sabato 13 dicembre 2014

IL BOOKTRAILER DI DURA PIOGGIA CADRA'




Circa un mese fa veniva reso pubblico il booktrailer del mio romanzo "Dura pioggia cadrà", realizzato - con la solita meticolosità e cura dei particolari - da Giovanni Bufalini con la scuola Romana di Fotografia, ed interpretato da par suo da Cosimo Cinieri.
Ho conosciuto Cosimo molti anni fa, durante la realizzazione di un cortometraggio, per la regia di Irma Immacolata Palazzo, in cui appariva insieme ad Enrico Brignano. In quell'occasione mi occupai del montaggio, e il mese di sala servì di certo a cementare una bella amicizia, sia con Cosimo che con Irma. Mi piacerebbe rivederlo, quel corto.Da allora ci siamo ritrovati molte volte, Cosimo ha letto mie cose in presentazioni pubbliche, ed abbiamo tentato, senza riuscirci per ora, di montare il mio testo su Hendrix per il teatro.
Ma mica è detta l'ultima.
Per il momento, mi accontento di rendere omaggio all'intensa maschera di Cosimo, che in queste immagini ha saputo cogliere perfettamente la malinconia, lo straniamento, la voglia di lasciarsi andare del mio Merlino, all'inizio della storia. 

https://www.youtube.com/watch?v=IYQLufPYc-0

(di seguito, l'estratto del passo che ha ispirato il Booktrailer)


A volte è tenera, la notte, ti accoglie e ti culla, e mentre dormi ti illudi di essere tornato a quando tutto era bello, e nuovo, e avevi scelto tu di esserci.
La notte a volte è pietosa, perché nasconde tutto. 
Per esempio il fatto che, semplicemente, non hai scelto nulla, ti illudi. Che sei qui perché devi, perché non puoi fare diversamente, perché attendi, e mentre attendi, cominci a pensare che non ci sia niente da attendere. E implori l’oblio. Oh, l’oblio.
La mano che si stringe sulla bottiglia affondata nella tasca…
A volte invece è infida, la notte.
Perché nasconde i nemici ed offre loro ombre nelle quali acquattarsi. Gli occhi di Merlino guizzano di qui e di là, e non trovano tregua.
Poi arriva l’autobus, e Merlino sale senza guardarsi le spalle. Scivola tra i passeggeri che fissano di fronte a sé, e si siede. Sarebbe tentato di rilassarsi, di dirsi che non c’è nessuno che lo segua o che lo tenga d’occhio. Invece potrebbero semplicemente fingere, di non guardarlo. Tutti quanti.
Lui scruta i loro volti, e loro guardano lontano.
A volte è crudele, la notte. Perché fa pensare al passato.
E se il passato è troppo lungo per ricordarlo tutto, allora la notte diventa nient’altro che un immenso tunnel spalancato sull’alba del giorno dopo, e dentro quel tunnel scroscia un flusso di ricordi, come sangue che sgorga da una ferita.
È un dolore sottile, si placa solo quando l’alcool brucia la lingua.
PROSSIMA FERMATA: PIAZZA RE DI ROMA dice il display luminoso che scorre insistente sopra la porta dell’autobus. Merlino guarda fuori, il viso appiccicato contro il finestrino, confuso nel rumore di mille parlate estranee che si sommano.
Sente il freddo del vetro sulla guancia, e si immagina che da un minuto all’altro qualcuno aprirà il finestrino, e il nero della notte comincerà a colare dentro. Ad ondate. A fiotti. Sommergerà tutto, come un miasma. Come un rigurgito di fogna, perché tanto c’è poco da salvare, in questa città.  Come in tutte le altre, d’altra parte, in questo scorcio di millennio puzzolente di fumo di idrocarburi e di poteri che non mostrano la faccia.
Avalon era diversa.
O forse è solo che Merlino, allora, era giovane, e quando si è giovani è bello avere degli ideali.
Un vegliardo giovane, era. O forse era il mondo, che aveva appena iniziato ad invecchiare.
Ma tant’è.
Il vecchio aggiusta le buste di plastica tra i piedi, piene di quei pochi vestiti che è riuscito a raccattare, e tira fuori dalla tasca del giaccone la bottiglia di fernet. Ingoia una lunga sorsata di quel liquido denso, che gli scende nello stomaco colando lungo le pareti della gola, e spera di sentire al più presto le ondate dell’alcool risalire al cervello, per riempirlo di ovatta rosa.
Oppure, meglio ancora, spegnerlo e basta.
Avalon era un’altra cosa.
Vorrebbe gridarlo ai quattro venti.
Dire: ti ricordi? Te le ricordi, le guglie delle torri che bucavano il crinale?
Avalon, te la ricordi?
Ma non può.
Così raccoglie i suoi sacchetti da terra, e si fa strada a gomitate verso  la porta. Per un attimo gli è parso di vederla balenare davvero, la città d’oro, e quasi ha sentito nelle narici il profumo dell’Isola delle mele, ma adesso, al di là dai vetri sgocciolati di acqua nera è riapparsa Roma, e l’autobus percorre i lunghi viali umbertini dalla pretesa di austerità e decoro che circondano la Stazione Termini.
E si chiede, per l’ennesima volta, come sia potuto succedere.  


lunedì 8 dicembre 2014

Un pensiero che a volte non si può evitare.




E se, in mezzo a tante voci che rimpiangono l’artista, per una volta, ci si soffermasse a pensare al momento?
E se ogni tanto parlassimo di cose importanti, come la morte?

Avviso ai lettori: il post che segue potrebbe essere estremamente sgradevole, perché parla di vita privata, di sentimenti intimi, e di senso dell’esistenza.

Ieri sera, nel corso di un concerto in provincia di Matera, Mango è stato colpito da un attacco di cuore. Che non l'ha risparmiato. La notizia la sanno tutti, ormai. E' girata e sono moltissimi coloro che hanno scritto e diffuso messaggi di cordoglio.



Non voglio aggiungerne un altro, ma affidare alla carta (! seppur telematica) alcune riflessioni. Provo a farlo cercando di non finire mani e piedi nella retorica che purtroppo in queste occasioni si spreca.
Senza pretendere di dare nessuna spiegazione, per carità, chi siamo noi per spiegare una cosa talmente grossa come vivere.
Però, si sappia, il post che segue non è un post politically correct.
Nel senso che si interroga sul nostro stare a questo mondo.
Lo ripeto, senza risposte. Magari averne.
Ho ceduto, come molti, alla tentazione di vedere quel filmato che riprende gli ultimi attimi di Mango.
Non che avessi nessuna particolare inclinazione nei suoi confronti, mi dicono fosse una brava persona, a me è capitato di incrociarlo a Sanremo, quando partecipò all’Ariston ad una trasmissione tv che ho scritto, ma troppo poco per dire di conoscerlo. E troppo poco conosco la sua opera per dire se era o no, un grande artista.
Ma come tanti altri, a giudicare dai clic, sono andato a vedere gli ultimi attimi della sua vita. E non credo di dovermi giustificare, è umano, molto umano guardare ad un attimo estremo.
L’ho guardato con la consapevolezza che è un attimo di tutti, anche mio.
E che è certo.
E nonostante questo, tremendamente sottovalutato, o ignorato.

L’ho fatto, come molti altri, perché in quel filmato c’era l’attimo, quello in cui si scavalla il crinale, e si va, forse, di là.
O forse, per altri, semplicemente, si spegne la luce per sempre, e addio tutto.
E allora che problema c’è.
Prima c’eravamo, dopo no, clic.



Ho guardato il filmato e l’ho fatto anche perché mi colpisce personalmente, la morte per infarto. Una morte che mi fa sentire in un qualche senso miracolato, perchè da lì sono passato ho attraversato, e sono qui.
Premiato a prescindere dai meriti, come se gli anni dopo quell’evento, che ho vissuto, fossero regalati.
Sia chiaro, non ci vedo niente di speciale nella mia vicenda personale, che condivido con centinaia di migliaia di persone che ogni anno, nel mondo hanno un attacco di cuore. E già che ci sono, non ci vedo nulla di speciale nella mia vicenda personale, punto.
Ma delle considerazioni mi viene di farle.

Dopo il suo infarto, Roberto Vecchioni, nell’Album Blumùn, affidò a Gene Gnocchi il difficile compito di impersonare Dio, che quasi sorride di quel sentimento che evidentemente è così comune a chi l’ha scampata:

Vecchioni, Vecchioni... già il nome che hai avuto in sorte,
Vecchioni... ma non ti dice niente? E continui a
rubarmi giorno dopo giorno, anno dopo anno... e io
a concederli questi anni e sai perché?
Ogni anno che passa, mi piace vedere la tua faccia
da viaggiatore di commercio che ha scoperto al
casello che c'è lo sciopero e non si paga e fa la
faccia seria ma dentro... ride.

E’ esattamente la sensazione che ho io: che ogni attimo - dopo quell’attimo - sia solo il regalo di un casellante distratto che si è dimenticato di chiedermi il pedaggio.

Nel video del concerto, il suo ultimo, ma lui non lo sapeva, per fortuna, che era l'ultimo, Mango cerca disperatamente di continuare  a cantare, la sola cosa importante, la sola che volesse fare, in ogni caso quella a cui aveva dedicato la vita.
Sono andato a cercarmi i suoi testi, non conoscendo moltissimo della sua opera, ed ho trovato questa:

Siedi qui
e getta lo sguardo giù
tra gli ulivi
l'acqua è scura quasi blu
e lassù
vola un falco lassù
sembra guardi noi
fermi così
grandi come mai
guarda là
quella nuvola che va
vola già
dentro nell'eternità

La canzone si chiama “Mediterraneo”, forse l’ho anche sentita, giuro, non c’è snobismo, semplicemente amo un altro tipo di musica. Ma mi pare che si riconosca, in quelle parole la vertigine di cose e pensieri troppo grossi per contenerli tutti.
Ecco, forse di questo dovremmo parlare.
Quanto meno, di questo sto tentando di parlare io. Magari per dire che la mia ricerca è durata anni – dura tuttora - ma non ha portato nessuna parte.
Magari per dire che quando penso a queste cose, leopardianamente, mi sperdo e contemporaneamente mi sento cullato.


Mango, ieri sera, su quel palco, non cantava “Mediterraneo”, ma “Oro”, il suo brano più celebre, che conosco anch’io. (Lo cantò anche quella sera, all’Ariston di Sanremo, quando ci conoscemmo)
Su un piccolo palco a Matera o nelle vicinanze, perché la vita degli artisti è fatta di una lunga sequela di date e di piccole e grandi piazze, e non solo dell’Ariston.

Eccomi qua
sono venuto a vedere
lo strano effetto che fa
la mia faccia nei vostri occhi
e quanta gente ci sta
e se stasera si alza una lira
per questa voce che dovrebbe arrivare
fino all'ultima fila
oltre al buio che c'è
e al silenzio che lentamente si fa
e alla luce che taglia il mio viso
improvvisamente eccomi qua

C’è qualcosa che colpisce fortemente l’immaginazione, nell’andarsene su un palco, mentre si canta, e mentre si canta la propria canzone più famosa. Affermando la vita con uno degli atti che più di tutti la sanno descrivere e celebrare: suonare.


No, non parlo di “gioia di vivere”; parlo di omaggio all’esistenza. Questo si fa, io credo, quando si canta, si recita, si scrive, si dipinge.
Anche, questo.
Si omaggia questa “esistenza tremante” che vorrebbe maggiori spiegazioni. Che le implora.
C'è un poemetto di Pascoli, purtroppo relegato tra le cose che ti obbligano a studiare a scuola, e - quindi - tra le cose che ti affretti a dimenticare appena finisci, il cui incipit recita così:


Uomini, se in voi guardo, il mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell'eterno vento; 

voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi, all'erbe dell'aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.

Oh! voi non siete il bosco, che s'afferra
con le radici, e non si getta in aria
se d'altrettanto non va su, sotterra!


Oh! voi non siete il mare, cui contraria
regge una forza, un soffio che s'effonde,
laggiù, dal cielo, e che giammai non varia. 

Eternamente il mar selvaggio l'onde
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde. 

Ma voi... Chi ferma a voi quassù le piante?
Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti
a questa informe oscurità volante;

che fisso il mento a gli anelanti petti,
andate, ingombri dell'oblio che nega,
penduli, o voi che vi credete eretti!

Ma quando il capo e l'occhio vi si piega
giù per l'abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichìo di Vega...? 

Allora io, sempre, io l'una e l'altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d'erba, per l'orror del vano!

a un nulla, qui, per non cadere in cielo!
 


Ma poi, nel filmato, con la voce che si rompe, come se si rendesse conto che sta per fare qualcosa che non si fa, che non sta bene, Mango dice: “Scusate”.

Ecco, adesso anche io sto per fare qualcosa che non si fa, sto per parlare di cose intime, private.

Perché vedete, quello "scusate" io l'ho riconosciuto.
L'ho vissuto, identico, cinque anni fa. “Scusate” è solo un attimo tra la battaglia che hai combattuto per scacciare la marea che monta, e il momento in cui ti travolge.
Solo che io sono qui a raccontarmelo, e lui, no, pace all'anima sua.
Però conosco esattamente le sensazioni che stava provando da qualche minuto, quel fastidio dentro che “…ora passa, lascia che vada”, quella paura di ammettere che qualcosa sta succedendo, prima di decidersi a dire “Scusate”, perché da qualche minuto stava cercando di ignorare qualcosa che - se smetti di ignorarlo - diventa reale.

E poi "Scusate".

Dice.
Dice l'ammissione della propria fragilità. del fatto che hai capito che quella battaglia non puoi vincerla se non abbassando le braccia e sperando che la corrente del destino sia clemente.




Nelle rappresentazioni medievali, spesso, la morte è associata ad un motto socratico che per molti è una reminiscenza ginnasiale:

γνῶθι σεαυτόν


Gnothi seautòn, cioè conosci te stesso.
E allora.

In quella stessa canzone, di cui parlavamo prima, Blumùn, Vecchioni si premette di rispondere a Dio, nientemeno (ancorché impersonato da Gene Gnocchi, che, lo ammetto, lo rende un tantinello meno autorevole, all’Essere Perfettissimo Creatore e Signore),  e lo fa così:

Non mi dire più niente, sì lo so!
che ti ho fregato sugli anni, se lo so!
Ma gli anni io li ho amati da incosciente,
ad uno ad uno senza preferenze:
e ridarteli indietro brucia un po'.

Non rimpiango le cose che non ho, oh no,
sono molte, molte di più quelle che ho;
da Viaggiatore di malinconie
mi trovo a corto di furfanterie:
le stelle della mia sera sono mie

Mi sono avventurato in questo intervento temerariamente, ora me ne rendo conto, senza sapere dove portasse, senza risposte e senza interpretazioni.
Mi rendo conto, a questo punto, che non mi soccorre la conoscenza dei poeti, delle canzoni, delle scritture. 
Forse sì, mi viene in mente il passo iniziale dell’Ecclesiaste che ho sempre stampato nel cuore, e che probabilmente qualcosa centra:

2 Vanità delle vanità, dice Qoèlet,
vanità delle vanità, tutto è vanità.
3 Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno
per cui fatica sotto il sole?
4 Una generazione va, una generazione viene
ma la terra resta sempre la stessa.
5 Il sole sorge e il sole tramonta,
si affretta verso il luogo da dove risorgerà.

In questa visione, in questo sguardo dall’alto che sorvola la storia e l’esistenza umana, ho percepito sempre un senso ultimo, al quale – purtroppo per me – non sono stato capace di dare il nome di una divinità. Ma è indubbio che quando ci pensi, e non sfuggi alla domanda, ti rendi conto che è questa. Ed è solo una.


Almeno, così mi pare.

6 Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana;
gira e rigira
e sopra i suoi giri il vento ritorna.
7 Tutti i fiumi vanno al mare,
eppure il mare non è mai pieno:
raggiunta la loro mèta,
i fiumi riprendono la loro marcia.
8 Tutte le cose sono in travaglio
e nessuno potrebbe spiegarne il motivo.
Non si sazia l'occhio di guardare
né mai l'orecchio è sazio di udire.
9 Ciò che è stato sarà
e ciò che si è fatto si rifarà;
non c'è niente di nuovo sotto il sole.

D’accordo, mi si potrebbe dire che già vivere è così duro, senza pensare alla morte. Che già è dura ripartire ogni mattina, trovare motivazioni, guardare oltre, in un momento – almeno in Italia – in cui sembra non ci sia futuro. Ma forse è proprio nelle domande inevitabili che si annida una possibilità di speranza.
Ma forse, se non ci raccontiamo questo, almeno una volta ogni tanto, di che cosa dovremmo parlare?

10 C'è forse qualcosa di cui si possa dire:
«Guarda, questa è una novità»?
Proprio questa è già stata nei secoli
che ci hanno preceduto.
11 Non resta più ricordo degli antichi,
ma neppure di coloro che saranno
si conserverà memoria
presso coloro che verranno in seguito.

Non lo so.
Chi sta leggendo. accolga con indulgenza questi pensieri senza una vera direzione, che contengono anche un gesto di rispetto per un uomo che ha varcato un limite.



E come i nostri vecchi, che si toccavano il cappello entrando in una stanza in gesto di omaggio,  anche io, vedendolo attraversare la soglia, gli mando questo mio pensiero.