Qualche giorno fa, nella conferenza stampa di presentazione di “Trilussa, storia d’amore e di poesia”, in mezzo alle tante domande entusiastiche sull’ambientazione e i costumi, il cast (lavoro davvero eccellente del nostro amico Lodovico Gasparini, che oltre ad avere il merito infinito di essere amico nostro, è, a tempo perso, anche un grande regista), tra qualche punturina non sempre benevola - ed ingiustificata - al Trilussa “Apulo-trasteverino” di Michele Placido (critica ingiustificata, dico, perché un grande attore è un grande attore, e Michele lo dimostrerà…), e i sorrisi irresistibilmente modesti di Monica Guerritore per la prima volta nella parte di una donna che vota la vita al ruolo di vestale del genio - una donna così diversa da lei…. - , in mezzo ai commenti sulla scelta della Titanus che produce il film di girare a Roma (vivaddio!), e non andare a sbattere, come ormai è gioco forza, in qualche teatro di posa dell’est (ma il discorso è complesso, lo rifaremo, qui in Italia la fiscalizzazione e la sindacalizzazione raddoppiano tout court il costo di un film prima ancora di battere il primo ciak…), prima di tutto questo, un giornalista malignazzo ha punzecchiato Michele Placido con una domandina impertinente che riassumo, non avendo la trascrizione originale, ma garantendo di rimanere assolutamente fedele sia nella formulazione che nello spirito:
“Ma a lei, che ormai è un mostro sacro del teatro italiano, che ha
realizzato come interprete e come regista film importanti come Romanzo
criminale, per citare solo uno degli ultimi, che sta sbarcando trionfalmente in
Francia, dove dirigerà al cinema Berenice
Bejo, protagonista femminile del film premio Oscar “The Artist”… chi gliel’ha fatta
fare di andare a rischiare su una fiction televisiva?”
Domanda sfacciatella ma legittima. Tanto più che mi piacciono i giornalisti
non succubi dello status quo, che almeno un pochino si permettono di essere
impertinenti e di dire una cosina fuori dal coro. Visto che la razza è in
estinzione, come dire, ci si rincuora quando si vedono segnali di vita sul
pianeta.
Solo che…
Eh. Solo che, dopo tanta illuminata domanda, degna di un giornalismo rampante
all’americana, la risposta di Michele Placido – nei resoconti del giorno dopo
sulla carta stampata - si è persa. In
sostanza, dopo aver sparato la domandina malignazza, nessuno si è premurato di
dar conto di quel che ha risposto Michele Placido. Nessun complotto, credetemi, nessuna
malafede. Solo il supremo, disarmante disinteresse verso l’autorialità - sempre
ammesso che non sia una parolaccia - e verso chi pensa, elabora, scrive le storie.
Che fa sempre un lavoro importante e di solito poco riconosciuto.
E invece è giusto riconoscerlo e dare allo sceneggiatore ignorato quello
che è dello sceneggiatore ignorato. Perfino quando lo sceneggiatore ignorato,
tra gli altri, sono io.
La risposta di Michele Placido (anche in questo caso non sarò testuale, ma
garantisco una fedeltà benedettina nel riportare i contenuti) è stata questa:
Ecco qui: c’est tout. Io questa frase me la incarto, me la porto a casa e me la conservo per le sere d’inverno.
Solo che questa frase, sui giornali, non c’è finita. Forse anche perché, secondo i nostri maestri di pensiero, il pubblico non sa neanche più chi siano Age e Scarpelli. Forse perché lo sceneggiatore di solito non è glamour, lo immaginano tutti come una macchietta con gli occhiali spessi, la camicia abbottonata fino al collo e colorito giallastro da nerd, come in Boris, forse perché in definitiva è solo un imbucato dello star sistem, a meno che non scriva romanzi d’appendice facendo finta che siano d’avanguardia, non abbia il gruppo creativo a seguito, non si faccia ritrarre in servizi fotografici su GQ, XL, e via radicalsciccando, che in Italia è uno sport che piace a tutti, grandi e piccini e che finisce per attivare un passaparola virale che stabilisce in pochi mesi che sei un genio. E a quel punto lo sei per tutti, vita natural durante. Anche per chi non ha letto neanche una riga scritta di tuo pugno. (non ci fate caso, parlo per invidia. E’ così evidente.)
Ma ammettere l’errore, di questi tempi, è una mezza discolpa. In questa
gigantesca e catartica autodafé delle colpe sociali, ammettere qualsiasi cosa,
dall’aver pagato gli arbitri a regalare soldi alle povere ragazze per toglierle
dalla strada ti ripulisce ipso facto. E ti pone immediatamente nelle condizioni
di recriminare. Per cui ammetto: sto scrivendo per invidia e per un po’ di
rodimento. Ecco fatto.
E allora, ladies and Gentleman, anche se pare brutto, anche se chi si loda
si imbroda, e d’altra parte non vedo altro modo di imbrodarmi, se non facendolo
con i miei mezzi, il nome dei tre sceneggiatori di "Trilussa, storia d'amore e di poesia", ve li dico io.
Sono il genio rurale e imbronciato
di Peter Exacoustos, cuore romano, cognome greco, ascendenza tedesca, poeta
borbottone ritiratosi a fare il contadino sulle colline di Arezzo, che ha
concepito, prima del nostro Trilussa “Terra Ribelle”, “Le ragazze di Piazza di Spagna” “Una donna
per amico” “Una donna che ritorna” … grandissima penna e grande anima,
preoccupatissimo che a sua madre, romana de core, possa non convincere il
nostro Trilussa. Ma sono sicuro che lo fa per scaramanzia.
L’altro innominato è Alessandro Pondi, da anni mio partner di scrittura,
modi spicci da sceneggiatore romagnolo, che non è mica un’offesa, se pensiamo a
Tonino Guerra e a Fellini, e che in sovrappiù ha la dote sovrannaturale di
vedere gli elementi che intessono la struttura di una storia, la sua scansione
e la sua sequenza, esattamente come Neo –
l’eletto di Matrix - vede le linee
verdoline che compongono la Matrice.
Magari qualche decibel il meno mentre si accalora potrebbero essere una
buona idea, ma si può avere tutto?
Infine, come direbbe il mio amato Dante Alighieri “Io fui terzo tra cotanto
senno”
Abbiamo creato – a questo punto, libero e senza vergogna, sdoganato dall’outing,
dico “creato”, perché fermarsi a “scritto”?
– questo “Trilussa, storia d’amore e di poesia” con un occhio a certi film
picareschi di Magni, orecchiando i sapori del “Marchese del Grillo”, de “In nome del papa Re”, film che amiamo e
che a volte, anche solo per giocare, ci
divertiamo a citare a memoria, ma non è una fatica, perché alcune è proprio
impossibile dimenticarle.
Come si fa a non ricordare: “Perché io son io e voi nun siete un cazzo?”
Abbiamo scritto questa storia con quei film negli occhi e nel cuore. Ecco perché quella risposta di Michele
Placido, che nessun giornalista si è preso la briga di pubblicare, ci onora e
ci inorgoglisce.
Ma dentro il nostro Trilussa ci sono soprattutto due temi sui quali abbiamo
investito molto, sia in termini di cuore che di scrittura.
Prima di tutto, il tema dell’ineluttabilità del tempo che passa, “la vita è
un mozzico…” , la malinconia sorniona
dell’antico tombeur de femmes che si scopre anziano, e fuori dai giochi di
fronte alla bellezza acerba della stella – Giselda - che sta per sbocciargli
tra le mani e volar via, nel firmamento dello spettacolo, il dolore dell’anziano
poeta che, come Cyrano, compone lettere d’amore che un altro, Arturo, un
ragazzino fresco di giovinezza e inebriato di vita porgerà a Giselda.
Ma, dall’altro lato, il tema che ci sta molto a cuore – e a me in
particolar modo – del rapporto dell’intellettuale con il potere.
Abbiamo voluto ambientare questa storia nel 1937 in quanto cerniera
cruciale nella storia italiana e del fascismo. Sarebbe stato facile raccontare il
periodo – come la storiografia troppo spesso fa, con pigrizia e con conformismo
– come un gigantesco lager italiano in cui tutto era sopito, tutto era
grigiore, tutto era morte.
Sia chiaro: c’era e c’era stato lo squadrismo. C’era stato il delitto
Matteotti. Eventi gravissimi, che nessun revisionismo può negare. E non i soli,
potremmo metterci qui a fare la lista, salvo che di solerti compilatori ce ne
sono già stati molti. (Parlo così perché non amo le storiografie a tesi. E se
il fascismo ha rivelato proprio in quel secondo decennio il suo volto bestiale,
Roma, fino al 1937, grazie ad una impareggiabile capacità tutta italiana di vivere e di trovare degli
spazi anche quando sembrano non esserci, era una città viva, culturalmente e
perfino – non dico eresie – politicamente.
Spesso in clandestinità, certo. Ma viva.
In questo scenario, l’apparire delle leggi razziali, le prime stelle di David
tracciate sui muri del ghetto per lo sconcerto di una popolazione, quella
romana, naturalmente puttanona, quindi aperta a tutti, le vetrine sfondate, il
sospetto delle deportazioni che divenne ben presto certezza, avevano
risvegliato bruscamente una Roma, che fino a quel momento aveva creduto davvero
di essere ancora, per la seconda volta, il “Caput Mundi”.
Ecco, Trilussa sta impiantato proprio lì, guarda Roma sua che si scopre
schiava e indigente con un occhio colmo di un cosmico disincanto, quasi un
distacco dalle cose del mondo. Quasi come sapesse già che i ladri di verità e
di giustizia sono molti, hanno molte facce, e che è giusto liberarsi, certo, ma non è detto che non succeda di nuovo… e insieme, Trilussa non può, col cuore che
batte all’unisono con la sua città e con la sua gente, non dire quel che gli
urla dentro.
- Conterò poco, è vero:
- diceva l'Uno ar Zero -
ma tu che vali? Gnente: propio gnente.
Sia ne l'azzione come ner pensiero
rimani un coso voto e inconcrudente.
lo, invece, se me metto a capofila
de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
È questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so' li zeri che je vanno appresso.
- diceva l'Uno ar Zero -
ma tu che vali? Gnente: propio gnente.
Sia ne l'azzione come ner pensiero
rimani un coso voto e inconcrudente.
lo, invece, se me metto a capofila
de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
È questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so' li zeri che je vanno appresso.
Versi di un poeta che la critica laureata e allineata ha definito qualunquista.
E che invece, esattamente come Benedetto Croce sul versante accademico, aveva
fatto la scelta di rimanere lì, e cercare di rappresentare, con poche ma
assestate parole, una sorta di controcanto interno. Versi di un poeta che prima
di qualsiasi altra cosa non sopportava l’ottusità dello schierarsi
acriticamente, di mettersi in coda al primo “capo in testa con il distintivo
sfavillante” come avrebbe detto, molti anni dopo, con identica ironia, parlando di altri militanti accodati, Edoardo Bennato.
Francesco Malgeri, il direttore del Messaggero, il giornale che pubblicava Trilussa, era disperato. Praticamente ogni sonetto del poeta gli valeva una reprimenda del MinCulPop, l’arcigno Ministero della Cultura Popolare, ma praticamente ogni sonetto infiammava i romani e gli regalava il tutto esaurito.
Trilussa, voce e core de Roma, non ebbe mai dal Fascismo ne’ onori ne’
prebende, che invece furono riservate a Gabriele d’Annunzio, cantore dei fasti
Italici, e che il nostro non sopportava granché, pur dicendosene amico. Qualche volta, più spesso si ricordano
battibecchi in punta di forchetta tra i due, che ci siamo divertiti a mettere
in scena. Nessun riconoscimento, per Trilussa, dal potere fascista. Solo un disinteresse
infastidito ma quasi divertito, che, credo, derivasse da una parte dall’averne
sottostimato il potenziale di eversione sociale e dal’altra dalla
consapevolezza che se il fascismo avesse toccato il Poeta di Roma, forse la
città sarebbe insorta in sua difesa. Questa lungimiranza di Mussolini l’abbiamo messa in scena nel nostro film, in
un incontro tra il Dittatore e il Poeta che
abbiamo ambientato a Palazzo Venezia nella Sala dei Mappamondi, e che mi pare
uno dei momenti felici della sceneggiatura.
Ho fatto tutto questo rigiro perché ho letto in qualche articolo sul
giornale, che descriviamo Trilussa che beve vino fino ad ubriacarsi per
dimenticare il fascismo.
Smentisco categoricamente.
Trilussa il fascismo e le sue implicazioni,
soprattutto dopo le famigerate leggi razziali, li aveva ben chiari. E
probabilmente negli ultimi anni del regime - quelli in cui il potenziale e la
spinta rivoluzionaria si erano arresi ad un rigurgito borghese e reazionario - si stava interrogando se fosse il momento di
venire allo scoperto, o di continuare -
come fece – ad essere la voce di quel malcontento sotterraneo, borbottone,
romanesco, che pure ha dato propellente, al momento giusto, per l’eroica
liberazione di Roma. Perchè Trilussa, nel modo bonario dell'uomo che molto ha visto e molto ha compreso, della storia e del mondo, quel che pensa non lo manda mica a dire. Qui è al capezzale del povero Arturo, il suo protegè, ridotto a malpartito dai manganelli degli squadristi:
TRILUSSA
L'hanno ridotto male,
povero Arturo.
MASTRO SERGIO
E je sta bene, così se
‘mpara a ammischiarsi de politica con quei delinquenti, invece de stà a
bottega a damme na
mano.
TRILUSSA
Mastro Se', fattelo
dire… E' proprio perchè ognuno ha pensato alla bottega sua, che ora abbiamo
bisogno di ‘sti giovanotti che s'immischiano di politica.
Questo per quel che riguarda la politica.
Il vino, invece, quello no.
Il vino, invece, quello no.
Quello, lo beveva solo perché gli piaceva.
Dei castelli.
Alla fraschetta.
MI PIACE! CIAO,B.
RispondiElimina-----------------------------
LI ROSPI CONTRO L'AQUILA
A mezzanotte, se nun c'è la luna,
la Lega de li Rospi se raduna
sull'orlo d'un pantano puzzolente.
Ecco ch'er Presidente
se sgargarozza e spiega
lo scopo de la Lega,
ch'è quello de dà addosso
a chi nun sente simpatia p'er fosso.
-Cari colleghi, la diffamazzione
e tutta una questione de maniera:
in certe circostanze fa più effetto
una cosa che nasce da un sospetto
che quanno nasce da una storia vera.
Dunque inventate, giù! Sotto a chi tocca!
Cor fiele in core e cor veleno in bocca!
Nell'urtima riunione
se la semo pijata cor Leone;
stanotte invece avemo da dì male
dell'Aquila reale,
in modo che j'arivi e ja rimanga
quarche schizzo di fanga...-
Un vecchio rospo scivoloso e grasso,
spaparacchiato su la panza floscia,
slarga le cianche deboli e se scoscia
per arrivà su un sasso.
- Compagni! - dice poi -
L'Aquila se dà tutta 'sta boria
nun è che la ruffiana de la Gloria
che specula sur sangue de l'eroi!
- E' vero! - Bene! - Bravo! - Morte all'aquila
- Abbasso! - Evviva noi!
Er rospo fa un inchino
e ricomincia la requisitoria:
- Io nun capisco come
quela bestiaccia co' quer becco a uncino
s'è fatto tanto nome ne la storia!
Per me nun cià che un merito! Uno solo!
Vola! E va' be'! Ma a che je serve er volo?
Nojantri rospi senza annà lontano
vedemo tutto er monno che se specchia
ner fonno der pantano:
dunque nun è 'na cosa necessaria
d'arivà, come lei, tanto per aria!
- Perchè je torna conto!
- borbotta un socio - Infatti ciò la prova
che certi giorni, prima der tramonto,
rubba l'oro a le nuvole che trova...
- E'una ladra! Una spia!
- strilla er più giallo de la compagnia -
Ma, se viè qui je romperemo l'ossa!
J'addirizzeremo quelle gambe storte!
- Morte a l'infame! - Morte! -
E la buriana seguita, s'ingrossa
e l'improperie schizzeno più forte.
Ma appena spunta in cima a la montagna
la prima luce rosa
che ridà li colori a la campagna,
ogni rospo s'azzitta e con un zompo
se schiaffa nell'acqua mollacciosa.
Ciacchete! Un tonfo e poi...nun resta a galla
che quarche bolla e un po' de schiuma gialla...