venerdì 25 aprile 2014

PERE LACHAISE - RACCONTI DALLE TOMBE DI PARIGI (PRIMA)

Memoria collettiva, dicono si chiami.
Che poi vuol dire che ci sono cose che si collocano nel cuore di tutti e diventano alfabeto dei sentimenti e dei sogni. Per me è contribuire alla memoria collettiva collocare spezzoni della vita appoggiandoci sopra la colonna sonora.
E per di più sono convinto di avere avuto la fortuna di crescere in un momento storico che ha prodotto la più bella musica del novecento. Ecco qui, l’ho detto. E se questo è segno di invecchiamento, me ne farò una ragione.

Tutto questo per spiegare perché, quando nel corso di una chiacchierata con Laura Liberale ed Heman Zed - amici miei di musica, di letteratura, ed amici miei e basta – mi parlarono dell’idea di scrivere una raccolta ispirata a Pere Lachaise dissi sì di slancio, come si dice in questi casi, col cuore. Una tomba a testa, una sorta di Spoon River postmoderna in cui un coro di scrittori raccontasse un cimitero che, prima che un cimitero è appunto un luogo dell’anima, una concentrazione di simboli, un simbolo esso stesso.

Certo, c’era il problema di scippare ad Heman la tomba del re Lucertola.  E devo dire che è andata bene perché è bastato dire per primo: “Io scrivo Jim Morrison”. E lui che a modo suo è un signore, non ha protestato.
Qui si impone una digressione, perché nella lunga frequentazione con Heman è diventato ormai un tormentone rinfacciarsi a vicenda scippi di storie che “io la volevo scrivere ma l’hai già scritta tu…” oppure “quest’idea te la dico così non te ne vieni fuori tra sei mesi a dire che l’avevi avuta prima…”.

E’ un gioco, ma in realtà credo che sia giustificato dal fatto che con Heman, batterista di cui non comprendo unicamente la passione per Ringo Starr, condivido un amore totale per la musica, il che non può che portarci a battere le stesse piste. Spesso,  ma per fortuna non sempre. Questa volta, ne sono certo, mi ha salvato il fatto che - quel vecchio pirate - aveva in mente un modo sornione ed ironico come è spesso lui per aggirare la regola e non scrivere di un morto e di una tomba in una raccolta che parla di morti e di tombe.
Che di certo, sono belle soddisfazioni.

Ma in definitiva, l'ho spuntata, e il racconto su Jim Morrison l'ho scritto io. Si intitola: "Voilà, Mr Mojo Risin'" (l'anagramma di Jim Morrison con cui il nostro diceva che si sarebbe chiamato, quando e se avesse deciso di sparire e di assumere un'altra identità...) e l'inizio del racconto suona più o meno così:


Parrebbe, a un primo sguardo distratto, che la nebbia sia solamente una convenzione narrativa. Io dico che forse sarebbe peggio venire qui per dire col sole e quaranta gradi all'ombra; allora sì che la contraddizione sarebbe maggiore, dolorosamente stridente. Ma tant'è. Mentre mi avvio nel vialetto, a passo lento, che camminare non mi distolga dal guardarmi attorno, velature di un bianco umido e stracciato stagnano svogliate sul terreno, e tutto si adegua docilmente allo scenario di contrizione. Mucchi di foglie svolazzano, sparpagliati da brezze gelide e acuminate, e i rami degli alberi sono crepe nere stampigliate contro il vetro del cielo.

Ed eccomi qui, piovuto a sproposito in un incipit dal vago sapore esistenzialista, grigio come il collo di pelo sintetico del mio giaccone.
Divisione 6, giusto? Sei, conferma la piantina che fatico a tenere tra le dita per via dei guanti. La porto con me, e la consulto pure, anche se conosco perfettamente la strada, perché mi dà l’idea di orientarmi in una dimensione sconosciuta.

In realtà so benissimo dove andare, quasi a memoria.

Mi aggiusto la sciarpa e costeggio sulla sinistra, e ad un certo punto taglio nell’interno, facendo scricchiolare il ghiaino. Attorno, la sfilata di cappelle di marmo bianco e alberi neri, e lapidi conficcate nella terra. Respiro l’aria gelida che mi pizzica la gola, cerco di sentire il luogo, così drammaticamente immutabile da essere diverso, ogni volta, per particolari infinitesimali.

E il freddo, stavolta, pretenderebbe di essere metafora.

Vedi, io dico che dovremmo essere avvertiti prima, che finiremo a contare i secoli nella Divisione 23 per dire. Così, tanto per guardare il mondo con altri occhi. Tanto per convincerci che conviene fare in fretta, a trovare un senso e riscattare questa vita. Oppure fare anche con calma, non è questo che importa, l'importante è trovarlo, un senso. Se c'è.

Che poi, quale essere avvertiti prima. Lo sappiamo tutti, come stanno davvero le cose, è che facciamo finta.

Oppure preferiamo imbottirci di sogni.

Con Laura invece condivido la passione per i temi cimiteriali, fin dal suo Tanatoparty, e dal mio Quevivagarcia, di cui lei ha letto alcuni capitoli, e che per ora resta nel cassetto, ma sono sicuro che prima o poi uscirà. Due libri che parlavano di morte, di decadimento, di oblio. Lei ha un modo molto orientale di guardare alla fine dell’esistenza terrena. Probabilmente ha capito qualcosa di più di me, in materia, ed anche il racconto che ha pubblicato nell’antologia rispecchia questa disincantata e ineffabile serenità.
Dove altro ci potevamo ritrovare, se non in una raccolta ispirata da un cimitero?

Père-Lachaise. Racconti dalle tombe di Parigi.  E’ una raccolta scritta da 23 autori italiani, ognuno dei quali ha messo in scena una parte di sé, riverberandola sulla lapide di uno degli ospiti di quel famoso cimitero di Parigi.

Ecco cosa scrive Laura in quarta di copertina:

E se, ancora una volta, Édith Piaf potesse cantare e Isadora Duncan ballare? Se Honoré de Balzac diventasse uno zombie in compagnia di fanciulline con fiori tra i capelli? Se oggi il padre di Victor Hugo ci parlasse di politica e la contessa di Castiglione di intrighi di sesso e potere? Se il pittore Jacques-Louis David volesse dipingere una storia di fantasmi e Gioachino Rossini tornare a Parigi grazie a un gatto? Se Victor Noir rimpiangesse l’amore e Colette de Jouvenel sua madre? Se Nadar e Georges Méliès fossero ancora alle prese coi loro mestieri? Se le passioni di Abelardo ed Eloisa, di Yves Montand e Simone Signoret non si fossero mai spente? Se a Jim Morrison e a Sadegh Hedayat andassero strette le tombe? Se la terra stessa del Père-Lachaise si raccontasse con la voce delle foglie, delle radici, dell’aria, al martellare del DJ set di Sex Toy?

Già. E se succedesse? Beh, è successo.

Più scrivo per raccontarla, più mi rendo conto che questa raccolta è un incontro di amici, di esistenze, che si ritrovano gustose e vitali proprio contemplando la fine terrena di una serie di miti.

E così, nella storia personale che posso narrare a proposito di questo libriccino, c’è anche la mia telefonata a Cagliari, a Francesco Frisco Abate. “Ehi bro’… (ci chiamiamo bro’, facciamo gli americani, ma siate indulgenti, abbiamo una certa età..) …ti va di scrivere una cosa su pere Lachaise?” Francesco neanche ci pensa, è fatto così. E’ sardo, e i sardi, ve lo giuro sul mezzo sardo che è in me, dividono il mondo in due categorie. Quelli da valutare, e quelli per cui dare la vita. Se, come parrebbe, sto per lui nella seconda categoria, ne sono onorato. Ed anche sollevato per avergli finora chiesto sempre molto meno della vita. Ma vi dirò, mi ha stupito come sempre, partorendo in pochissimo tempo un racconto bellissimo.



Sì, è bello pensare come intorno a questa raccolta si sia coagulata una corrispondenza di amorosi sensi, per dirla coi Sepolcri del Foscolo, che vedo abbastanza tematici. E allora mi piace citare Simona Castiglione, che tutti credono si stia spacciando per una discendente della Castiglione, alla quale ha dedicato il suo racconto, e invece, a mio parere,  contessa lo è veramente, e anche lei ha il sangue blu,  solo che si diverte a farci credere che sia tutto un bluff.

E via ancora, Mauro Graiani e Riccardo Irrera, miei compagni di avventura nella scrittura cinematografica. Assieme a loro – e ad Alessandro Pondi - ho conosciuto per la prima volta Heman, quando abbiamo messo le mani sulla riduzione cinematografica di un bellissimo romanzo dello Zed, La cortina di marzapane. Film che non è ancora uscito, ma chissà.
C'è ancora un sacco di tempo, prima dell'Armageddon.
E poi c’è un vero esercito di amici acquisiti nello scrivere questa raccolta, ma che amici diverranno di certo. In primo luogo, Raluca Lazarovici Veres,  l’editore.
Sono davvero contento di questo progetto, anche per il fatto che è edito da lei, da un’editrice rumena, Ratio et revelatio.

Lo trovo un bel modo per aprire le frontiere soprattutto della testa.  Si può davvero viaggiare con e grazie ai libri, soprattutto quando essi diventano un’occasione e uno strumento per unire genti e terre diverse. "Libri che taglino trasversalmente l'Europa", dice Raluca.

L’idea mi piace.


Tutti gli altri diventeranno amici - oltre che di penna e stampa, quello lo sono già... -  nel corso delle presentazioni dell’antologia, e nel viaggio che ad Ottobre faremo assieme in Romania al loro salone del libro, con puntatina, inevitabile, in Transilvania a visitare il castello del Conte Vlad.  E qui, li cito tutti, anche i già citati, in rigoroso ordine alfabetico, compreso il sottoscritto: Francesco Abate, Chiara Baldini, Francesca Bonafini, Claudia Boscolo, Simona Castiglione, Laura m. De Matteis, Caterina Falconi, Loretta Franceschin, Sara Gamberini, Mauro Graiani, Stefano Guglielmin, Riccardo Irrera, Janis Joyce, Laura Liberale, Paolo Logli, Gianluca Minotti, Gianluca Morozzi, Antonio Paolacci, Andrea Ponso, Paola Ronco, Paolo Zardi, Heman Zed, Giovanna Zulian.


Una carovana di cantastorie a casa di un protagonista di un’altra storia immortale. Immortale, ovviamente, al prezzo del sangue. Ma in fondo non è questo, spesso, il prezzo della scrittura?


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