domenica 23 dicembre 2012

ADESTE FIDELES (raccontino di Natale)



 Adeste, fideles, laeti triumphantes...
Venite, venite in Bethlehem.
Natum videte Regem angelorum...

E’ freddo, e le goccioline portate dal mare si condensano sul viso. Mi maledico, non volevo venirci. Lo sapevo, non dovevo venirci. E’ sempre così, le cose le intuisco, anche questa volta mi si è stampata chiarissima nel cervello. Le intuisco ma poi non le faccio. Non dovevo venirci.
Non per il bambinello, per carità.
Non mi fa né caldo né freddo, il bambinello.
M’infastidiscono, invece, quelle espressioni estatiche sul viso delle vecchiette. E quei sorrisi spaesati che frullano da uno sguardo all’altro sul viso delle famigliole che si stringono per combattere il vento di mare.
Guardo l’orologio; è quasi mezzanotte.
Ad un centinaio di metri dalla riva, come fuochi fatui, brillano le candelette di soccorso dei sub. Fuochi verdi, artificiali, che si agitano sotto la superficie dell’acqua. Come il link di un cursore su uno di quei vecchi computer di una volta.
C’e’ uno sciabordio placido, che si aggroviglia tra i ventri delle vecchie barche ancorate alla catenaria. Sullo scivolo di cemento interrotto a tratti regolari da doghe di legno, che serve per mettere in acqua i natanti, anche le alghe che sono cresciute d’estate ora sono fradice, marcite dal freddo. Sono una guazza verde e maleodorante, scivolosa.
Il prete si avvicina, appoggiando i piedi con cautela. Il mare è calmo, neppure un’onda increspa la superficie, fa troppo freddo anche per loro.
Ed io do un’ennesima ravviata alla sciarpa, mentre accendo una sigaretta. E mi rendo conto di quanto la maledirò.

Venite adoremus, venite adoremus,
Venite adoremus, Dominum.

Non credevo ci saremmo arrivati, a questo Natale.
Otto mesi fa, quando è successo tutto, ho creduto che sarei morto. Quanto sono banale, sono come tutti. Figurarsi se è interessante sentire la storia di due che si lasciano dopo essersi martoriati nel tentativo di capirsi. Però non ne ho altre, di storie, e questa è la mia.
Nella scena, io sono quello con l’espressione annoiata che guarda i paesani che con occhio pio scrutano il pelo dell’acqua, per vedere emergere il bambinello dagli abissi. E che si sente morire, dice. Ma sono solo cazzate.
Invece non si muore per amore… (…è una gran bella verità… canticchia Battisti in un angolo della mia testa…). No, che non si muore. Troppo facile. Invece, si continua a vivere, con un nodo sotto lo sterno.
Come un pugno allo stomaco - che però non rimbalza.
Che rimane incastrato lì, tra le carni. E tu te la porti dietro, quella persona che ti ha colpito al diaframma. Te la trascini dietro per le vie, con la sua mano incastrata nella tua pancia. E lei non lo sa, che sta incastonata lì, sotto le costole. Così ti cammina a fianco, con il braccio ripiegato in un innaturale angolo, un po’ china per non farselo troncare. E ogni passo che fai il rimbalzo del tuo piede sul terreno la agita, quella mano che ti fruga i visceri. E il dolore risale lungo la spina dorsale, fino al cervello. Un dolore sordo s’inerpica lungo la base del collo e ristagna in gola. E non puoi piangere. Perché non sei un bambino, e la mamma non arriva. Non arriva più.

Venite fedeli, l'angelo ci invita,
Venite venite a Betlemme!

Non credevo che ci sarei arrivato, a questo Natale: il primo Natale senza Lisa e senza i suoi occhi blu. E in ogni caso non credevo che ci sarei arrivato così. Infatti, probabilmente, non ci sono arrivato.
Questo qui, che sta aspettando il Natale, è un altro. Io non ci sono qui. Non ci sono più, sono andato un attimo di là.
Torno subito lasciate un messaggio.

Ma poi torno, lo giuro di fronte a Dio, se si decide ad uscire fuori dall’acqua.
Perché è fredda, la notte del Santo Natale 2005, il Natale che non avrei mai immaginato di vivere.
Ecco, si.
Qui siamo dietro un angolo che non dovevo voltare. E se mi guardo indietro, prima della svolta, non trovo più nulla.
Non c'è più nulla.
Sono… anestetizzato. Perfino il freddo non punge.
E una sensazione prepotente d’irrealtà mi avvolge.
Come lana di vetro.
Che non scalda, ma irrita la pelle.
In alcuni momenti, nel corso della vita, mi è capitato di vedermi da fuori, c’avete presente quando voi rimanete lì con i piedi desolatamente inchiodati alla terra e lo sguardo puntato su un qualsiasi orizzonte a caso, ma contemporaneamente vi immaginate di salire in cielo a cavalcioni di un dolly metafisico e guardarvi da lassù, piccoli e indifesi come formichine e anche un po’ insignificanti?
Questo è uno di quei momenti.
Chissà che sta facendo, ora Lisa.
E cosa fanno i suoi occhi blu.
Da lassù in cima, aggrappato all’asse metallico del dolly, mi vedo qui giù, ineffabile, in piedi sul molo con le mani affondate nelle tasche del giaccone, e quello sguardo frastornato e annoiato, la sciarpa a coprire la bocca… poi la scosto, però, per dare ancora un altro tiro alla sigaretta che mi causa un improvviso, violento, accesso di tosse.
Che ci sto a fare qui?
No, non “qui a vedere il bambinello che esce dagli abissi…”
Qui-qui.
Che ci sto a fare QUI: da questa parte della pagina, quella che ho voltato.
All’incipit di questo capitolo che non conosco, che non mi piace, che mi sconcerta… che ci sto a fare? …e soprattutto, che cosa voglio fare? Mi scopro, di colpo, ad illudermi in meteoriche astrazioni, illusioni di un futuro che è ben al di la dal rivelarsi… di giorni di sole, e di sapore d’altre labbra, di vento tra i capelli… bah.

Il bambinello è ancora sotto il pelo dell’acqua, e il prete sta già sul molo, intirizzito nella sua sottana nera.
I chierichetti si guardano intorno e salutano papà con la manina.

Nasce per noi Cristo Salvatore,
Venite adoriamo, venite adoriamo,
Venite adoriamo il Signore Gesù.

Vedi, io non so perché ti dico tutto questo. Come avrai ormai capito, non va da nessuna parte. Gira su se stesso come un criceto in una ruota. (corri, corri pure… sempre qui stai…)
Ma stanotte le parole vogliono uscire. Sono avaro di particolari, lo so. E tu vorresti il disegno del sorriso di lei.
Sai già che aveva gli occhi blu, Lisa.
Ma non aveva più le trecce.
E senza non sembrava la stessa.
Ma tu vorresti di più, vero?
Vorresti gli accenti delle sue risate (non erano cristalline, erano… arrugginite. La sua voce era sgraziata. Eppure era la sua.)
Vorresti i brandelli del suo corpo, sporzionato in dadini sanguinolenti e vorresti la mia mano che te li porge sulla lingua protesa, vorace, ingorda, maledetto cannibale.
Vorresti vita, morte e miracoli di Lisa, e il lampo malvagio di quello sguardo azzurro, quando ha detto che le dispiace, ma non potevamo continuare così.
E vorresti il mio silenzio, perché lei aveva ragione.
E vorresti l’arco del mio sguardo che si abbassa al pavimento. E il brivido sulla schiena, la vertigine che ho sentito in quel momento, sporgendomi dal baratro, per guardare giù, il futuro. E capendo che sarebbe stato un futuro senza Lisa.

Tutto questo vorresti, perché sei un voyeur.
Come lo sono io, mentre mi spio vivere, e lo metto su carta.
Ma non c’e’ nulla di intimo, nella descrizione degli occhi di una donna.
(Erano belli, va bene? Erano belli. Blu, e profondi, e infidi e sfuggenti, e ridenti e belli. Ma se lo dico io non vale, tu lo capisci…) Non c’e’ nulla di eccitante nel ricordo del suo seno sotto le mani
(Era pieno, e florido. Lievemente sfiorito. Ma cosa c’e’ di eccitante se lo dico io? Che ne sai, se il ricordo così come te lo offro non stia rendendo una realtà prosaica più desiderabile del vero?)
Sei un guardone, ecco cosa sei.
Vai via di qui e lasciami al mio dolore privato.

La luce del mondo brilla in una grotta
la fede ci guida a Betlemme!!

C’e’ un brivido, sotto il pelo dell’acqua, ora.
Forse il bambinello sta per riemergere. (Ma quanto cavolo in profondità lo seppelliscono, sotto quanta acqua giace, la luce del mondo?)
Forse aspettano la mezzanotte esatta per tirarlo fuori.
Forse i sub sono la, sotto la superficie, alcuni centimetri sotto, e qualcuno dalla barca infila il braccio in mare per fargli vedere che non è ancora il momento di salire…
E loro stanno lì, e attendono.
Chissà se là sotto si sente, questo canto questa nenia che continua come se fosse sempre esistita.
Chissà se cantano anche loro, là sotto.
Se le bollicine dei loro boccagli, scoppiando a contatto col pelo dell’acqua, liberano minuscoli brandelli di canzone….

Nasce per noi Cristo Salvatore,
Venite adoriamo, venite adoriamo,
Venite adoriamo il Signore Gesù.

Era bella, Lisa. Per dio se era bella.
Potrei riempire pagine e pagine, di - quella volta là…  e quell’altra che…. E mi ricordo, oppure… - Ma non è questo che ti racconterò, mi dispiace deluderti. E non puoi neanche lamentarti, perché non hai pagato il biglietto.
Non racconterò questo, perché non è questo che mi devasta l’anima.
È il rinnovamento, la mia sentenza di morte. Molto più delle mie sessanta Marlboro al giorno.
Vedi, è l’impossibilità di rinnovarmi che mi impianta le unghie nell’anima e ne strappa brandelli, sputandoli al vento.
Nulla si rinnova.
Non solo io, nulla si rinnova, è un’illusione, il rinnovamento.
Quello che non si decide a manifestarsi, come questo bambino che non vuole uscire dall’acqua.

Il prete batte lievemente i piedi per terra, per combattere il freddo. La gente borbotta. Non tutti stanno cantando, ora.
Perché il rinnovamento è un attimo, lo diciamo sempre.
“Ti svegli una mattina e ti accorgi che hai svoltato davvero. Che stai bene. Ed hai di nuovo voglia di vita…”
Ma intanto, è mezzanotte e cinque, e il bambinello non esce.

La notte risplende, tutto il mondo attende
seguiamo i pastori a Betlemme!

Ora, io non so dove sto andando a parare, peggio per chi mi ha seguito fin qui. Magari mi avesse seguito Lisa. Saprebbe quanto soffro per lei, e forse avrebbe voglia di tornare indietro. Ma magari no. E magari non è questo che voglio. Non lo so.
So che vorrei che la vita mi desse un segno. Vorrei sollevare lo sguardo al cielo, e veder fioccare meteoriti e stelle cadenti. Oppure il solleone.
Ecco sì.
Il solleone a mezzanotte e dieci, la notte di Natale. 25 dicembre. Quello sì, che sarebbe un segno. Inequivocabile…

Nasce per noi Cristo Salvatore.
Venite adoriamo, venite adoriamo,
Venite adoriamo il Signore Gesù.

…ma poi?
Cosa cambierebbero, in questa vita un po’ sfilacciata, in cui sono inciampato, da questa parte dell’angolo?
Vorrei che un angelo dal cielo, San Michele Arcangelo coronato di fulmini, scendesse e mi percuotesse con la sua spada.
E mi rendesse nuovo.
Pulito e vergine come il culetto di un neonato. Che mi rinnovasse il Jackpot, tanto per permettermi di sperperarlo un’altra volta. Senza Lisa e i suoi occhi invadenti oddio sì!
Senza di lei, finalmente.
Stanotte, per un attimo, mi sembra possibile.
Vedi, amico mio, sei gentile ad avermi seguito fino a qui, in questa lunga attesa.
Vedi… il rinnovamento non è una parola magica. Forse sorge dalle acque. Ma è solo il principio di un altro, ennesimo, ciclo.
E allora perché lo desideriamo e percorriamo di nuovo quei sentieri? Forse, per illuderci di vivere.
Perché ognuno ha la vita che si merita.

Di colpo, mi scopro a desiderare che quel povero cristo bambino non esca mai più, da quelle acque maleodoranti di carburante per barche a motore.
C’e’ una pellicola sottile, sul pelo del mare. E’ traslucida. Forse sono ancora gli oli solari di quest’estate. Forse è solo che è notte, e la tensione superficiale, col freddo aumenta.
Ma vorrei non si infrangesse mai.
Che quel puttino dalle guance bianche e rosse restasse la sotto, in eterno, sbattuto dalle correnti, a marcire.

Non uscire, Bambino Gesù.
Fai questo miracolo di Natale.

Dimostra a me, e al mondo, che il cambiamento e il rinnovamento sono una gabola. Che ambedue sono invenzioni per i fessi, come la fine del mondo dei Maya. Vermi di terra che si ritorcono su se stessi e si avviluppano in un nodo senza futuro.

Non rivelarti, Bambino Gesù.
Fammi questo dono.

Così sarò meno solo, in questa nicchia del tempo da cui non so uscire, come tu non esci dal mare. Fallo per me. Regalami una notte speciale, non uscire…

Il figlio di Dio, Re dell'universo,
si è fatto bambino a Betlemme!

E invece no.
E invece esce, sembra quasi che abbia gusto, a smentirmi. E alle vecchiette si inumidiscono gli occhi.
E’ nato ancora una volta.
E’ nato per morire tra tre mesi, per i peccati che loro, poverine, non possono più fare.
O che probabilmente, non hanno mai fatto.
E che io, lo prometto, farò ancora, di nuovo.
Come fumare. Lo so bene che mi ammazzerà. Ma qual è l’alternativa?
E allora continuerò ad essere disperso e sconcertato, senza via e senza speranza, come sono e fui. Produrrò peccati, te lo prometto.
Ma lo farò per te, Bambino Gesù.
Per dare un senso al tuo prossimo emergere dalle acque. Ti guardo, mentre i sub ti depongono sulla conchiglia. Sorridi, di quel sorriso senza consapevolezza dei cartoni animati che ti hanno disegnato in viso.
Ma forse sono io che ti vedo così, e sto sbagliando tutto. C’era qualcosa che dovrei ricordare, era sepolta laggiù in fondo in cima all’infanzia…  
Ma ora non la so più.
Lenta, morbida, con l’incedere tranquillizzante delle cose concrete, delle cose che si conoscono bene, quelle di ogni giorno, la processione si avvia.

Nasce per noi Cristo Salvatore.
Venite adoriamo, venite adoriamo,
Venite adoriamo il Signore Gesù…

Ora il prete canta nel microfono, e il megafono gracchia.
Il bambino ondeggia, le manine protese in un gesto di benedizione. Ma chi gliel’ha insegnato, a benedire, se è appena nato, se è nuovo?
Ma è davvero nuovo?
Non è lo stesso pupazzetto dell’anno scorso?
Dio, quanto vorrei crederti.

Sorride, lui.
Mi sta dicendo che tutto è stato perdonato, prima ancora che avvenisse.
Inutile peccare, in queste condizioni. Come sporcare una parete il giorno prima che venga ridipinta.
E lui, sorride.
Che ne sai, tu, che c’era lei. E che ora non c’e’ più. Che ne sai. Lisa aveva gli occhi blu, ed era bella e spietata.
Ma vedi, era un’illusione anche lei. Come se per sopravvivere avessi scelto di giustificarmi in qualcun altro.
Ma tu queste cose non le sai ti occupi di altre cose, tipo eternità e infinito. E io gioco coi miei piccoli giocattoli, risposte insignificanti come trovare la forza per dimenticare Lisa, o il coraggio di accettare la vecchiaia. Cosette, che tu non sai nemmeno.
O forse no. Le sai, tu sai tutto, sei onnisciente, in cielo in terra e in ogni luogo… le sai, ma non le ritieni importanti.
Perché in quel tuo sorriso da putto insopportabile che hai stampato sulla faccia c’è la certezza che tutto il male del mondo possa essere perdonato, e rinnovato, prima o poi.
E certi momenti mi viene voglia di pensare che devi aver ragione tu, altrimenti non vale.

Ma poi non ce la faccio, ti chiedo perdono.
Anzi, chiedo perdono a me stesso.
E allora, bambin Gesù, lasciati portare in chiesa dalle pie donne, ti stanno aspettando, non senti le campane?
Io come sempre rimarro’ fuori.
A fumare.




lunedì 10 dicembre 2012

Immagini cinesi





Al terzo giorno di orribile musica cinese - no, non quella tradizionale, che pure pure - no, al terzo giorno di pessimo brit pop - che già mi resta difficile da sopportare in versione One Direction, figurarsi riveduto e corretto con pentatonali orientali, chitarre elettriche impapocchiate insieme alle arpe cinesi, i guzheng, che al nostro orecchio paiono sempre scordate, indigeribili peggio dei dumping col sugo alla amatriciana - al terzo giorno, dico, di quella roba lì, che l'autista cinese, che ci porta in giro, canta all'unisono col cd con espressione sognante dipinta in volto, al terzo giorno, scusate, sarò snob, ma io non ce la faccio più.


Non mi é sufficiente la vocazione terzomondista e terzointernazionalista di figlio degli anni settanta, non basta neppure la professione di terzista - qual io sono e fui, per reggere.
Per un attimo, arrivo perfino a rimpiangere Laura Pausini o Marco Mengoni, per dire. E a quel punto, capisco che è proprio arrivato il momento di agire, Calzo la cuffia ringraziando in cuor mio Steve Jobs per avere pensato l'Iphone, dove tengo stivato il mio kit di sopravvivenza musicale. Mi sparo gli Stones, in alto dosaggio, e un pochino va meglio.
It's only rock 'n roll, but i like it.

Sia ben chiaro: sono felicissimo di essere in Cina, orgoglioso di far parte della delegazione di produttori, registi e sceneggiatori che é venuta qui a rappresentare il nostro Paese in occasione dell'accordo di coproduzione cinematografica Italia Cina. E sono grato a Sandro Silvestri che mi ha chiamato a farne parte, assieme all'ineffabile Pondi, che ha pure paura dell'aereo, ma intrepido affronta il decollo contando le ore che ci separano dall'atterraggio.
Novello Marco Polo, mi sottopongo volentieri al supplizio dl jet lag per aprire nuove prospettive e nuovi mercati e per dissodare nuovi orticelli.
Ma sulla musica – eh no – su quella non si transige.

Flash back, si impone.




Tre giorni prima eravamo saltati su un Alitalia, garruli ed anche un po' eccitati, ed ora eccoci, qui, nel Catai.
E, tra un incontro ufficiale e l'altro - che loro, i cinesi, vivono con una serietà e una partecipazione cerimoniosa che probabilmente noi italiani dovremmo imparare - abbiamo anche il tempo di visitare la capitale del Celeste Impero. Personalmente poi tengo molto al mio piccolo, privato pellegrinaggio nel luogo in cui è avvenuto uno dei più indimenticabili gesti di eroismo della storia del secolo scorso: Piazza Tien an Men.
Un appuntamento con la storia e con il mio immaginario personale che mai avrei creduto di poter fissare nella vita. Il primo, il più importante, ma non il solo. Così torno indietro con un bagaglio di colpi d'occhio, di odori stivati nelle narici, di suoni impressi nelle orecchie, suoni di una lingua più miagolata che scandita, torno indietro col ricordo di incomprensibili rituali e di sapori che ai ristoranti "La grande Muraglia" che popolano la penisola non si trovano. 


Milioni di suggestioni, di stimoli, di pensieri, di idee. Spesso senza ritrovarmi in tasca gli strumenti per elaborarli e senza la cultura sufficiente per comprenderli. O l'apertura mentale, chissà.
Ma per fortuna questo é un blog, e non un manuale di geografia politica. e in ogni caso, paga la faccia tosta di pubblicare, alla rinfusa, le mie postille disordinate di viaggio.
Eccole qui.

In primo luogo: se qualcuno vi dice che la Cina é vicina, ridetegli in faccia.
O parla per sentito dire, o ha visto troppi film italiani degli anni sessanta. La Cina non é vicina per nulla, e non solo in forza delle tensioni sociali che l'invasione silenziosa di prodotti tarocchi e di emigranti dall'incerta identità - tre quattro ogni passaporto... - porterà prima o poi ad un punto insostenibile, se non si prova a mettere in campo uno sforzo di comprensione.




Non sto parlando di indulgenza, madre svogliata – quando viene elargita a buon mercato - di parecchi mali. Parlo proprio di capire, per, semmai, prendere le legittime contromisure. Ho scolpite in mente le parole di Edoardo Nesi in “Storia della mia gente” ed ho ben chiaro come, lucidamente, pur nel grido di rabbia e di allarme per l’invasione commerciale cinese, non si dimentichi di additare chi, in Italia, quell'invasione ha assecondato, lucrandoci sopra.






Anche a quei buffoni degli stilisti andrei a chiedere aiuto: loro che ci imponevano lo sconto sul tessuto e poi rivendevano i cappotti a dieci volte il loro costo; loro che cianciavano tanto del MADE IN ITALY e poi andavano a produrre i loro cenci in Cina, e quando qualcuno glielo faceva notare si incazzavano dicevano che comunque erano stati concepiti in Italia...






No. La Cina non è affatto vicina, perché é veramente ALTRA da noi. Il paradosso è che potrebbe benissimo far a meno di noi, di tutti noi. Poi non ne fa a meno, e ci sommerge di ristoranti cinesi e mercanzie di dubbia qualità e dai prezzi impossibili per gli italiani, che hanno sul groppone il sistema fiscale (e che onorano lo stato sociale, diciamolo...), ma questo é un altro conto, e lascio quest'analisi a chi ne sa. Non ho soluzioni, sto raccontando cosa pensa uno di noi, mediamente informato, andando là. Non sono un'aquila, quando si tratta di parlar di politica. Meno che mai di politica internazionale. Mi indigno di fronte alle evidenti porcate, mi fa male vedere la risposta del populismo idiota agli oggettivi dissesti sociali, ma lì mi fermo.
E mi limito a considerazioni da viaggiatore.


Nel 1434 l’imperatore Hung Si prescrisse la fine dei viaggi oceanici e la costruzione di navi abbastanza grandi da raggiungere i porti degli altri paesi. E per rendere più evidente la sua decisione, ordinò di bruciare la flotta del Celeste Impero nel porto di Bejing, la città che noi ci ostiniamo a chiamare Pechino.
No, non voleva emulare Nerone. Hung Si realizzò invece una potentissima azione ideologica e di comunicazione.
Oggi si direbbe un'operazione di marketing di immagine.
Diede al suo popolo - e al mondo intero - un messaggio inequivocabile: io, l'imperatore del più gigantesco e longevo impero del mondo, brucio la mia stessa flotta perché - semplicemente - non ne ho bisogno.
Perché nel mio Impero ho già tutto, e non mi serve attraversare il mare per andare a prendere quel tutto a casa di qualcun altro.
Ed era, assolutamente, la verità. 

Il Celeste Impero aveva risorse naturali, minerarie, agricole, mano d'opera a buon mercato o addirittura gratuita, e una sterminata domanda interna che rendeva inutile piazzare i propri prodotti altrove. 

Poteva, per dirla alla romana, cantarsela e suonarsela.
L'impressione, a pelle, è che la Rivoluzione Culturale non abbia cambiato minimamente questo stato di cose. Anzi, allo stato attuale delle cose, la Cina detiene il quasi monopolio delle cosiddette terre rare e dei minerali rari, necessari alla microelettronica. Li estrae nel suo sterminato territorio, e sola al mondo li raffina, dopo che Occidente e Russia hanno abbandonato la lavorazione perché troppo pericolosa.



Ultimamente, i cinesi hanno perfino vinto un braccio di ferro con l'intera comunità internazionale, quando hanno preteso, ed ottenuto contro ogni regola commerciale, che chi volesse trasformare i materiali che loro raffinano in altissima tecnologia lo facesse sul territorio cinese, dimostrando una vocazione a fare trattative da suk e a fregare l'interlocutore che posso testimoniare di prima mano: basta fermarsi ad una bancarella o salire su un taxi a Beijing. Ma ancora una volta, non mi addentro.

Voglio raccontare solo impressioni in prima persona, perché quelle riporto indietro.
E la prima è che in questo momento la popolazione cinese stia godendosi il peggio di ambedue i sistemi che - purtroppo - ereditiamo dal Novecento: il neocapitalismo le sta regalando l'inurbamento coatto di una gran massa di contadini, una urbanizzazione selvaggia e una crescita caotica, totalmente deregolamentata, dell'impresa privata e del commercio al dettaglio, come nel peggiore dei deliri neoliberisti.




Del comunismo invece sta sperimentando da quasi un secolo, e continua a sperimentare, un delirio orwelliano realizzato. Un Partito Unico che è l'unico modo per trovar lavoro statale dipendente, e visto che qui lo Stato è dappertutto, e il Partito unico pure, è l'unico modo per trovar lavoro, punto.
La gran parte dei cinesi, mi dicono le guide - non senza un bel po' di reticenza, ma poi lo dicono - è tutt'oggi totalmente tagliata fuori dalle garanzie minime, dall'assistenza medica - una visita d'urgenza te la sogni, se non fai parte dell'esercito o del Partito - dagli ammortizzatori sociali, dalla certezza del posto di lavoro, e figurarsi dalla libertà di pensiero.
Questo blog – per fare un esempio - ha vissuto settimane di assenza del suo estensore non per una pigrizia di viaggiatore, ma semplicemente perché le sue pagine erano inaccessibili dalla Cina. Come d'altra parte Facebook, come Twitter, come molte altre arterie della grande rete.
Cose che abbiamo sempre saputo, e spesso negato:

“E’ chiaro, che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce, e come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare…”

Il mio amico Heman Zed, nel suo bellissimo romanzo "La cortina di marzapane", edito da Maestrale, ha immaginato come suo protagonista, con sublime ironia, un ventenne italiano del nordest che negli ultimi decenni del secolo scorso aveva sognato un altro 
mondo, migliore della merda che c'era da questa parte del Muro, e questo nuovo mondo lo aveva immaginato, in spe contra spem, al di là dei cavalli di frisia e dei rotoli di filo spinato della Cortina di Ferro.

 

Il tutto a causa di un sogno di bambino, dei racconti di una mamma troppo protettiva, che voleva tutelare il suo piccolo dalle delusioni, e di un fantasmagorico trionfo calcistico della Germania Est contro la Germania ovest, Davide contro Golia, ai mondiali del 1974: con un gran gol di Jurgen Sparwasser.

Tutto questo rigiro, oltre a far sacrosanta pubblicità al libro di Heman, serve a dire che posso perfino capirli, i maoisti italiani degli anni settanta. Oggi li guardiamo con indulgenza, come fossero personaggi da fumetto.

Ma allora non era così divertente discutere di politica con loro. Soprattutto se la vedevi diversamente.
Però posso capire la disperata ostinazione con cui affermavano che doveva pur esserci, da qualche parte se non qui, un'altra via che non fosse quella di Nixon, di Andreotti, o di Pinochet.
Posso capirli, ma ho sempre avuto il sospetto che stessero prendendo un granchio colossale, pur sperando anch'io, allora come oggi, in una terza via. Però, quando dico il sospetto, sto sfumando: mi pareva evidente. Loro invece erano invece talmente convinti di essere nel giusto, che provati tu a dargli torto, ad opporre argomenti dialettici alle spranghe.
Diciamo comunque che se allora avevo il sospetto che fossero dei pericolosi illusi, oggi ne ho la certezza.




Per la verità la certezza ce l'ho avuta parecchio tempo fa, tra il 15 Aprile ed il 4 Giugno 1989, guardando un eroe sconosciuto in maniche di camicia, uno studente cinese di cui neppure sappiamo il nome, e che nella migliore delle ipotesi sta trascorrendo la sua esistenza in qualche sconosciuta prigione nel ventre oscuro e irraggiungibile della Cina, opporsi a mani nude ai carri armati dell'Esercito del Popolo, stringendo curiosamente qualcosa in mano, non si capisce se un sacchetto o un giacchino, come se fosse passato di lì per caso, mentre andava a far la spesa.
Ce n'era stato un altro, come lui, anni prima. A Praga, il 16 Gennaio 1969. Io ero molto piccolo, ma lo ricordo benissimo. Si diede fuoco in Piazza San Venceslao, per protestare contro l'invasione sovietica.

Si chiamava Jan Palach.



Francesco Guccini, dedicandogli una bellissima canzone, colse il senso disperato della ribellione del pensiero e dell'ideale contro qualsiasi dogma e qualsiasi inquisizione, e lo accomunò ad un altro grande martire, un riformatore boemo ucciso dagli sgherri della Controriforma Cattolica:

"Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava..."





Sono stato a Praga, a Piazza San Venceslao, a deporre un pensiero per Jan Palach. Altrettanto volevo fare a Tien an Men.




Ma la peggior violenza il Potere non l'ha compiuta incarcerando quell'eroe senza nome, o uccidendolo come temo abbia fatto, nell'indifferenza di quegli stessi esportatori di democrazia che invece radono al suolo l'Iraq perché lì c'è il petrolio. 
No. La peggior violenza contro l'ignoto eroe di Piazza Tien an Men il Potere l'aveva ancora in serbo.

Racconto questa e chiudo il primo capitolo di questo diario di viaggio. 

Partendo per Beijing, come ho detto, mi ero ripromesso di portare un fiore, o anche solo un pensiero, un attimo di silenzio, nel luogo in cui l'eroe sconosciuto ha dimostrato al mondo che un ideale può renderti davvero libero, e impavido.
Anche di fronte ai carri armati del Comitato Centrale.
Il secondo giorno chiedo alla guida, una fantastica ragazzina di vent'anni, laureata in giornalismo, preparata, buone letture e buone frequentazioni musicali, un progetto di marketing per il suo futuro, piena di voglia di fare, di intraprendenza e di insofferenza verso il regime che neanche si preoccupa di mascherare, se ci accompagna nel luogo della rivolta degli studenti. precisamente, Nel luogo in cui uno studente ha fermato i carri armati, eccetera, eccetera.
Mi guarda perplessa ed io, che sono un'anima candida - leggi: un illuso - fraintendo la sua perplessità. Ma certo, mi dico, non si saprà il punto esatto. E come potrebbe. Di certo non c'è una targa per terra. E meno che meno il potere permetterà manifestazioni di solidarietà.
Le dico, complice e indulgente, che basterà che mi porti più o meno in zona. E che - giuro - non farò nulla di compromettente, tipo bruciate incenso o intonare "La Primavera di Praga" di Guccini. 


Son come falchi quei carri appostati, 
corron parole sui visi arrossati,
corre il dolore bruciando ogni strada
e lancia grida ogni muro di Praga.
Quando la piazza fermò la sua vita,
sudava sangue la folla ferita,
quando la fiamma col suo fumo nero
lasciò la terra e si alzò verso il cielo,
quando ciascuno ebbe tinta la mano,
quando quel fumo si sparse lontano,
Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava
all'orizzonte del cielo di Praga... 


Le dico che basterà che ci fermiamo - più o meno - in zona, il tempo di un pensiero. Basterà sostare un attimo - mentre l'autista si spara la sua orribile musica a tutto volume e sbadiglia, nel luogo immortalato da quella foto, simbolo di tutti gli uomini di ideale di tutto il mondo. Quella dove lo studente, in maniche di camicia col braccio alzato, fronteggia il carro armato. 
Un attimo, un pensiero. E via.
Mi guarda perplessa, non capisce.


Lo ripeto: sono un illuso, perché ancora non intuisco l'evidenza.
Il problema, per lei, non è identificare il luogo in cui in quel lontano maggio 1989 quell'eroe sconosciuto dimostrò al mondo, eccetera, eccetera.
Il problema è che lei, una fantastica ragazzina di vent'anni, laureata in giornalismo, preparata, buone letture e buone frequentazioni musicali, un progetto di marketing per il suo futuro, piena di voglia di fare, di intraprendenza e di insofferenza verso il regime che neanche si preoccupa di mascherare...


...della rivolta degli studenti di Piazza Tien an Men non ha mai sentito neanche parlare.
Ecco lo spregio piú atroce che il regime ha fatto all'eroe sconosciuto: lo ha cancellato. E con lui, l'intera rivolta di Tien an Men. Non esiste. Non esistono più.



La storia, raccontava Orwell nel suo 1984, viene riscritta continuamente. Tanto meticolosamente e radicalmente, che sotto la guida del Grande Fratello si parla di “neostoria”. Il motivo è semplice:

Chi controlla il passato controlla il futuro... Chi controlla il presente controlla il passato. 

Ma, nonostante la lettura di Orwell sia uno dei peccati d’adolescenza al quale ho concesso più tempo, non ci voglio stare. Non può finire così. E allora faccio una cosa totalmente inutile: le racconto cosa avvenne, col mio inglese raffazzonato e improbabile. Non sarà nulla, ma lo faccio.




Lei mi guarda prima perplessa, poi incantata. 

E' una bella favola, che racconta che l'orco può essere battuto.
Magari per un attimo, ma che importa. L’importante è che qualcuno ha dimostrato che non è invincibile.
È il massimo che riesco a contrapporre a questo gigantesco insulto alla verità. Mi piacerebbe avere un'arma segreta. Frugo in tasca, ma non la trovo.
Vorrei dirle che alla fine la giustizia trionfa, vorrei dirle che gli ideali prima o poi prevalgono.
Mi rendo conto che non ne sono mica così sicuro, a conti fatti. Penso alle gigantesche manipolazioni della verità ad opera del sistema occidentale. Penso allo spregio dell'evidenza a cui in Italia siamo assuefatti.
Così mi limito a dirle che è accaduto.


E quindi, che ribellarsi è possibile. E spesso anche piuttosto giusto.


Ma questo, parliamoci chiaro, vale ovunque.

giovedì 1 novembre 2012

UN PASOLINI PRIVATO




A papà, a me me sa che la vita nun è niente.
Be', certo, la morte è tanta. Quando uno è morto, tutto quello che doveva fare l'ha bell'e fatto.

(da "Uccellacci e Uccellini")




La sera del 1975 Pier Paolo Pasolini raccatta alla stazione Termini Pino Pelosi, borgataro che fa marchette. Lo porta a mangiare, lui ha già mangiato, in una trattoria sul Tevere. Poi vanno ad Ostia, all'Idroscalo, e in macchina Pasolini fa a Pelosi "una cosa con la bocca". Niente eufemismi, perché non c'è nessun santino da lucidare. 
Pasolini era posseduto, dilaniato da un'ossessione sessuale nella quale, penso personalmente e me ne prendo ogni responsabilità, non era secondo il gusto di sporcare e sputtanare l'immagine dell'intellettuale organico che era suo malgrado agli occhi della gente, e che nel profondo odiava. Come odiava la nomenklatura ammuffita del PCI dal quale era uscito nei fatti ma al quale continuava ad essere accomunato nella vox populi.
Ma fatto sta.


Terminato il lavoretto, sostiene Pelosi - o meglio lo sostenne, poi dopo ci ripensò, poi "ora non ricordo", poi "non so"... - terminato il lavoretto scoppiò una lite per futili motivi, e il piccolo Pino la Rana, gracilino e figlio di un'Italia del dopoguerra delle borgate, sofferente e malnutrita, ebbe - dice lui, ma poi cambia idea, poi non ricorda, poi non sa... - la meglio su Pasolini, uomo forte, allenato, muscolare, ben piantato. Salvo un sacco di cose che è inutile che elenchi, perché è la stessa vecchia storia dei misteri italiani: una verità per la plebe, sparata dalla tv e dai giornali in coro, e un'altra per i Servizi Segreti e per la Casta.
Salvo il fatto che sulla scena del delitto le persone erano parecchie, e che i reperti dicono che il corpo di Pasolini è stato massacrato da un pestaggio scientifico, prima che la macchina guidata da Pelosi gli passasse sopra. Salvo i soldi in contanti che Pasolini aveva con sè, parecchi milioni, una cifrona all'epoca, che - probabilmente, ma si tratta di ipotesi - dovevano servire a ricomprare il negativo di "Salò", misteriosamente rubato giorni prima, e misteriosamente riapparso dopo la sua morte, senza riscatto.
Trappola? Scientifica eliminazione? 
Io non ho alcuna prova. Ma come scriveva lui, "io so".


Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. 




Ho risentito queste parole recentemente, all'Auditorium, nella splendida lettura che ne ha fatto Cosimo Cinieri per la regia di Irma Immacolata Palazzo, e la sala vibrava. 
Perché la verità è rivoluzionaria. 
Anche quando non sa o non riesce a farle, le rivoluzioni. 
O le viene impedito.

Ma non sono qui per ritornare su una realtà processuale che è evidente a prescindere da cosa tribunali e mezzi di informazione hanno deciso di farci credere.
Voglio invece, in questa notte, la notte dell’anniversario della sua morte, fare il mio piccolo e privato ringraziamento a Pasolini, perché è una di quelle tre o quattro persone che, se non ci fossero state, avrebbero fatto di me una persona diversa. O meglio, che se non ci fossero state, non avrebbero potuto col loro influsso far di me la persona che sono.
Uno è mio padre, e non è così scontato per tutti.
Un altro è Francesco Guccini, ed ho già avuto modo di dirlo.
Il terzo, senza alcun dubbio e con un brivido di fronte all'inarrivabile,  è Pier Paolo Pasolini.
Ricordo il nostro incontro come ricordo quelli con le persone importanti della mia vita, anche se avvenne sulle pagine di un libro. E chissà se a lui sarebbe piaciuto, così. Per me fu esaltante.

Era il 1980, e per l’esame di letteratura contemporanea all’Università di Pisa il corso monografico era dedicato a Pier Paolo Pasolini. Colpevolmente, o forse solo perché non era ancora il momento, non mi ero mai avvicinato alle sue opere.
La sua prima cosa che lessi fu “Le Ceneri di Gramsci”. E mi folgorò.
Lo so, sono altri i brani di Pier Paolo Pasolini che tutti citano e che tutti conoscono (o dicono di…): dall'invettiva contro i contestatori di Valle Giulia;

A Valle Giulia, ieri
si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi amici
(benché dalla parte della ragione)
eravate i ricchi.
Mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri.
Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi
ai poliziotti si danno i fiori, amici

…all’accorata commiserazione della mia generazione;

oh sfortunata generazione
piangerai, ma di lacrime senza vita
perché forse non saprai neanche riandare
a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto…

In ambedue i casi i suoi versi sono il soffio di un geniale non allineamento, di una lontananza da, per dirla con Lucio Battisti,  “facili entusiasmi e ideologie alla moda”. Cito Battisti non a caso, perché proprio questi versi nel testo di una sua canzone, "Con il nastro rosa", assieme ad alcune altre frasi estrapolate fecero partire la famosa polemica sul fatto che fosse fascista.


Il mio amico Renato Marengo racconta, nel suo bel libro sull’unica intervista a Battisti, fatta da lui per Ciao 2001 in occasione dell’uscita di Anima Latina, che alla domanda; “Lucio, ma tu sei fascista?” Battisti abbia risposto: “E che vuol dire fascista?” o qualcosa del genere. 



A me quella risposta pare illuminante di un’era in cui le barricate erano ottusamente manichee, in cui il bene era da una parte sola e si poteva raccogliere, in briciole così come era caduto dal palco dei comizi, alla fine delle feste di piazza: per terra, dove erano “sparsi, disordinatamente, i vuoti a perdere mentali abbandonati dalla gente…”, e in cui il libero pensiero era una malattia infettiva da eliminare. 
E su questo erano d’accordo tutti.
Di quel geniale non allineamento di Pier Paolo Pasolini mi sentii immediatamente fratello, io che, per i miei astrusi interventi alle assemblee di istituto, ero stato battezzato dagli apprendisti caporioni,  i “capintesta con i distintivi sfavillanti” come “L’Anarchico Fascista”.

Mi sentii ancora più fratello quando, sostenendo queste stesse cose, con l’arroganza dei vent’anni, lo concedo, all’esame di letteratura contemporanea, docente Walter Siti (perché non dovrei fare il nome, visto che si tratta di una attuale gloria dell’intellighenzia post PCI…) mi vidi offrire un voto inferiore alla mia preparazione, fatta di mesi di ostinato studio meticoloso, “matto e disperatissimo” da innamorato perso, sull’intera opera di Pasolini, sul quale, come detto, si era tenuto il corso monografico.
“29” Sentenziò lo zar rosso, con uno sguardo sprezzante.
“Ma sa tutto…” protestò, debolmente, l’assistente.
E il Siti, dal suo trono:“Sì, ma parla troppo e fa troppe chiacchiere.”

Diedi quell’esame 3 volte. Sempre 29 fu.
Direte: e ti lamenti? Sì.
Perché era la prima volta che sperimentavo la censura ideologica. Non disse: “non è preparato” bensì: “è preparato ma fa troppe chiacchiere” leggi: esce dal seminato, dal preconfezionato, da quel che è bene pensare per essere progressisti.
Eh no. Non ci stetti. E persi un anno per scoprire che se il potere ha deciso, ti fai male solo tu. Alla quarta volta, accettai il 29.
Le esilaranti avventure dell’anarchico fascista.

Ma poi sai che c’è? Mi piace talmente tanto, questa definizione - l'Anarchico Fascista - , che me la tengo ancora oggi, mentre mi proclamo figlio di quel soffio, di quella divergenza non parallela che fu rappresentata proprio da Pier Paolo Pasolini, finché non diede troppa noia al cartello italiano fatto di Servizi Segreti Deviati, Banchieri di Dio, Petrolieri Democristiani, Miglioristi e Miglioratori, Agenti della Cia e miopi sostenitori del compromesso storico, finché non diede troppa noia, finchè non disse: "Io so."
...e allora quella divergenza fu fatta sparire.
Ma era tardi, la ventata ormai c'era stata.
Era stato un soffio che ancor oggi, a volte, con fatica, e con orgoglio, mi riesce ad imitare.



E così. in quel crepuscolo di anni ’70, quelli dei Pink Floyd, del progressive, delle occupazioni, degli indiani metropolitani, del “Vietato vietare”, la lettura de “Le ceneri di Gramsci” mi folgorò. Non tanto (o non solo) per l’aspetto civile o politico, ma soprattutto per la descrizione esatta di un conflitto che stava dentro di me e che mi ha accompagnato come uomo, prima ancora che come scrittore, per il resto della vita. Un conflitto, che allora, con il disperato egocentrismo di adolescente, credevo fosse solo mio:

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un’ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell’estetica passione...



Ecco. Pasolini scriveva, e io mi vedevo proiettato dalle sue parole sul muro della mia stanza, in una metaforica moviola: lo scandalo di non essere all’altezza dell’ideale, o degli, ideali, lo scandalo di amare la leggerezza e non la pesantezza ideologica dei miei anni settanta (comunque tanto amati), di amare il rock per come suonava e non per gli slogan di partito che a volte si sforzava di inoculare, di prediligere le vasche in centro e le compagnie femminili così difficili da ottenere alle polverose riunioni di parrocchia, cellula o sezione. 
Di essere istintivamente portato al dubbio, allo scetticismo e all’ironia, che troppo a lungo e troppo dolorosamente mi avevano creato un fardello negli anni del liceo: fardello di un non allineato, qual ero, seguace del dubbio metodico, che ad ogni intervento in assemblea, scendendo dal palco, veniva avvicinato dal caporione di turno che studiandolo in tralice, e cercando di identificarlo, come fosse un Ufo, gli chiedeva: “Ma tu… sei anarchico, o sei fascista?”

Ecco, quello ero io.
E in quel 1980 in cui per la prima volta mi avvicinai alle sue parole, Pasolini mi rivelò - lo fece in esclusiva, mi parve, a me solo e non ad altri - che era possibile. 
Sì. 
Era possibile essere insieme passione e ideologia, ma contemporaneamente nessuna delle due. 
Che era possibile aspirare all’ideale ma insieme cogliere quanto possa essere caduco e insufficiente, di fronte alla grandezza della vita, al desiderio di Eterno, di Giusto, di Perfetto.
Che era possibile credere nel futuro, eppure cogliere che a nessuna ideolologia si dovesse e si potesse appaltare o consegnare a scatola chiusa la propria esistenza e la propria voglia di Infinito.
Meno che mai, a qualunque idea che si autoproclamasse infallibile, superiore, ed eterna.


Ecco, questo mi ha regalato Pier Paolo Pasolini, in quello scorcio di 1980. 
Mi ha confidato che non ero solo, che non ero un errore dell’evoluzione, ma che condividevo con molti altri spiriti liberi l’insofferenza al dogma. 



A qualsiasi tipo di dogma.

Poi sono venute le letture appassionate di Ragazzi di Vita, Una vita violenta, la visione incantata di Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e uccellini, e Teorema. 
Nelle quali ho scoperto l'intellettuale arguto, lucido e tagliente genuflesso nel profondo della propria anima martirizzata, e la disperata implorazione di un Infinito che si rifiuta di rivelarsi, l''urlo muto di un bisogno struggente e viscerale di un “centro di gravità permanente”, una chiave di volta che il Partito non era stato capace di rappresentare e che il Dio dei cristiani continuava a ostinarsi a non divenire. 
Poi ho scoperto la sua ricerca ossessionante, al di sotto dei paramenti e delle liturgie di duemila anni di potere temporale, dentro il campo seminato a "Cielo e Denaro, a Cielo e ad Amore", perché la religione cattolica era pur sempre la sua radice, suo malgrado, nella speranza di trovare quel Verbo, quel gesto, quella Parola di Verità che finalmente ti liberi e ti renda nuovo.
E che non arrivò, perché tutto finì. 

Successe quella notte di 37 anni fa, su un piazzale sterrato dell’idroscalo di Ostia, con le labbra ancora sporche di umori maschili.




Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un’ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell’estetica passione...



Così voglio ricordarlo, in questa notte tra il primo e il due novembre, che segna i 37 anni dalla sua morte. Morte misconosciuta, taroccata, insabbiata, Ma voce limpida, cristallina, impossibile da mettere a tacere.
Certo, i suoi meriti di poeta e di scrittore civile sono molti altri, e tutti noi li conosciamo. Ma ci saranno altri, a metterli in fila e a spiegarceli.
Io, avevo solamente da dirgli grazie per quel che mi ha regalato.
E l’ho appena fatto.