosciuta, o inizio a ricordarla, era già vecchia.
Gonna nera e scialletto nero – su mucadore - sulla camicia grigio acciaio accollata. Occhiali da vista e crocchia stretta stretta, su quei capelli ancora neri. Sempre sorridente, di quel sorriso rassegnato di chi ha visto la vita e sa che non vale la pena di prendersela. Saldamente appoggiata su quel fatalismo sardo che niente al mondo può scalfire, e che la teneva al sicuro, passava gli ultimi anni tra biscotti di mandorle e centrini all’uncinetto.
Ma gli occhi, quelli li ricordo bene, erano occhi vivi, e sorridenti, e brillavano di una dolcezza che mi conquistava. O forse era solo che i vent’anni, che aveva in meno dai suoi fratelli, la rendevano più vicina a me.

Ma allora - erano gli anni venti, i fratelli più grandi  erano giovanotti e ragazze da marito, lei – la piccola Elisa - era un affarino di sei sette anni con lo sguardo guizzante e la carnagione olivastra, e i capelli appena venati di un vago castano a stemperare il corvino, una sorpresa arrivata fuori tempo massimo a rinnovare la casa di genitori ormai maturi.
E quando strizzava gli occhi e si imponeva di dormire, lei aveva paura sul serio, che venisse il bandito Stocchino a prenderla e a portarla chissà dove, a Supramonte. Che da certi posti indietro non si torna, e neanche un corpo da reclamare, torna indietro.
“Dormendo sto. Giuro.”
Sussurrava allora, senza aprirli più.
I fratelli, sdraiati su coperte e pagliericci disseminati dappertutto per la notte ridacchiavano e scuotevano la testa: Cesare, Emilio, i miei zii. Ermelinda, Elena, le mie zie. E il nonno, Antonio.
E’ lui che mi ha raccontato questa storia.
O meglio, è lui che qualche volta s’è lasciato strappare via qualche ricordo a  mezze frasi, perché da arzanese, vedeva i chiacchieroni come il fumo negli occhi, e parlava lui stesso il meno possibile.
Qualche volta la mia curiosità di bambino è riuscita a fare breccia, ed ho ottenuto, intramezzato da borbottii e cenni incomprensibili di diniego, qualche racconto, solo dei piccoli pezzi, intorno ai quali ho cercato di immaginare il resto.
E così, la piccola Elisa – zia Elisa - la piccolina, il frutto tardivo di una generazione di dieci figli De Murtas, nata quando mio nonno Antonio era già ventenne e la primogenita, Elena, era già in età da marito -  prende forma nei miei ricordi, come se ci fossi stato davvero, e ve lo giuro, posso vederla, mentre chiude gli occhi spaventata dalla minaccia che ‘su bandiu Stocchino venga a prenderla e se la porti via per sempre. 
E allora si gira di là, in quella stanzona arroventata dalla vampa che sale dalla pianura, appena appena mitigata, durante la notte, dal vento che soffia dal monte. Ma poi, col caldo, su ’entu s'adi onau un’asselliada, il vento si è dato una calmata, ed ora stagna tutto, in un’afa sudata e tignosa.


Arzana, un’estate degli anni venti.
Non so come fosse veramente allora, quella casa sul confine della sera, non ho notizie sufficienti per descriverla. La ricordo molti anni dopo, erano gli anni sessanta ed io ero un bambino.
Posso solo tentare di immaginare, mettendo insieme ricordi e racconti, come suonava, di che colore apparisse la mattina d’estate, quando la vampa saliva alla pianura portando con sé l’odore delle stoppie bruciate, il dolciastro dei fichi d’india e dei cespugli di mirto, e l’odore lontano del mare… quello lo so.
Perché ce l’ho dentro.
E raccontare questa storia, prima di tutto, vuol dire tornare a visitare un luogo dell’anima con lo sguardo incantato di un bambino.
Probabilmente i figli dormivano tutti al piano terra, in quello stanzone che faceva anche da stalla, e da stanza comune. Forse qualcuno nel laboratorio di falegnameria, se già c’era, come lo ricordo io, uno stanzone coi mattoni a vista e senza intonaco, con un tavolone fatto di travi. Il piano terra della casa era completato dalla cucina, dove c’era il camino e la stufa a carbone.
I genitori dormivano sopra, in quel piano superiore fatto di legno, incannicciato e malta, che ricordo ondeggiante sotto i miei passi di bambino, sessant’anni dopo.
Sa domo manedda.



Quell’estate, la piccola Elisa aveva per la prima volta avuto il permesso di scendere al fosso, il Rio Flumendosa che scorreva in fondo alla valle, con la mamma, quando andava a lavare i panni.
Giù per il sentiero di terra rossiccia, che si disegnava incerto tra cespugli e muretti a secco, la bambina poteva intuire laggiù in fondo la pianura che digrada verso il mare dalla quale si alzavano verso il cielo ondate di calore. 


E sentiva la polvere depositarsi come cipria nei graffi di sassi e di spine sulle gambe e sui piedi nudi. E si sentiva, in fondo, orgogliosa di quelle nuove responsabilità che l’età porta con sé.

Ed eccola che cammina di buon passo cercando di tenere dietro alle donne che si affrettano al fosso, che c’è sempre tanto da fare, e il tempo non basta mai.
Ed eccomi, mentre mi inoltro con cautela in una scena che ho visto troppe volte, con gli occhi dell’immaginazione, oppure seguendo le poche tirchie parole di mio nonno, e mi chiedo se scritta su carta sarà uguale.
Quel giorno, mentre la mamma – bisnonna Murredda - e le altre donne lavavano, Elisa si era avventurata su per il ruscello che scendeva a valle ad alimentare il fosso. Non era proprio andarsene, il suo, che a pochi passi alle sue spalle, tra i ciuffi di sterpi e di cespugli di mirto, si sentiva il tonfo ritmico dei panni sulle pietre, e quella specie di guinzaglio sonoro la teneva legata e insieme la tranquillizzava, ma un pochino la faceva sentire coraggiosa, la piccola Elisa.
Così, saltando in mezzo alle pozze di acqua stagnante, dove si affollano i girini, un po’ spiando quale mondo fatato si nascondesse dietro il prossimo cespuglio, era arrivata ad una radura, una specie di spiazzo polveroso tra gli alberi, con i raggi del sole a filtrare in diagonale tra le fronte.
E si era accorta subito che non era sola.
C’era un uomo, scarpe nere alte, pantaloni di fustagno,  fucile in una mano e ‘sa berritta calcata in testa, che attraversava lo spazio aperto con passo svelto, sguardo guardingo da felino e passo leggero da creatura dei boschi, per imboccare il sentiero che si perdeva nella selva verso il monte.
Esitarono entrambi, vedendosi.
E alla piccola Elisa bastarono pochi secondi, per riconoscerlo.


Il soldato Stocchino, numero di matricola 2567,  figlio di Felice Stochino e Antioca Leporeddu, era nato a Arzana, nel rione Preda Maiore, il 22 Maggio 1895 quartogenito di 7 figli.
Suo padre era capraro, ed anche lui era stato avviato allo stesso lavoro, fino a che invece, nel Giugno 1915, non partì soldato, destinazione Tripolitania e Cirenaica.

Era un personaggio contraddittorio, indefinibile, Stocchino.
Capace, in quegli anni di guerra, di beccarsi otto mesi di carcere militare per non avere obbedito agli ordini, e subito dopo – appena scontata la pena e riassegnato al servizio - una medaglia d’argento al valor militare sul Carso, “per avere espugnato una postazione nemica da solo, in totale autonomia.”
Indubbiamente due avvenimenti che testimoniano allo stesso modo la sua anarchia e la sua insofferenza alla vita militare.
O in generale, alla logica dei militari.
Quando quel giorno lo vide, la piccola Elisa, sgattaiolare nei cespugli come una bestia da preda, o come un animale braccato, Samuele Stocchino era latitante già da tempo, dopo che, congedato alla fine della guerra, aveva iniziato la carriera di ladro e di bandito di passo. 
In realtà la storia sembra originarsi da questioni di furto di bestiame, e dalla decisione di Samuele prima di ritrovare le sue bestie e poi di farsi giustizia da solo. 
L'escalation sembra prendere i moventi da lì.
Benito Mussolini in persona, come d’altra parte stava facendo in Sicilia contro i mafiosi, gli aveva dichiarato una guerra personale, e Stocchino, ladro di bestiame, bandito, ormai fuorilegge dichiarato, aveva sperimentato tutto il peso di quella offensiva, stretto d’assedio contemporaneamente dal Regime e dalle famiglie rivali.
Il resto è storia del mondo.
La storia di un piano inclinato, di una sequenza di avvenimenti che trasforma una persona tranquilla in un assassino.
Come succede in tutti i paesi di pastori e contadini del mondo, e non solo ad Arzana, antiche rivalità, bestie sparite, muretti spostati, confini incerti e fluttuanti avevano alimentavano faide e rancori che erano stati capaci di rimanere sotto la cenere per decenni, ad aspettare il momento di esplodere.
Lui era un uomo mite, si racconta. 
Stava progettando il matrimonio con una ragazza, Giovannangela, ed era stato accusato per antiche rivalità familiari di un furto che non aveva commesso. Dopo aver tentato di scagionarsi, inutilmente, aveva accettato di scontare la pena nell'esercito, rendendosi protagonista di atti di eroismo, oltre che di smaccata insubordinazione.
Rientrato ad Arzana, si era trovato a fronteggiare le stesse ostilità e gli stessi problemi, aveva tentato la fuga assieme a Giovannangela che gli era morta tra le braccia ai piedi di Perda Liana, dove l'aveva sepolta con le sue mani sotto un letto di timo, come un uomo innamorato.


E così, quando ‘su bandiu Stocchino aveva scelto la strada del Supramonte, mani ignote avevano incendiato la casa dei suoi nonni, i campi di suo padre erano stati distrutti durante la notte, compromettendo i raccolti, e – quindi – la sopravvivenza della famiglia, e i Carabinieri erano venuti ad arrestare la sorella Maria, accusandola di favoreggiamento di quel fratello alla macchia, il cui nome ormai passava di bocca in bocca nei vicoli di Arzana con un sussurro di spavento e perfino con un accento di ammirazione.

Un uomo capace di assaltare una postazione nemica da solo è anche capace di concepire una guerra tra sé stesso e il resto del mondo. E Stocchino aveva reagito in modo esagerato e feroce, ribattendo colpo su colpo ed uccidendo senza pensarci sopra.
Erano azioni sfacciate, provocatorie, una sfida diretta al Potere e ai Carabinieri, con i quali, in quello scorcio di anni venti, si scontra a fuoco più e più volte. E più volte riesce a sfuggire ad imboscate, soffiate, retate.
Il Duce – esasperato da quel bandito intoccabile che rischiava di diventare un mito edificato nel terrore - era arrivato a minacciare di bombardare Arzana e raderla al suolo. 


Venne anche messa una taglia, sulla testa di Samuele Stocchino, duecentomila lire, una cifra spropositata per il tempo, che dice chiaramente quanto fosse diventato importante, per il regime, prenderlo e dimostrare che esisteva una sola linea di condotta possibile: quella della legge.
Ma questo non aveva impedito a Samuele Stocchino, con la sua opposizione matta e disperatissima di diventare un eroe romantico.

Sa tigre de Ogliastra.

Ditelo ai parenti delle sue vittime, mi si dirà.
Ed in effetti, i segni del suo passaggio al mondo sono ben marchiati col colore del sangue. 
Però parliamoci chiaro, c’era qualcosa di davvero affascinante in quell’uomo, che era riuscito per anni a tenere in scacco non solo i suoi nemici arzanesi, ma addirittura lo Stato, combattendo da solo, dormendo nei boschi o nelle grotte scavate nella roccia dai pastori, e prima ancora dagli antichi abitatori preistorici dell’isola: le domus de Janas, le case delle fate.

Inutile negarlo, ci sono momenti in cui siamo tentati di fare il tifo per lui.
Questo, al netto dei suoi omicidi, e delle sue efferatezze sanguinarie, della sua vita scapestrata.


C’era in lui quell’anarchismo senza quartiere – e probabilmente senza ideologia – che fa sì che il pastore sardo si aggiri tra i campi e le stoppie, costeggiando gli strapiombi di granito, beffando i confini e rubando bestie, una guerra antica di cui non possiamo dimenticarci e che non deve scandalizzarci, perché ha fatto parte, per millenni – giusta o no - della tradizione rurale.
Era quella sensazione che non è neppure insofferenza, ma disinteresse verso lo Stato che arriva dall’altra parte del mare, dal continente, a dare delle regole e a pretendere di farle rispettare da carabinieri veneti.
Era un qualcosa che assomiglia ad un: ma che ne sapete voi.
Parlare di legalità e di regole era cosa difficile da comprendere. 
Era come parlare ai sassi.

Allegare a is pedrasa, a is mortusu, a is surdusu, e su desertu

 Ma questo, la piccola Elisa non lo sapeva.
Per lei Samuele Stochino era solo il bandito che se non dormi arriva e ti porta via, ed ora era quell’uomo col fucile in mano, appoggiato in terra dalla parte del calcio, come se fosse un bastone per camminare, che stava lì davanti a lei, e la guardava, indeciso, prima di imboccare il sentiero.
Era stato poco più di un attimo, dilatato fino all’infinito nel silenzio che di colpo le si era fatto in testa, un silenzio assoluto, eterno, impastato di paura e di fiato sospeso. 
Lui l’aveva fissata con quegli occhi neri e guizzanti sotto una fronte troppo larga, e si era portato un dito alle labbra. Non avevano parlato, ma spesso, in Sardegna, è nel silenzio che si sussurrano cose importanti.
Elisa aveva esitato, si era accigliata, e l’espressione buffa del broncio di concentrazione sul suo viso di bambina aveva strappato a quell’uomo l’ombra di un sorriso.
La piccola, di rimando, aveva sorriso anche lei. 
Poi lui era sparito su per il crinale in uno sbuffo di polvere rossa. Si era arrampicato lungo il costone di roccia, fiancheggiando i quattro salti d’acqua che dal monte scrosciavano verso il basso.



Di colpo, i suoni della macchia e le voci delle donne alle sue spalle e lo sciacquettare dei panni nell’acqua del fosso erano ritornati a chiamarla alla realtà. 
Elisa era tornata sui suoi passi, in silenzio.
Intorno alla fonte le donne parlottavano torcendo i panni per strizzarli dall’acqua del risciacquo. Su quei rumori si era orientata, per tornare indietro. Ma quando ormai era a poca distanza dal ruscello e dalla voce ormai ben distinguibile di mamma, da un’altra diramazione del sentiero erano spuntati due uomini in divisa.
Due Carabinieri.
Lei era sobbalzata, pronta a fuggire, che quegli estranei con una divisa estranea le facevano un po’ paura, e poi non si sa mai cosa vogliono, quando ti cercano qualche guaio te lo fanno passare, la scusa la trovano, lo diceva sempre anche suo padre. 
Elisa aveva fatto il gesto di ritornare sui suoi passi, o di evitarli, o qualcos’altro che ora non sapeva.
Ma uno di quelli l’aveva fermata, era un ragazzo con una faccia liscia e gli occhi chiari e un accento strano, che stringeva un moschetto bilanciandolo davanti al petto con tutte e due le mani. E le aveva detto – con quella parlata strana cantilenante  che  lei a malapena capiva - che stavano cercando un uomo.
“Samuele Stocchino, il bandito, lo conosci?”
Lo inseguivano da un bel pezzo, aveva detto, ma lui era veloce, in mezzo a quella terra e quei sentieri che conosceva bene. E le aveva ripetuto – con quella intonazione estranea che la respingeva – se  lo aveva visto, quell’uomo, mentre saliva su per il crinale, verso Supramonte.
Lei non ci aveva pensato un attimo.
Aveva scosso la testa senza parlare, con le mani dietro la schiena. No, nessun uomo. Quale uomo poi? 
Qui c’era solo il chiacchiericcio delle donne che lavavano i panni e il rombo del sole di mezzogiorno che ti batte a mano aperta sulla testa e il soffio del vento tra gli scogli di pietra bianca del Gennargentu.

Quale uomo.
Aveva pensato Elisa, continuando a fare di no con la testa.
Loro si erano guardati sconfitti e si erano arrampicati ancora, in mezzo alla selva di tasso, e leccio, e agrifoglio e lauroceraso, su per quel monte estraneo.
E lei, raggiungendo le donne che stavano raccogliendo le ceste piene di panni umidi per tornare in paese, si era guardata bene dal raccontare di quegli incontri.

Quella notte, Elisa aveva dormito.
Si era inoltrata nel sonno continuando a pensare allo sguardo di quell’uomo e chiedendosi cosa sarebbe successo, se la mamma avesse scoperto tutto. Ma era sicura: non doveva parlare. Lui l’aveva guardata, ed aveva messo un dito sulle labbra, e quel segno aveva un solo significato.
Che doveva fare silenzio, che tutto questo rimaneva tra loro due.
E lei avrebbe fatto silenzio, perché sentiva che poteva fidarsi, di quegli occhi. Non era neanche servito che la mamma venisse a dirle di dormire, che se no veniva il bandito Stocchino.
Che poi, perché sarebbe dovuto venire a cercarla.
Le aveva detto di stare zitta, e lei lo aveva fatto.
Ma poi, improvvisamente, nel cuore della notte, si era trovata sveglia, di colpo. Incomprensibilmente in allarme, aveva teso le orecchie nel buio dello stanzone in cui stagnava il caldo e l’odore greve del sonno, ma aveva sentito solo il russare dei suoi fratelli nei loro giacigli.
Eppure qualcosa l’aveva svegliata. 
Un movimento, un rumore, forse una porta che si muove spinta dal vento, che a volte, nella notte, si alza e soffia dal monte. Eppure, no, nella notte l’aria era ferma e stagnante come olio.
Ma allora cosa. Un animale nella stradina davanti a casa. Un cane randagio. O qualcos’altro che comunque si era portato via il sonno.
E così, senza sapere neppure perché, la piccola Elisa si era messa a pensare.
Chissà se Carabinieri lo avevano trovato, poi, ‘su bandidu Stocchino, mentre si arrampicava sul dorso del monte verso le zone più erte e impenetrabili.
Ma no, in paese lo avrebbero saputo subito, se i Carabinieri avessero arrestato la tigre di Ogliasta. Ne avrebbero parlato nei crocicchi e negli androni delle case, e sul sagrato della chiesa, e anche suo padre e sua madre ne avrebbero parlato, se quelli là avevano arrestato Samuele Stocchino, su bandiu di Arzana.
Ma forse no. Forse non ne parlavano perché era una cosa così grossa che non si doveva commentare davanti ai bambini.
Forse sapevano, e si erano detti con gli sguardi che avrebbero commentato dopo, quando lei non c’era, e anche i suoi fratelli sapevano, Antonio, Cesare, Emilio – il nonno, gli zii… - e non le avevano detto niente.
Oppure no, non lo avevano preso, quei Carabinieri, però lo avevano raggiunto, mentre stava raggiungendo la selva, un attimo prima che potesse sparire. Si erano sparati,  lui appollaiato sopra un costone di roccia al riparo e loro sotto, in mezzo al sentiero, a naso in su, e alla fine i carabinieri erano stati costretti a rinunciare, che erano troppo esposti, e lui era riuscito a fuggire.
Ed ora era volato via, lo sa Dio dove.
Però,  se l’avevano trovato, forse Stocchino aveva pensato che qualcuno ai Carabinieri doveva averglielo detto dove era, e come seguirlo.
Da che parte stava andando.
Ed ora lui era lassù, a Supramonte, ed era convinto di essere stato tradito.


Arrabbiato con quella bambina che nella radura, annuendo silenziosa, gli aveva giurato che non avrebbe parlato.
Sì, forse era scappato, ed era furioso con lei, perché era convinto che avesse detto ai Carabinieri dove andava e come trovarlo.
Così aveva pensato la piccola, tendendo le orecchie nel buio, attenta al minimo rumore, perché, ora ne era sicura, aveva sentito qualcosa muoversi.
Di là.
In cucina.
Elisa ne era certa, non si trattava della sua immaginazione.
C’era qualcuno che si muoveva di là. Aveva cercato di zittire il cuore che le esplodeva tra le tempie in tonfi enormi come colpi di tamburo, e aveva teso le orecchie, cercando di capire l’attimo in cui quell’uomo che si aggirava in cucina – e lei sapeva, chi era - sarebbe apparso sulla porta dello stanzone, guardandosi attorno, tra i corpi addormentati, per scoprire dov’era quella piccola spia.
Quella bambina bugiarda che aveva promesso di star zitta e invece no.
Si era detta che quando lo avesse visto stagliarsi nel rettangolo della porta, sarebbe rimasta ferma ed immobile e non avrebbe neppure parlato, non avrebbe fatto rumore, che era meglio così.
Che se faceva rumore e i suoi fratelli e suo padre si svegliavano lui, il bandito Stocchino, li avrebbe uccisi tutti, perché non c’era scampo se eri nella sua lista.
Né per te, né per chi cercava di difendersi.
Allora la piccola aveva deciso che se lui era venuto lì per ucciderla – anche se, glielo giurava, lei non aveva parlato, non aveva detto nulla - sarebbe rimasta immobile nel suo letto, con gli occhi chiusi, fingendo di dormire.
E se così doveva andare, avrebbe aspettato il colpo fatale stingendo le palpebre e tremando, ma non avrebbe urlato, no, così lui si sarebbe preso la sua vendetta e se ne sarebbe andato, risparmiando tutti gli altri.

Io me lo ricordo bene.
Fin da bambino ho sentito raccontare del bandito Stocchino. Non erano chiari, nei racconti, i confini tra la storia reale – che ci dice di un uomo braccato, forse all’inizio ingiustamente, ma che poi divenne un fuorilegge feroce, e il mito, nel quale era difficile mascherare l’ammirazione per qualcuno che - da solo - tenne testa per anni al Sistema, di qualsiasi colore fosse. 
Inoltre a molti sardi piaceva credere che le ragioni della sua ribellione fossero diverse dal semplice banditismo, che ci fosse una opposizione sostanziale ad un sistema estraneo, e che questo lo rendesse diverso, per esempio, dal bandito Mesina. 
Che quella sua ribellione c'entrasse qualcosa col rifiuto di un potere che era venuto fin sull'isuledda soltanto per depredare, imporre regole dall'esterno,  colonizzare la Sardegna e a farne una depandance dell'Italia dei ricchi, ed in seguito, dell'Europa.
Insomma, un altro capitolo di una guerra lunga con lo Stato unitario, nella quale non necessariamente le ragioni stanno sempre dalla stessa parte.
Però il sangue lo versò, eccome.
La leggenda che ha fatto del bandito Samuele Stocchino un mostro che spaventa i bambini, ha radici storiche inconfutabili, e nasce nell’arco di un breve semestre, scandita da un rosario di vittime arzanesi, frutto della sua spietata reazione alle offese che aveva subito la sua famiglia.
Samuele vendicò i torti subiti dai nonni, dal padre e dalla sorella colpendo uno per uno i membri delle famiglie rivali che avevano partecipato a quelle azioni o coloro che avevano aiutato. Fu una risposta violenta, senza margine di trattativa. Uccise dodici persone in pochi mesi, si racconta, senza guardare in faccia a nessuno: uomini, donne, e perfino una bambina di dodici anni, figlia di uno dei suoi rivali, Antonio Nieddu. 


A niente valsero i posti di blocco, la messa in stato d’assedio della cittadina di Arzana, il massimo allerta tra le forze dell’ordine. Samuele Stocchino scendeva a valle, spesso di notte, attraversava le vie indisturbato, colpiva e spariva. 
Alla fine di quell’ondata di omicidi tutte le famiglie dei suoi nemici avevano da piangere almeno una vittima.
E al mito della tigre di Ogliastra si era aggiunta una vermiglia coloritura di sangue e il sapore greve della paura.

Paura che aveva scandito quella notte lunghissima, che Elisa aveva passato sveglia, ad origliare i suoni che arrivavano dalla cucina, una notte che non mi è stata mai raccontata, ma che posso immaginare, a completare le lacune del racconto.
Poi, non si sa come, non si sa perché, la notte si era improvvisamente trasformata in alba e dalle scuri aveva cominciato a filtrare un po’ di luce. Nella penombra, i suoi fratelli e le sue sorelle erano solo sagome grigie attorcigliate nel lenzuolo. E per quanto tendesse le orecchie e si sforzasse di sentire, dalla cucina non arrivava più alcun rumore.
Ammesso che ci fosse stato un rumore, ammesso che avesse davvero sentito qualcuno, si era detta, in quell’attimo silenzioso che precede il giorno.
Subito dopo, da fuori, erano iniziati ad arrivare i primi rumori, un carretto, un gregge che attraversa il paese, il canto di un gallo.
E infine il passo strascicato di mamma giù per le scale, e verso la cucina.
Deur de su Chelu.
Aveva sussurrato la mamma, così piano che l’avevano sentita tutti. La piccola Elisa era stata la prima a balzare in piedi, con i peli ritti sulla nuca.
Erano arrivati sulla soglia, lei e i suoi fratelli, ancora mezzi addormentati, stropicciandosi gli occhi. Ed avevano trovato la madre a fissarli interdetta e sconcertata, con gli occhi sgranati e le labbra che tremavano per cercare parole che non sapeva dire.
O spiegazioni che non poteva dare, perché tutto questo era chiaro solamente alla piccola Elisa.
Sul tavolo della cucina, appoggiati su un foglio di carta da macellaio stropicciata, c’erano un prosciutto di cinghiale e una forma di formaggio.
E un coltello serramanico impiantato nella caciotta.
Ma non era una minaccia.
Quel coltello era lì per tagliare, per invitare a mangiare. Per dire “Serviti pure.”
Per dire: “Grazie”.
E solamente la piccola Elisa sapeva perché.

Venne preso, la tigre di Ogliastra, ed ucciso, all'inizio del 1928. L'agguato e l'uccisione sono raccontati da "L'unione sarda" del 21 febbraio 1928: "Fu predisposto, di conseguenza, un grosso accerchiamento al quale prendevano parte quattro pattuglie. rispettivamente al commando del capitano Agnesa e del tenente Risi: per tutta la notte la zona era stata presidiata, ma soltanto alle luci del mattino il latitante fu avvistato, allorchè atttraversava una mulattiera.
Alla intimazione di "fermo" gridato dal Risi, faceva pronta risposta il bandito, con due colpi di moschetto andati a vuoto, e con la immediata replica dell'ufficiale che colpiva il malvivente alla gamba sinistra. Ma questi non era certo uomo da bandiera bianca, porchè pur colpito, riusciva di spostarsi di circa cento metri in mezzo ad una folta macchia, e da quel punto cercò affannosamente di ricaricare il proprio moschetto. Da un'altra postazione partirono nuovi colpi ed il celebre ed anche leggendario fuorilegge, cadeva colpito a morte, era armato di un moschetto 91, di un binocolo, di un coltello e nel portafoglio, oltre a lire 31,35 teneva quattro bandi scritti di suo pugno, che doveva provvedere ad affiggere."
 
Ed eccolo, il testo di uno dei bandi trovato sul corpo del bandito: 

Popolazione di Arzana e ancora da questi circonvicini purchè impongono che io sia un malvagio invece noi sono una persona e savio e non voglio far del male a chi non lo merita. Dunque partecipo tutti Coloro che sono a custodire il bestiame dei miei avversari. Ormai tutti siete al corrente che m'anno perseguito ingiustamente a me e ancora gli altri...ed io ho cominciato e perseguirò a essere carnefice contro questi figliacchi. Dunque tutti i servi e mezzadri di Balzani Fortunato ardito suo nipote Giulio avrà di me in paga lo stesso.
Bistocchi del fratello...e ancora l'altro famoso Ferrai Priamo assieme al suo figliacco figlio Luigi avrà di me in paga lo stesso confetto: dunque se li trovo ancora sotto la tutela de su indicati dopo dieci (10) giorni della mia pubblicazione saranno da me giustiziati ad una terribile e barbara morte. E ancora quelli che si permetteranno ad affittare i pascoli di questi figliacchi Balzani e di Ferrai Priamo avranno in paga la stessa caramella. 
Mi firmo e sono sempre 
Stocchino Samuele.