L’antica città Inca di Machu Picchu, una
delle sette meraviglie del mondo secondo l’Unesco, sorge al centro
dell’America Latina in quella parte del
Perù che confina con la foresta amazzonica.
Come dire: se cerchiamo un posto lontano da qui, quello lo è.
La sua bellezza scorbutica, fatta di pietre
millenarie intagliate ed incastrate dalla civiltà Inca a 2430 metri sul livello
del mare (uno scherzo, se paragonati ai cinquemila metri dell’altopiano andino
alle spalle, e alle vette che schizzano in cielo superando i settemila), è
protetta dal turismo di massa dall’assoluto isolamento della valle del fiume
Urubamba in cui sorge l’altura.
Si giunge a Machu Picchu con una
corrierina scassata da film western, su una strada bianca e polverosa piena di
tornanti, per un dislivello di più di quattrocento metri sul fiume sottostante.
Ciononostante, circa mezzo milione di persone
all’anno visitano le rovine di questa incredibile città inca costruita sulla
punta di un monte, vecchia di più di 400 anni.
Ed io sono tra quelli.
Ma, diranno
i miei cinque lettori, che c’entra tutto questo con la canzone italiana?
Non siamo qui per parlare di turismo o di antiche civiltà. Vero. Ma il motivo per cui – facendo un giro, lo ammetto, un po’ largo – vi ho parlato dell’antica città Inca è che sulla strada che porta al sito archeologico sorge una casetta ad un piano male in arnese che espone, dipinta a mano, l’insegna FETUCINI DA ALFREDO.
Non siamo qui per parlare di turismo o di antiche civiltà. Vero. Ma il motivo per cui – facendo un giro, lo ammetto, un po’ largo – vi ho parlato dell’antica città Inca è che sulla strada che porta al sito archeologico sorge una casetta ad un piano male in arnese che espone, dipinta a mano, l’insegna FETUCINI DA ALFREDO.
Sgrammaticata ma efficace, quell’insegna
attira gli escursionisti nella speranza di gustare un piatto italiano. Diciamo
che non gli va benissimo, agli escursionisti, ma quell’insegna, per dirla
tutta, è una scheggia di italianità conficcata in un totale altrove. E’ il
segno di quanto potente sia l’immagine Italia, vista da lontano. Quel bello
(dei tanti belli) del nostro paese che chi viaggia sa di poter incontrare,
dovunque nel mondo, girando un angolo.
Quella volta, sul Machu Picchu, andò così.
Pregustando un caffè espresso, anche io varcai la porta del localino di
Alfredo.
Per il caffè mi andò male, avevate
dubbi? Ma, in un angoletto del bar, come
un residuato bellico, un Wurlitzer d’antan miagolava
una canzone italiana. Anzi, permettetemelo: la,
canzone italiana.
Parlami d’amore, Mariù,
Tutta la mia vita sei tu,
gli occhi tuoi belli brillano,
fiamme di sogno scintillano…
Vedete, il problema è che alle cose belle ci
si abitua velocemente.
Ci sembra normale averle, dopo un po’, e perdiamo la
capacità di stupirci, e di chiederci come ci sono arrivate.
E così oggi ci sembra normale, poter godere
dei testi ermetici e densi di Francesco De Gregori, delle alchimie new age di
Battiato, del genio di Mogol e Battisti, delle pensierose ballate di Guccini, delle atmosfere sapientemente retrò di Paolo
Conte, del rock italico di Ivan Graziani, del Liga, di
Vasco, del genio prematuramente stroncato di Tenco, della verve polemica di De
Andrè, ci sembra normale avere avuto Bindi, ,Morgan, Rino Gaetano, Buscaglione, Modugno.
Ci pare normale essere ricchi di questo patrimonio
di canzoni nella nostra lingua. Ma non è così. Le cose non esistono da sole. Lo
dico anche se sembra di una banalità sconcertante e anche un pochino
sentenzioso: le cose non esistono da sole. Tutto questo doveva essere pensato
da qualcuno.
A qualcuno – per capirci - doveva venire in mente che si poteva prendere una bella
partitura e scriverci sopra parole in italiano.
E quel qualcuno era lui: Cesare Andrea Bixio.
Ecco perché non è esagerato dire che stiamo
parlando del padre della canzone italiana. Perché prima di lui esistevano
romanze e canzoni in dialetto, prevalentemente napoletano, esisteva la canzone francese e quella dei
coroner americani, mal tollerate durante il regime e passate sotto banco dai
cultori, ma non esistevano canzoni nella lingua di
tutti noi.
Ora sembra normale, ma c’era bisogno di
qualcuno che lo pensasse.
Quel Wurlitzer, lassù in cima al Machu Picchu, voleva dirmi questo.
Che nulla accade per caso.
Ne parlo, perchè nel corso di quest'anno sarò complice di un'impresa di cui vado molto orgoglioso: la mostra itinerante internazionale su Cesare Andrea Bixio, di cui il sottoscritto, immeritatamente sarà curatore del catalogo.
Un'impresa in cui mi hanno coinvolto due amici, Franco Bixio e Renato Marengo, e in cui mi piace molto dire in giro che ci sono anch'io.
Perchè, perchè... perchè ci ho messo quasi cinquant'anni a capire sul serio che le radici, nella musica, sono una cosa tremendamente seria. Cioè, sia chiaro, l'ho sempre sostenuto, ma sono serviti gli anni per capirlo davvero. E Bixio è all'origine di un grandissimo amore della mia vita, la canzone d'autore italiana, che amo al punto che spesso, invece di scrivere, canticchio stralci di canzoni, presi qui e là.
Ebbene, tutto questo ha un'origine, come in fondo tutto, nel mondo.
Pare banale, ma ricordiamolo. Non tutti fanno mente locale.
Cesare Andrea Bixio, uomo dalla napoletanità internazionale, divide la sua lunga
carriera tra Milano, dove, dopo averle
fondate a Napoli nel 1920, trasferirà a partire dal 1923 le Edizioni Bixio,
Parigi, e il suo Golfo natale, dove tutto è iniziato.
Là, nella casa paterna, dove il padre era
solito suonare al pianoforte le canzoni di moda. Il piccolo Bixio
comincia a spiarlo da uno spiraglio della porta, timoroso (erano altri tempi,
altri padri, ed altri figli…) poi si avventura nello studio quando lui non c’è,
comincia a sfiorare quei tasti bianchi e neri, come fossero depositari di una
magia, e scopre la formula magica che gli avrebbe cambiato la vita.
DoReMiFaSolLaSiDo.
Sette tasti bianchi e cinque neri, tutto lì il segreto per raccontare la
vita. Perché dopo quei sette, si ricominciava da capo. Era solo un altro
livello, ma la formula magica era la stessa.
Napoli in quegli anni era piena di
musica… beh. Napoli è fatta, di musica. Castel dell’ovo è un bell’accordo
maggiore. Solido. Appoggiato saldamente sulle fondamenta. Mentre i Quartieri
Spagnoli sono rivoli di settime e sottodominanti, che si attorcigliano come
vicoletti per sfociare nel “Largo solenne” del teatro San Carlo. Posillipo è un
giro di dominanti, ma con un accordo minore, ogni tanto. Come una nota di
malinconia. Ora poteva guardare il mondo, e descriverlo. Conosceva la formula
magica. DoReMiFaSolLaSiDo.
A sei anni sa già suonare ad orecchio e sua
madre, con la concretezza spietata che hanno a volte le madri, vorrebbe
addirittura mettere il piano sottochiave. Meglio che pensi a cose serie, meglio
che pensi a studiare. La musica non ha futuro. L’arte non da il pane.
Per fortuna, almeno questa volta, la mamma rimase inascoltata, a quella
formula magica, DoReMiFaSolLaSiDo, Cesare Andrea Bixio vota la vita.
A quattordici anni il suo sogno è il
conservatorio di San Pietro in Maiella, ed ha già scritto le prime canzoni.
E pazienza se la mamma scuote la testa e si
adombra un pochino, di fronte a quel figlio che preferisce la musica a fare
l’ingegnere.
Bixio la risarcirà, molti anni dopo, con la
canzone italiana più ascoltata e ripubblicata e ricantata al mondo: Mamma.
Mamma, solo per te la mia canzone vola…
La cantarono Carlo Buti,
Achille Togliani, Claudio Villa, Nunzio Gallo, Luciano Pavarotti, ma anche, tra tanti altri in tutto il mondo, Connie Francis ed Elvis Presley… Mamma
è la canzone che più di tutte racconta l’italianità, è l’immagine a volte
stereotipata di un’identità nazionale costruita sulla figura materna. Anche se non
ci vogliamo stare, e spesso, nell’imbattersi in quella canzone, oggi, si cerca di mascherare dietro un
velo di ironia una indubbia emozione che, come tutte quelle buone cose di pessimo
gusto ci causa.
Perché, in definitiva, fanno profondamente parte di noi.
Durante la Guerra d’Africa, prima della sanguinosa offensiva Anglo
Americana culminata nella battaglia di El Alamein, siamo nel 1942, i nostri
fanti passarono un periodo lunghissimo in trincea, separati dalle trincee
inglesi da una striscia di deserto. Si racconta che in quell’occasione il
comando inglese dispose che dal tramonto e per tutta la notte, attraverso
grandi trombe di amplificazione, venissero diffuse a tutto volume le note di
“Mamma” in direzione del campo italiano, in modo che, sulle ali del vento,
arrivassero fino a quei piagnoni disorganizzati e indisciplinati degli
italiani, e spezzassero loro il cuore, rendendoli il giorno dopo più fiacchi in
battaglia.
Dell’impresa coloniale, magari, parliamo un’altra volta. Ma in qualcosa gli
inglesi, con lo sciovinismo che da sempre contraddistingue gli anglosassoni
quando si tratta di italiani, avevano visto giusto: quella canzone era capace
di divenire un grimaldello col quale far saltare il lucchetto degli italici
cuori.
Su questo, mi pare, non ci piove.
Qualcuno, qualche volta, ha avuto da ridire
sulla eccessiva semplicità di quei testi e sulla loro scarsa pretesa, per così
dire, artistica.
Non sono affatto d’accordo.
C’era invece bisogno, eccome, di quel livello
di scrittura semplice e lineare – sto per dire – elementare, perché fatta di
elementi primari, in grado di arrivare a tutti, ma proprio a tutti.
L’Italia degli anni ‘30 era un paese dalla
scolarità ancora scarsamente diffusa, e in cui, se si eccettuano le città
maggiori, e neppure tanto in quelle, l’italiano era una lingua studiata sui
libri che non si usava nella vita quotidiana.
Fu proprio quella semplicità,
quell’abbecedario di sentimenti di base messi in musica, che costituì il
patrimonio comune da cui sarebbe nato, nei decenni, tutto il resto.
La
genialità di Bixio-Cherubini, bel binomio dal sapore risorgimentale, sta
proprio nel non sforzarsi di essere geniali.
Se per geniali si intende elevati, complessi,
e in certi casi astrusi.
Certo, Bixio e il suo paroliere
Cherubini raccontano la loro epoca, mettono in scena le generazioni che
conoscono e il mondo che percorrono. Certo, il passo
dai testi di quelle canzoni e le tessiture poetiche è ancora tutto da
percorrere.
C’è voluto un giovanotto sfrontato con la
giacca smilzata e i baffetti alla Clark Gable per dare la prima scrollata. Ve
lo ricordate? Salì sul palco di Sanremo, spalancò le braccia in un abbraccio
luminoso e intonò “Volare”.
Ma certo che ve lo ricordate. E' una delle più grandi icone della canzone italiana.
E già che ci sono, una delle più belle interpretazioni di Beppe Fiorello.
Ci sono voluti gli iconoclasti genovesi, i
bombaroli della parola, Tenco, De Andrè, Paoli, perché quel fiume sgorgato
dalla penna di Bixio scorresse nell’alveo della canzone d’autore.
Ma la sorgente è là.
Nell’opera di Cesare
Andrea Bixio, quel napoletano dalla composizione raffinata
e dallo sguardo rivolto all’Europa.
E a proposito di Europa:
la rivista musicale che Bixio scrisse per Mistinguett, messa in scena al Casinò
de Paris, ebbe tanto successo che
Bixio venne scritturato dalle Folies Bergère e da un'altra famosa vedette francese
dell'epoca, Lys Gauty,
per la quale trascrisse Parlami d'amore Mariù che aveva composto per la voce di
Vittorio De Sica nel film di Mario Camerini del 1932 Gli uomini, che mascalzoni...
Già, perché intanto che
conquistava con le sue canzoni l’Italia e l’Europa, Cesare Andrea Bixio aveva
trovato anche il tempo di comporre per il cinema, ed anzi di firmare la colonna
musicale del primo film sonoro italiano: La
canzone dell’amore.
Un uomo internazionale,
insomma. Ma anche, con una punta di furberia tutta
partenopea, rivolto agli scenari esotici che la maggior parte del suo pubblico
poteva solo sognare.
Laggiù nell’Arizona,
terra di sogni e di chimere,
se una chitarra suona,
cantano mille capinere…
Un uomo
internazionale, con quella spinta vitale e quel gusto di vivere un po’
disincantato che gli regalava il sangue napoletano. Una gioia di vivere che,
condita dalle spezie dell’ironia, mette in scena la storiellina – anche questa
tutta italica - dell’amante abbandonato dalla sua bella che, invece di
disperarsi, innalza un divertito e scanzonato inno alla libertà, creando un
altro caposaldo della canzone italiana:
Vivere senza malinconia,
vivere senza più gelosia,
senza rimpianti
senza mai più conoscere cos'è l'amore
Cogliere il più bel fiore
goder la vita e far tacere il cuore…
vivere senza più gelosia,
senza rimpianti
senza mai più conoscere cos'è l'amore
Cogliere il più bel fiore
goder la vita e far tacere il cuore…
Ai tempi, la vita di una canzone era diversa.
Più lunga, meno effimera, meno consumabile al
banchetto del mercato musicale. Meno “prodotto”, orribile neologismo dei
discografici attuali, e più espressione artistica.
Una canzone, allora, viveva nella memoria, si
diffondeva col passaparola (o meglio col passacanticchìo) volava nell’etere e
prendeva forma in una radio di radica appoggiata su un centrino ricamato, sul
mobile buono, coi ninnoli sopra. Vibrava in serenate, in sale da ballo, in
salotti buoni…
Perchè ai tempi, le canzoni non si compravano, si suonavano. I dischi, ma soprattutto i grammofoni, erano davvero un articolo per
ricchi, e così i negozi di musica vendevano principalmente partiture… e le copielle di Cesare Andrea Bixio raggiunsero numeri di tiratura di centinaia di migliaia di copie, cifre
strabilianti, e segno di un successo davvero su scala
nazionale. Ed erano, oltre che piene di
musica, bellissime da vedere.
Un’opera d’arte esse stesse.
E intanto, anche attraverso quelle canzoni,
passo dopo passo, si andava formando un linguaggio e una coscienza comune, un
senso di nazione che invece la storia continuava a negare e a mettere in
pericolo.
Si racconta che, durante la guerra civile – nell’Italia divisa in tre
tronconi da diversi invasori - “C’è una
strada nel bosco” un altro grande successo di Cesare Andrea Bixio, avesse
assunto anche una lettura nascosta, e venisse utilizzata dai partigiani, quando
scendevano a valle in incognito per far provviste, come un segno di
riconoscimento. Cantando quella canzone, infatti, conferivano alle parole un
valore “altro” da quello, dalle lievi ma chiarissime allusioni erotiche, che
gli aveva dato Cherubini.
Vieni, c’è
una strada nel bosco
Il suo nome
conosco
Vuoi
conoscerlo tu…
Insomma, quelle parole divenivano, in bocca ai ribelli, l’esortazione a
prendere la strada dei monti e della clandestinità. Non sono qui a valutarne il
peso politico o storico, ma per fare una osservazione semplice, al limite del
banale. Un’altra, mi rendo conto. Deve essere una vocazione. E in ogni caso,
eccola.
Si può rivestire una canzone di nuovi significati ed essere compresi, mi
pare, solo se quella canzone è divenuta patrimonio comune.
Ed è esattamente così che è andata.
Le canzoni di Bixio sono state la colonna
sonora, oltre che di molti indimenticabili film del nostro passato in bianco e
nero, anche di tre decenni di vita italiana. Hanno steso un tappeto su
cui sono sfilati i ricordi. Anche di quelli che, come me, non c’erano ancora.
Hanno decorato di note e parole le esistenze quotidiane di tanta gente.
E proprio in questo loro infiltrarsi
dolcemente e lentamente nella vita delle persone, sussurrate nell’orecchio di
un’amata o cantate a gola piena, alla finestra stendendo i panni, o suonate
dalla figlia maggiore, seduta composta al piano a muro, offerte agli ospiti
insieme al vermouth e ai biscottini in certi salotti bene, o canticchiate per
strada da certe signorine che son come le
lucciole, proprio quelle canzoni hanno finito per scendere profonde nella
coscienza del nostro popolo, hanno contribuito a forgiarne la lingua, il
sentimento, i sogni.
E poi sono riemerse, dall’altra parte, come
da una grotta carsica, nella grande tradizione della canzone d’autore.
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