Circa un mese fa veniva reso pubblico il booktrailer del mio romanzo "Dura pioggia cadrà", realizzato - con la solita meticolosità e cura dei particolari - da Giovanni Bufalini con la scuola Romana di Fotografia, ed interpretato da par suo da Cosimo Cinieri.
Ho conosciuto Cosimo molti anni fa, durante la realizzazione di un cortometraggio, per la regia di Irma Immacolata Palazzo, in cui appariva insieme ad Enrico Brignano. In quell'occasione mi occupai del montaggio, e il mese di sala servì di certo a cementare una bella amicizia, sia con Cosimo che con Irma. Mi piacerebbe rivederlo, quel corto.Da allora ci siamo ritrovati molte volte, Cosimo ha letto mie cose in presentazioni pubbliche, ed abbiamo tentato, senza riuscirci per ora, di montare il mio testo su Hendrix per il teatro.
Ma mica è detta l'ultima.
Per il momento, mi accontento di rendere omaggio all'intensa maschera di Cosimo, che in queste immagini ha saputo cogliere perfettamente la malinconia, lo straniamento, la voglia di lasciarsi andare del mio Merlino, all'inizio della storia.
https://www.youtube.com/watch?v=IYQLufPYc-0
(di seguito, l'estratto del passo che ha ispirato il Booktrailer)
A volte è tenera, la notte, ti accoglie e
ti culla, e mentre dormi ti illudi di essere tornato a quando tutto era bello,
e nuovo, e avevi scelto tu di esserci.
La notte a volte è pietosa, perché
nasconde tutto.
Per esempio il fatto che, semplicemente,
non hai scelto nulla, ti illudi. Che sei qui perché devi, perché non puoi fare
diversamente, perché attendi, e mentre attendi, cominci a pensare che non ci
sia niente da attendere. E implori l’oblio. Oh, l’oblio.
La
mano che si stringe sulla bottiglia affondata nella tasca…
A volte invece è infida, la notte.
Perché nasconde i nemici ed offre loro
ombre nelle quali acquattarsi. Gli occhi di Merlino guizzano di qui e di là, e
non trovano tregua.
Poi arriva l’autobus, e Merlino sale
senza guardarsi le spalle. Scivola tra i passeggeri che fissano di fronte a sé,
e si siede. Sarebbe tentato di rilassarsi, di dirsi che non c’è nessuno che lo
segua o che lo tenga d’occhio. Invece potrebbero semplicemente fingere, di non
guardarlo. Tutti quanti.
Lui scruta i loro volti, e loro guardano
lontano.
A volte è crudele, la notte. Perché fa
pensare al passato.
E se il passato è troppo lungo per
ricordarlo tutto, allora la notte diventa nient’altro che un immenso tunnel
spalancato sull’alba del giorno dopo, e dentro quel tunnel scroscia un flusso
di ricordi, come sangue che sgorga da una ferita.
È un dolore sottile, si placa solo quando
l’alcool brucia la lingua.
PROSSIMA FERMATA: PIAZZA RE DI ROMA dice
il display luminoso che scorre insistente sopra la porta dell’autobus. Merlino
guarda fuori, il viso appiccicato contro il finestrino, confuso nel rumore di
mille parlate estranee che si sommano.
Sente il freddo del vetro sulla guancia,
e si immagina che da un minuto all’altro qualcuno aprirà il finestrino, e il
nero della notte comincerà a colare dentro. Ad ondate. A fiotti. Sommergerà
tutto, come un miasma. Come un rigurgito di fogna, perché tanto c’è poco da
salvare, in questa città. Come in tutte
le altre, d’altra parte, in questo scorcio di millennio puzzolente di fumo di
idrocarburi e di poteri che non mostrano la faccia.
Avalon
era diversa.
O forse è solo che Merlino, allora, era
giovane, e quando si è giovani è bello avere degli ideali.
Un vegliardo giovane, era. O forse era il
mondo, che aveva appena iniziato ad invecchiare.
Ma tant’è.
Il vecchio aggiusta le buste di plastica
tra i piedi, piene di quei pochi vestiti che è riuscito a raccattare, e tira
fuori dalla tasca del giaccone la bottiglia di fernet. Ingoia una lunga sorsata
di quel liquido denso, che gli scende nello stomaco colando lungo le pareti
della gola, e spera di sentire al più presto le ondate dell’alcool risalire al
cervello, per riempirlo di ovatta rosa.
Oppure, meglio ancora, spegnerlo e basta.
Avalon
era un’altra cosa.
Vorrebbe gridarlo ai quattro venti.
Dire: ti ricordi? Te le ricordi, le
guglie delle torri che bucavano il crinale?
Avalon,
te la ricordi?
Ma non può.
Così raccoglie i suoi sacchetti da terra,
e si fa strada a gomitate verso la
porta. Per un attimo gli è parso di vederla balenare davvero, la città d’oro, e
quasi ha sentito nelle narici il profumo dell’Isola delle mele, ma adesso, al
di là dai vetri sgocciolati di acqua nera è riapparsa Roma, e l’autobus
percorre i lunghi viali umbertini dalla pretesa di austerità e decoro che
circondano la Stazione Termini.
E si chiede, per l’ennesima volta, come
sia potuto succedere.
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