“Non siamo più in democrazia.”
Dice Rick Grimes – protagonista della serie ormai culto The
walking dead - in chiusura della seconda stagione, meno di sei mesi fa.
E per quanto mi riguarda, in quella frase c’è tutto
l’appeal per cui The walking dead ha sostituito “Lost” nel mio cuore.
Prima di Lost c’era Twin Peaks, e c’è rimasta a lungo,
con accenni sospirosi di nostalgia senile. Poi per fortuna le ultime annate
televisive mi hanno aiutato a spazzarla via e ad amare il capolavoro di David
Linch, la storia dei picchi gemelli e di chi ha ucciso Laura Palmer da lontano,
come si amano le antichità. Come la Nike di Samotracia o la Gioconda. Con
distacco.
E ora, tra le mie preferite, c’è The walking dead.
Un piccolo riassunto ad uso esclusivo di chi non sa, non
ha voglia, non conosce, non ha Sky e non vede le serie in streaming.
Oppure semplicemente per quelli a cui basta, a saziare il
desiderio di fiction, la visione delle Tre rose di qualcuno, mi pare Eva, non
so.
Beh, in quel caso che dire. Buona fortuna.
The walking dead è ambientato oggi, o meglio in un oggi discronico
e in un’America plausibile in cui un’epidemia improvvisa e virulenta trasforma
le persone in barcollanti cannibali dall’aspetto ributtante, epidemia di
origine non meglio specificata per ora (ma vuoi vedere che si scopre che c’è
dietro la CIA e le ricerche sulle armi batteriologiche, per non dire la
ineffabile UMBRELLA di Resident Evil?).
Ma fatto sta: il virus ha infettato la
popolazione terrestre e travolto il mondo come lo conoscevamo:
“It’s the end of the world as we know it…”
Gli esseri umani sono una sparuta minoranza, e il mondo è in balia di orde di Zombies come da intuizione felicissima di George Romero in pieni anni ’70:
“Quando all’inferno non ci sarà più posto, i morti
cammineranno sulla terra.”
Gli zombie di The walking dead, come quelli di Romero, si
muovono in branco senza senso e direzione, distruggendo e divorando quel che
trovano sul loro cammino, o meglio divorando i vivi e trasformandoli a loro
volta in zombie, in una evidente metafora della civiltà di massa.
E di fronte al panorama di un pugnetto di esseri umani di
una volta, spauriti e senza progetto, assediati da un’orda di zombies
decerebrati (attenzione, non sto forzando per avere argomenti a favore della
tesi: sono proprio decerebrati. Una puntata della serie ci ha spiegato che alla
morte cerebrale segue un risveglio delle funzioni primarie del sistema nervoso
simpatico e dell’ipotalamo e stop…), di fronte a questo ribaltamento delle
prospettive in cui le persone senzienti sono la minoranza e i pecoroni senza
cervello la massa (ma quale ribaltamento, ora che ci penso?), Rick Grimes, ad
un certo punto, dice quel che ognuno di noi - o forse qualcuno, di noi -pensa
da tempo, e non ha mai avuto il coraggio di dire a voce alta:
“Non siamo più in democrazia.”
Rick Grimes lo dice in chiusura dell’ultima puntata della
seconda stagione, mentre all’orizzonte si affaccia una ipotesi di futuro, la
prospettiva in cui si svolgerà la stagione successiva – prospettiva che evito
di nominare per non rendermi colpevole di spoiler, che è il peccato mortale del
nostro secolo. Io mi limito a riprodurre la locandina della terza stagione e a starmene zitto sugli sviluppi.
Sì, perchè lo spoiler, tra gli appassionati di fiction
televisiva è più grave del vilipendio alla religione (mussulmana, ovviamente,
l’unica che si autotutela bruciando ambasciate ed emettendo fatwa. Le altre invece no.).
In ogni caso, intorno al fuoco coi suoi compagni, dopo l’ennesimo
scampato pericolo, ormai unico leader di una risicata squadra di sopravvissuti,
Rick, spara quella frase,
“Non siamo più in democrazia.”
…e in quella frase lo sceneggiatore e il cultore di
fiction che coabitano in me riconoscono la mano illuminata del dio di
quell’universo: lo scrittore, il dio creatore che si è lasciato sfuggire attraverso
il suo personaggio una delle sillabe innominabili del suo nome, uno dei suoi
segreti inconfessabili, uno dei semi dai quali è germogliato tutto –
montalianamente, l’anello che non tiene che ci auguriamo un giorno di veder
apparire.
“Non siamo più in democrazia.”
Ha detto Rick. Ed ha detto quel che i suoi sceneggiatori
pensano da sempre. Fin dalla prima inquadratura della prima stagione. Fin dal
concept, oserei dire.
Ora.
Combatto contro la tentazione di intavolare facili
parallelismi sul potere delle banche, sul club Bilderberg e sugli inciuci della
casta, perché sarebbe troppo facile e cheap, troppo condivisibile e bipartisan,
e – quindi - rischierebbe di essere anche un parallelismo troppo popolare:
democratico, appunto. E forse rischierebbe di avere perfino successo, perché
ormai ciò che cheap è comprensibile, uguale al pensiero unico dominante, e dato
che ogni simile ama il suo simile, ciò che è comprensibile è popolare ha
successo.
Ma che volete farci. Ho la vocazione per le posizioni
ostinate e contrarie.
Qualche giorno fa Massimo Fini, ha pubblicato sul suo
blog un interessante commento sulla crisi, anzi, sul fallimento della
democrazia.
Seguo Fini sempre con avida e appuntita attenzione perché
mi pare una delle poche menti lucide e pensanti di questo desolante panorama
che è il mondo della cultura italiana (sedicente ed autoproclamata, nel
migliore dei casi, nata nelle scuole di partito, o peggio ancora attorno ai ciclostile
e alle linotype, oppure rivestita come un blazer dai cialtroni del partito
azienda, che fanno a botte col congiuntivo e pensano che un’anafora sia una
malattia della pelle).
Beh, Fini no. Pensa e – quindi - sa sempre dire qualcosa
di intelligente e di stimolante.
E ‘sticazzi se qualcuno avrà ancora la supponente faccia
tosta di bollarlo perché è di destra, perché è fascista, e via ostracizzando a priori, secondo un rituale che abbiamo sperimentato anche troppe volte, con tutti gli ammennicoli post
sessantottini che conosciamo fin troppo bene… Senza peli sulla lingua, e senza
considerazioni di opportunismo di parte, Massimo Fini è stato uno dei pochi
intellettuali di destra a schierarsi fin dall’inizio apertamente, e senza
esitazioni, contro Berlusconi.
A non cedere cioè al ricatto al quale a destra hanno
ceduto tutti, prima o poi: ingoiamo il nano e tutte le sue ballerine, pur di
buttar fuori i rossi dalla stanza dei bottoni. Non è andata così, lo abbiamo
visto tutti.
Ma questa è – in parte – un’altra storia. Solo in parte.
Riproduco uno stralcio dell’intervento di Massimo Fini sul
suo blog e prometto che tornerò immediatamente dopo a The walking dead per
spiegare cosa c’entra tutto questo, con gli zombies. Anche se credo che il
lettore attento abbia già scorto il bandolo della matassa e un’idea ce l’abbia
già.
“Dopo la caduta del
mondo feudale la dottrina liberal-democratica nasce dalla testa di alcuni
pensatori (Stuart Mill, John Locke, Alexis De Tocqueville) che volevano
valorizzare meriti, capacità, potenzialità dell’individuo singolo, finalmente
liberato dalle rigide divisioni di casta (nobili, ecclesiastici, Terzo
Stato). Nei fatti, storicamente, la democrazia ha realizzato l’opposto, si è
rivelata un sistema di oligarchie, politiche ed economiche, di
aristocrazie mascherate, di lobbies che schiacciano l’individuo che non si
piega a questi umilianti infeudamenti. “
E, aggiungerei io (col sospetto che Fini possa
condividere questa mia convinzione) la democrazia ha dimostrato che per sostenere le lobbies basta manipolare la pubblica opinione e ci
vuole poco a dirigere le masse e irreggimentarle in un voto plebiscitario e
bulgaro: basta qualche promessa populista, un paio di spot azzeccati, un
sorriso piacione da omino di burro e una corposa squadra di mezzi personaggi di
avanspettacolo trasformati in anchor man, o peggio ancora una squadra di escort
camuffate da donne in politica, per riuscirci.
Che ce vo. Domani lo faccio pur io. Ah no. Non ho i soldi
della liquidazione di papà.
Negli ultimi vent’anni, in perfetta sintonia col Piano
per la Rinascita Democratica della P2 sono bastati un pugno di programmi stile
tabloid (o peggio in stile rotocalco, di quelli che a volte si scorrono dalla
parrucchiera e che forniscono ad un esercito di vecchiette una cosa che non solo
surroga alla cultura, ma anzi che le convince di potere con la cultura
competere solo sulla base di conoscenze imparaticce e nozionistiche sulle
vicende matrimoniali e sessuali di questo e di quello) per manipolare e
orientare le coscienze.
E poi, con quell’apparato di luoghi comuni, di bon ton o
di buonismo tout court, si può andare all’assalto del Palazzo d’Inverno,
seguiti da un esercito – di votanti, non ce ne scordiamo mai… - che si armano e
partono senza mollare di mano il telecomando, al solo fine di sostenere la
libertà di fare i fatti propri e per questo crocifiggere i giudici complottardi,
il tutto senza sollevarsi dalla poltrona di sala (poltrona auto sollevante
acquistata, naturalmente, ad una televendita Mediaset.)
Che c’entra? C’entra.
Non dico, sarebbe troppo onore – o disonore, vedete voi, ma prima di decidere
pensate alla faccia di certi figuri sparata sulle tv europee e americane in
rappresentanza dell’Italia – che The Walking dead alluda alla situazione
italiana, al berlusconismo o al Direttorio delle Banche.
Dico però che The Walking dead simboleggia, senza mezzi
termini, la crisi della democrazia, io credo prima americana e poi mondiale, che
in Italia stiamo vivendo in modo eclatante, con la solita platealità
mediterranea capace di produrre operetta e tragedia, tanto è vero che ha
prodotto Fiorito e Dell’Urti.
Di questo parla Walking dead, tanto che nell’ultima
puntata della seconda serie gli sceneggiatori lo fanno dire esplicitamente al
protagonista, Rick:
“Non siamo più in democrazia.”
Rick, uomo d’ordine e di etica, e di sani valori
americani, dice questa cosa che suona come una sentenza ad un sistema.
Non un disadattato o un Rambo qualsiasi dei tanti che
popolano la provincia degli USA e che costituiscono l’elettorato preferenziale
dei repubblicani, il bacino da cui attinge qualsiasi Bush si svegli con la
voglia di inoculare democrazia al mondo.
No, lo dice il personaggio della serie più amato dal
pubblico, Rick Grimes, e che confesso anche io preferisco, perché dietro questa
facciata da uomo del New Deal, di Mickey Mouse trasportato nel futuro post
catastrofico, è amletico, combattuto, pieno di dubbi, per nulla un eroe senza
macchia e senza paura ma al contrario pieno di meschinità, piccolo, a volte
insopportabile, di fronte al quale l’antagonista, Shane, riesce addirittura ad avere spesso accenni di
gigantismo titanico e di grandiosa auto distruttività, a partire da quel
rituale taglio dei capelli a zero con la macchinetta che a me ha ricordato il
taglio di De Niro in Taxi Driver di Martin Scorsese o la preparazione alla
morte del Soldato Palla di Lardo il “Full Metal Jacket” di un altro mito,
Stanley Kubrick.
E obbiettare che siamo in una realtà discronica, che
quello non è il nostro mondo ma un altro dove possibile e alternativo,
probabilmente non basta neppure a chi fa l’obbiezione.
L’intuizione, lo dicevamo, è di George Romero, ma è
totalmente condivisibile. Il grande regista underground americano, che tutti
quelli della mia generazione hanno amato per i suoi horror pieni di sottintesi
sociali, nel secondo capitolo di Zombie ci descrive i morti viventi che
affollano un supermercato e continuano a fare quel che facevano da vivi:
riempire carrelli, guardare incantati le tv che trasmettono spot e commercials,
lo sguardo perso nel vuoto e latitante da qualsiasi forma di pensiero
associativo, e, se gli fosse permesso, andare a votare.
Visione estrema? Ditelo a Romero, relata refero.
Sentite Fini:
Peraltro quella
della democrazia è una questione di secondo grado. La democrazia
è un sistema di regole e di procedure, non un valore in sè.
È un sacco vuoto che va riempito di contenuti. In due secoli e
mezzo il sacco si è riempito solo di valori quantitativi e materialistici e la
democrazia è diventata semplicemente l’involucro legittimante di un modello
di sviluppo economico "paranoico" perchè si basa sulle crescite
infinite che esistono in matematica, non in natura.
Ed ecco che, nel nostro mondo parallelo invaso dagli
zombie che non votano, Rick a differenza degli altri suoi compagni di sventura,
si pone la domanda “Che fare?” in modo problematico e dialettico. Si domanda
dove sia il limite oltre il quale non è legittimo difendere la propria
comunità. Uccidere gli zombie, d’accordo. Ma figurati, li uccidiamo perfino nei
videogiochi da decenni. Non si pone il problema: bang bang, e via così, in un
tripudio di teste spappolate e di materia cerebrale che si sparpaglia ovunque.
Uccidere gli zombie non è un problema etico che si ponga. Bang Bang.
E qui anche noi siamo tentati di dagli ragione, fuor di
metafora.
Poi alla nostra carovana di sopravvissuti succedono due
cose: in primo luogo il gruppetto protagonista della serie viene ospitato in
una fattoria di proprietà di Hershel Greene, un veterinario sopravvissuto
all'apocalisse zombie che vive con i suoi figli, con Otis, un grassone simpatico
esperto di armi e Patricia, la moglie di Otis.
C’è un granaio, e esattamente come la stanza di Barbablù,
non si può aprire, perché Hershel lo pone come condizione tassativa. Hershel è
un brav’uomo, il prototipo del repubblicano metodista di estrazione rurale:
solidi principi e intransigenza coniugati con una accoglienza franca,
disponibile... ma a tempo. E sul patio di casa, ogni mattina, issa la star ‘n
stripes con americana commozione.
Ora: cosa c’è nel granaio, dove nessuno, per diktaat di
Hershel può entrare?
Prima di rispondere, parliamo della seconda cosa che
succede.
Succede che in una tappa di trasferimento di questo eterno girovagare senza speranza, il gruppo rimane in panne
sull’autostrada perché si brucia il radiatore di un camper. Sophia, la bambina
del gruppo, si addentra nel bosco da sola, e sparisce. Disperazione della
madre, costernazione degli altri componenti del gruppo, ricerche frenetiche, uno dei
cui effetti collaterali è la scoperta della fattoria di Hershel. Ma della
bambina nessuna traccia, tanto che nella testa e nel cuore di tutti si è ormai
fatta strada l’idea che sia perduta per sempre, anche se nessuno ha il coraggio
di dirlo a voce alta.
Torniamo alla domanda di cui sopra. Cosa c’è nel granaio?
Zombie, ci sono.
Che altro può esserci. Zombie, che altro non sono che la moglie di Hershel, i suoi amici, e i suoi conoscenti colpiti dal morbo. E che Hershel si rifiuta di considerare delle bestie, degli alieni, degli abomini da sterminare: quell’orrore ringhiante è pur sempre sua moglie.
Che altro può esserci. Zombie, che altro non sono che la moglie di Hershel, i suoi amici, e i suoi conoscenti colpiti dal morbo. E che Hershel si rifiuta di considerare delle bestie, degli alieni, degli abomini da sterminare: quell’orrore ringhiante è pur sempre sua moglie.
E in aggiunta, l’uomo di fede non può rassegnarsi all’idea
che l’anima immortale si sia dispersa così:
“Gesù Cristo ha promesso la resurrezione dei morti, ma io
pensavo che avesse in mente qualcosa di leggermente diverso”
E in ogni caso, visto che quelle nel granaio sono solo
persone malate, Hershel non vuole sentire ragioni: le terrà là dentro finché non
si troverà una cura, e non se ne parla di farle fuori.
E invece Rick, uomo di cultura accogliente e aperta all’inizio
della serie - liberal, mi scapperebbe di dire – che proprio sul tema del
confine tra etica e difesa del gruppo si è spesso scontrato con Shane,
sostenitore invece di un macchiavellico e quasi nietszchano “la salvezza del
gruppo al di sopra di qualsiasi considerazione morale” decide che il gruppo ha
bisogno di un segnale forte, che dimostri che anche per lui la loro
sopravvivenza sta in testa alle priorità.
Rick lo fa anche perché sua moglie, Lori, sta per dare
alla luce un figlio e si chiede se ne valga la pena, in un mondo in cui zombie
senza cervello irreggimentati in eserciti affamati di carne umana si aggirano
indisturbati, e in cui Dio sembra essersi voltato di là.
Rick lo fa per dire a tutti che la loro solidarietà e la
loro unità saranno più forti di ogni minaccia e di ogni ondata plebiscitaria di
zombies che li attacchi.
E di più, sposando una certezza sulla quale è stata fondata l’America, lo fa perché “L’unico zombie buono è uno zombie morto.”
E di più, sposando una certezza sulla quale è stata fondata l’America, lo fa perché “L’unico zombie buono è uno zombie morto.”
E non stiamo a guardare il capello sul fatto che loro, gli zombie, morti lo
sono già.
E quindi, Rick apre la porta del granaio e spara. E gli
altri si uniscono a lui, facendo fuori gli zombie ad uno ad uno. Una carneficina. Una pulizia etnica. Già, ma per la maggiore motivazione della salvezza della razza umana.
Fino a che dal granaio, per ultima, esce Sophia, trasformata in zombie pure lei.
Fino a che dal granaio, per ultima, esce Sophia, trasformata in zombie pure lei.
E Rick spara, perché ormai il confine è chiaro. D'accordo, quelli di prima erano la moglie e gli amici di Hershel, ma prima. Ora sono nemici. E lo è anche Sophia, anche se gli spezza il cuore ucciderla. Ma ormai il confine è tracciato.
Io e i miei di qui da questa parte della barricata, tutti gli altri di là. Qualsiasi esitazione, qualsiasi eccezione etica potrebbe essere letale per qualcuno dei miei. Quindi, non esiste più.
Io e i miei di qui da questa parte della barricata, tutti gli altri di là. Qualsiasi esitazione, qualsiasi eccezione etica potrebbe essere letale per qualcuno dei miei. Quindi, non esiste più.
E così abbiamo seguito passo per passo, il
periplo di un liberal che finisce per dire che la democrazia è finita, e che consacra questa affermazione sterminando gli zombie.
Che diciamocelo, non stanno tanto simpatici neppure a me, e non solo come metafora di quel che rappresentano.
Il problema, come spesso in questi casi mi pare di semplice definizione. Tutto bene, purché si sia capaci di transfert.
Il problema, come spesso in questi casi mi pare di semplice definizione. Tutto bene, purché si sia capaci di transfert.
Avendo scritto un noir, ho imparato il valore catartico degli
omicidi commessi sulla carta stampata, e, mutatis mutandis, credo che la
catarsi nella fiction non sia poi così diversa.
Come dire: lungi da me invocare omicidi o stermini di
massa, non scherziamo. Ma The walking dead, a questo punto mi pare indubitabile, ha un tema sotterraneo preciso: una democrazia che è morta affogata dal suo stesso principio di maggioranza
numerica, oramai del tutto insignificante, quando le lobbies controllano l’informazione
e i mezzi di comunicazione e spesso e volentieri falsificano in modo spudorato
la verità e i meccanismi rappresentativi. In metafora, ca va sans dire. Però
la battuta di Rick è illuminante. E se volete, lo slogan di lancio della terza
stagione lo è ancor di più:
Quando muore la
speranza, quando scompare la pietà, quando finisce la fede c'è solo un modo per
sopravvivere: combattere i morti, e difendersi dai vivi.
Difendersi dai vivi.
The walking dead parla di questo. Di sparuti mazzetti di
umani, meschini, litigiosi, corrosi dal potere perfino se questo potere si
esercita su un numero di membri che si conta sulla punta delle dita, ma pur
sempre umani, imperfetti ma vivi perché speranti, che combattono una guerra
senza quartiere contro un’orda ributtante che sta prendendo il possesso della
terra.
Stiamo parlando per metafore, questo è ovvio, e ce lo concede la zona franca della fiction dove con l'immaginazione possiamo essere astronauti o gangster, antichi romani o uomini del 40 secolo. Però...
Sono infarciti luoghi comuni, forse lanciati da qualche sedicente opinionista al soldo di qualcuno, chissà, sedicenti giornalisti al soldo di un potente, che sia una
banca, un miliardario corrotto o una lobby di autoproclamati amici del popolo.
Ripetono slogan a memoria, non si confrontano ma si schierano, perché per confrontarsi bisogna pensare, per schierarsi basta semplicemente tifare. Fanno valere il
peso del numero e non quello delle idee. Hanno arroganza, supponenza, pressapochismo da vendere.
E anche per questo odiano la cultura.
E anche per questo odiano la cultura.
Davvero a voi non è mai capitato di incontrarli? A me, sinceramente, pare proprio di sì.
Sono gente comune, come me e voi, Imbottita di mezze verità o menzogne intere raccontate dai padroni dell'informazione e dai maghi del consenso. O dalle censure preventive del nuovo ordine mondiale.
E mi pare di ricordare che mormoravano, come giaculatorie, mezze frasi imparate a memoria che avevano ascoltato in tv.
Almeno, a me è parso di sentirlo chiaramente.
Qualche altra volta, invece, tra loro c'ero anch'io. Per fortuna, non sempre, ma qualche volta c'ero.
E ho cantato in coro, mentre tutti insieme sbranavamo allegramente qualcuno, che aveva la sola colpa di essere diverso.
Qualche altra volta, invece, tra loro c'ero anch'io. Per fortuna, non sempre, ma qualche volta c'ero.
E ho cantato in coro, mentre tutti insieme sbranavamo allegramente qualcuno, che aveva la sola colpa di essere diverso.
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