domenica 10 febbraio 2013

SCRIVENDO “QUELL’ENORME LAPIDE BIANCA”




 

 

 

Dimenticare è più semplice.

Ci sono troppi buoni motivi per cui è meglio voltarsi dall’altra parte. Ma il primo di tutti è che ci sono parti che non possono sbagliare, per mandato storico o per missione divina.  Perciò, quando l’evidenza costringe a farsi domande, a valutare la contraddizione, è molto meglio rimuovere. Oppure indicare, a parziale contrappeso, l’errore e la colpa di quelli che stanno dall’altra parte.

Questa bruttura, che parte dall’odioso assunto che chi sta contro è un criminale, è in malafede, è un ostacolo al progresso e alla giustizia, si chiama ideologia.

E sopra questa bruttura è stato costruito il novecento.

Intendiamoci, sarebbe troppo facile fare del qualunquismo e dire che tutti sono uguali. Come dice De Gregori, "è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera". 

Ma una cosa va detta a chiare lettere: ci sono escrementi che puzzano di più degli altri, e questo non va dimenticato. Nessun argomento propagandistico e nessuno sfruttamento del dolore può giustificare lo scempio che qualcuno – che neanche voglio nominare – ha fatto dell’Italia per suoi interessi personali.

 

Così, tanto perché non ci siano equivoci.

 

Ideologia.

Questa parola dal sapore ambiguo è il cancro del Novecento, il secolo breve e violento, che però affonda le sue radici molto profondamente nel tempo, al momento della nascita dei dogmi di infallibilità. 

In nome di Dio, del Partito, del Popolo, o delle Umane sorti, e Progressive, amen.

 

Qualche anno fa ho deciso di scrivere, in occasione della Giornata della memoria, un testo sul dramma dimenticato e negato delle Foibe.

Negato perché, come accennavo sopra, i “vincitori”, i “buoni”, i “costruttori del nuovo ordine” non ci facevano esattamente una buona figura.

Ho deciso di scrivere questo testo perché la vicenda odiosa dei martiri delle Foibe mi pareva il paradigma delle brutture causate dall’ideologia. Ho deciso di scriverlo perché credo negli ideali, e sono convinto che solo gli ideali che si mettono in discussione siano tali.

Ho deciso di scriverlo prima che qualcun altro mettesse su qualche ripugnante fanfara propagandistica, come solo i lacchè del potere sanno fare, soprattutto quando è un potere senza argomenti.

Ho deciso, in altre parole, di metterci il cappello sopra.

 

Peraltro, ero consapevole del rischio che stavo correndo.

 

A volte è facile ottenere il consenso di chi è d’accordo in partenza con quel che dici. Non dico sia meno importante, ma scrivendo “…quell’enorme lapide bianca”, un testo a cui mi sono avvicinato con cautela, quasi con pudore, sapevo che una parte politica avrebbe potuto essere d’accordo con me.

Ma, e lo voglio dire a chiare lettere, a scanso di qualsiasi equivoco, non ho scritto “Quell’enorme lapide bianca” per dar fiato a sfiatate propagande di giannizzeri e saltimbanchi del potere.

Non ho scritto questo testo per fornire argomenti a chi vuole giustificare la propria barbarie morale con i delitti e i morti causati dagli altri.

Ho messo mano a questo testo non solo per esprimere qualcosa che avevo dentro, ma anche per misurarmi con una memoria che all'inizio sentivo non del tutto mia, ed ho scoperto infissa nel cuore. Tuttavia, lo scopo non era cercare consensi. Semmai, interrogarmi sull’assurdità del dogma e del massimalismo, e sulle atrocità che produce.

Troppe volte abbiamo assistito alla conta dei morti, ai libri neri, rossi o di qualsiasi altro colore. 

Troppe. 

E quella conta, quel gioco a rinfacciarsi atrocità che non assolve neanche per un attimo quelle della propria parte, finalmente comincia a stare stretta a moltissimi spiriti liberi.

 

 

Sono cresciuto a La Spezia, negli anni ‘70, lì è avvenuta la mia formazione culturale e politica. Di quegli anni ricordo l’ossessione e l’obbligo di scegliere. La pressione sociale a schierarsi,  la demonizzazione dell’avversario. Possedevo, inoltre, un cognome fortemente identificato, mio nonno era stato combattente della Repubblica Sociale, e mio padre non faceva mistero di essere missino, come si diceva allora.

E sarebbe stato facile per me  decidere di guardare tutto con una lente deformante che veda solo i demeriti, e le brutture, che stanno di là. Invece, ne ero convinto allora e lo sono ancora oggi, non c’erano solo buoni da una parte e cattivi dall’altra, quanto meno, non in tema di violenza e prevaricazione dell’avversario.

(Ribadisco, qualche eccezione c’è, ma gli italiani anche in questo sembrano avere la memoria corta…)

 

 

Ho un ricordo dolcissimo che voglio condividere, ed è il ricordo di una sera del 2006, in Febbraio, a Trieste. Non era il 10, ma era in quei giorni. Luca Violini, che è la voce unica ed esclusiva a cui ho voluto affidare questo testo, ed io, che non sarei mancato a quell'occasione per nulla al mondo, eravamo a Trieste per rappresentare "Quell'enorme lapide Bianca" alla sede dell'associazione profughi Istriani, Giuliani, e Dalmati.

Era una gelida serata di bora, un freddo mitteleuropeo e un mare bigio che faceva pensare alla guerra.

La sala era scarna, uno stanzone da riunioni associative, non un teatro. Sedie semplici e non poltrone, allineate con cura. Una levatina di dieci centimetri e un telo nero sulla parete erano il palco.

Ma quella sera, mentre Luca interpretava le mie parole, sentii una vibrazione nella sala che non dimenticherò mai. Era una vibrazione sgomenta, di chi ancora, dopo mezzo secolo, si chiede perchè e non sa darsi una risposta. 

E, purtroppo, ma comprensibilmente, non sa perdonare.

Alla fine ci trovammo sommersi di mani, di voci, di facce, di abbracci, Luca ed io.

E una vecchiettina bianca e curva, davvero non arrivava al metro e 50, stretta nel cappotto come se ancora sentisse il vento dell'altopiano carsico, venne ad abbracciarmi. Mi teneva stretto e piangeva. 

Mi raccontava che aveva 16 anni, quando successe tutto. E continuava a ripetermi, con un filo di voce: 

"Tu come facevi a sapere cosa c'era nella mia testa?" 

Mi dava del tu, come ad un figlio, ad un nipote, ad un bambino. 

"Ma tu come facevi a sapere cosa pensavo io?" 

E lo ero davvero, un bambino, in quel momento. Un bambino spaurito di fronte al tempo che porta via tutto, ma non certi dolori. Che trasforma una bimba piangente in un mucchietto di ossa e pelle, che ancora piange.

Penso che fino a quel momento l'idea che mi ero fatto dell'orrore delle foibe era una suggestione intellettuale, raccolta sui libri. 

Dopo, no.

Non poteva più. Perchè è questo il dramma vero. Che quelle liste di morti che i politici e gli ideologi del potere si rinfacciano a vicenda contengono esistenze. Vite, legami, affetti, sogni, ideali, speranze. 

Stroncate in nome di un'idea più idea delle altre.



Torniamo a La Spezia, alla fine degli anni settanta. 

Ricordo perfettamente la mia difficoltà, tremenda nell’adolescenza che chiede certezze, ad accettare per intero un bagaglio ideologico o l’altro, con annessi cattivi da eliminare.

Da bambino, mio nonno mi raccontava le atrocità delle foibe. Ma allora, non si poteva dire. Soprattutto non poteva dirlo lui, che era stato fascista, e lo era rimasto. Riconosco, ripensandoci, la forza di un ideale in lui, anche se io non mi sono mai sentito uomo di destra. Ne', peraltro, sono mai stato marxista.

In virtù di una distanza, di un “non allineamento” ai dogmi, se non a quello del pensiero e della coscienza, mi sono sentito legittimato a parlare delle foibe, una tragedia negata per ragion di stato – o di popolo. Ma mi sono rifiutato di avvicinarmi a un grande dramma del secolo violento delle ideologie, usando lo strumento delle ideologie. Me lo sono detto mille volte, mentre nasceva lo spettacolo: stavolta parla la coscienza, la voglia di ideali, ma che siano puliti, per Dio.

Parla il cuore, quel cuore che ha diritto, e il dovere di desiderare ideali. Ma mai ha il diritto di farli divenire alibi per la prevaricazione di chi  quegli ideali  non condivide. In questi anni abbiamo assistito troppe volte con sconcerto alla violenza delle idee, quando si sentono assolute. 

 

 

In una delle sue prime apparizioni pubbliche, a Montecitorio, era il 10 Febbraio 2009, questo testo scatenò una bagarre sulla stampa, per una dichiarazione dell’Onorevole Luciano Violante, che espresse il disagio provato, ascoltandolo, per le brutture e i soprusi di una parte politica di cui, comunque, continuava appassionatamente a far parte.

Mi sono chiesto perché le parole del mio testo lo abbiano toccato nel profondo. Cosa avessero, in definitiva, di diverso da tutte quelle che il senatore avrà di certo ascoltato sulle foibe negli ultimi cinquant’anni. Non so dirlo. Sono certo però che nelle parole che ho scritto ci fosse un’onestà pre-ideologica, credo di essere riuscito a mettercela, perché ho voluto fortemente farlo.

 

Non ho mai pensato di asservire il ricordo delle foibe ai trasformismi gretti e ripugnanti dei lacchè di un potere auto referenziale. Forse quella onestà che dicevo è arrivata nel profondo. Non credo – non posso credere - che un ideale possa generare mostri, nessun ideale, altrimenti ideale non è.

Credo invece che ci si debba vergognare della presunzione di infallibilità che è figlia degenere dei dogmi.

Credo invece che l'unica possibilità di conciliazione in questa Italia avvelenata, avvelenata di negazione sistematica dell'avversario e dei suoi valori, di incapacità di accoglienza e comprensione, sia riconoscere che anche l'ideale che infiamma il cuore può, in mani sbagliate, o in cuori meno capienti, essere movente per la bestialità.

 

Qualsiasi ideale, anche il più puro.

 

Non parlo della gretta malafede, della sistematica manipolazione della verità per interesse privato. Quella non mi interessa, la schifo, non voglio neppure prenderla in considerazione. 

Il protagonista de “…quell’enorme lapide bianca”, Enrico, dice che un ideale è una speranza. 

Forse i tempi sono maturi perché gli spiriti grandi possono incontrarsi su un terreno comune e parlare. 

Quelli che per un ideale vivono ancora, e ad esso improntano la vita personale e politica.

Ma, soprattutto là in cima, non sono tutti.

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