domenica 28 settembre 2014

Un negozietto piccino piccino. Marzo 1969 - Settembre 2014




Mi si dirà che un negozio che chiude è solo un negozio che chiude.

... se si guarda bene, a destra, si intravedono gli stand con i vestiti appesi...


Questo, probabilmente, riassume alla perfezione uno dei problemi di questo paese. Un negozio che chiude non è solo un negozio che chiude, così come gli individui che abitano le nostre città e camminano sulle nostre strade non sono solo il numero di un contribuente, l’assegnazione di una partita Iva, il cespite di uno stato patrimoniale.
Mi si dirà che alla fine un negozio di abbigliamento che chiude è solo una casella della Camera di commercio che viene sbarrata, e che probabilmente ne verrà aperta un’altra.
Ammesso che avvenga, ammesso che qualche altro pazzo decida di aprirla, quella casella, solo per spalancarsi la camicia e offrirsi alle raffiche di uno Stato Nemico che ti vessa e ti taglieggia, per esporsi alle indagini di un sistema fiscale che ti pregiudica e ti persegue a prescindere, per offrirsi alle mille trappole e ai mille trucchi di un sistema bancario selvaggio, al confronto del quale i sobborghi di Bangkok sono un giardino d’infanzia.
Mi si dirà che il sistema economico funziona così, ed anche la selezione naturale.
E trovo che ci sia da meditare moltissimo su un paese dove il mercato, il patto sociale, la convivenza civile sono da paragonare alla selezione naturale.

Dall’altra parte, mi si dirà che la colpa è tutta di qualcun altro, come se quelli che lo dicono - loro, quelli con le mani pulite - non avessero fatto parte tutti, indistintamente, di questo sistema. Salvo darsi una lavatina e autoproclamarsi depositari del verbo e della soluzione, e passare il tempo non a risolvere le cose, ma al contrario ad attribuire le responsabilità.
Ma ora non è il momento di parlare di questo.
Parlavamo di un negozio che chiude.


Oggi, chiude La Primula Confezioni. Il negozio di abbigliamento di Via Fiume 25/27, La Spezia, dove mio padre e mia madre hanno passato la loro intera esistenza, a partire dal 1969, e dove mio fratello Massimiliano ha combattuto dopo di loro, vincendo battaglie, ma perdendo, sembrerebbe per ora, la guerra.
Tutto qui.
Come direbbe Francesco Guccini “Ma che piccola storia ignobile, sei venuto a raccontarmi…”
Lo so, lo so, è storia condivisa. E’ la storia di aziende costrette a scegliere se pagare le gabelle dello stato signorotto o se pagare i dipendenti, è la storia di centinaia di migliaia di partite IVA che sono diventate praticamente liste di proscrizione ed elenchi di pizzo.
E il dramma è che non ci scandalizziamo neanche più.
Ma come sempre, c’è qualcosa di più, qualcosa di ineffabile, di non tangibile, che va messo a fuoco, che va ripetuto, che va comunicato col passaparola.
Un negozio che chiude dopo cinquanta e passa anni di progetti, di tentativi, di risultati e di sconfitte, non è solo un numero della camera di commercio su cui si traccia una riga.
Eh no.
Forse non dico nulla di così sconvolgente, eppure va detto, che si rischia di dimenticarselo. Un negozio che chiude dopo più di cinquant’anni, anzi, che è costretto a chiudere strangolato dallo Stato e dal sistema creditizio, non è solo un negozio che chiude.
E’ la prova provata del gigantesco fallimento del sistema.
Mi si dirà che parlo così in quanto coinvolto personalmente.
Probabilmente.
Ricordo perfettamente quando – avevo nove anni – mi affacciai per la prima volta alla porta, accompagnato da mio nonno. Ricordo i pomeriggi di inverno passati a giocare nel retrobottega e a fare i carri armati con gli scatoloni dei cappotti.
Ricordo il vicolo a fianco alle vetrine, dove giocavamo d’estate, e mio padre che stava sulla soglia quando ritornavo da scuola risalendo a piedi lungo via Prione. Mi aspettavano per andare assieme a casa a pranzare.
Mi si dirà che tutto questo è lessico familiare.
No, o più giustamente, non solo.
Un negozio che chiude, un negozio che è costretto a chiudere, dopo cinquant’anni, perché il sistema non è stato capace non tanto di dargli l’assistenzialismo che invece non si nega alle grandi famiglie industriali e alle grandi cooperative e alle catene di distribuzione, ma le ipotesi di soluzione, il progetto sul quale camminare, il sentiero per ripartire, è il simbolo che questo paese non è costruito per i cittadini.
Un negozio che chiude perché il sistema fiscale lo dissangua e le banche lo strangolano è la prova che l’Italia non funziona più.
Perché se questo paese non è capace di fornire al singolo supporto, assistenza, anche credito ovviamente, sostegno ai progetti, ma al contrario regala solo vessazioni, ingiustizie, sperequazioni, c’è davvero ben poco, per cui guardare fiduciosi al futuro.

Mi si dirà, che ci sono esempi macroscopici di questo.
Giusto. Ma come dicono gli inglesi, il diavolo si annida nei dettagli.

giovedì 4 settembre 2014

DURA PIOGGIA CADRA' - IN LIBRERIA IL 24 SETTEMBRE




Ancora pochi giorni, e comunque sembrano sempre troppi. Il romanzo sarà sugli scaffali il 24 Settembre, e da quel momento, se i lettori vorranno, camminerà con le sue gambe.

Un altro piccolo estratto, e ancora una volta in scena Merlino, e i suoi dubbi.




A volte è tenera, la notte, ti accoglie e ti culla, e mentre dormi ti illudi di essere tornato a quando tutto era bello, e nuovo, e avevi scelto tu di esserci.

La notte a volte è pietosa, perché nasconde tutto. 

Per esempio il fatto che, semplicemente, non hai scelto nulla, ti illudi di avere scelto. Che sei qui perché devi, perché non puoi fare diversamente, perché attendi, e mentre attendi, cominci a pensare che non ci sia niente da attendere.

E implori l’oblio. Oh, l’oblio.

La mano che si stringe sulla bottiglia affondata nella tasca…

A volte invece è infida, la notte.

Perché nasconde i nemici ed offre loro ombre nelle quali acquattarsi. Gli occhi di Merlino si muovono di qui e di là, e non trovano tregua.

Poi arriva l’autobus, e lui sale senza guardarsi le spalle. Scivola tra i passeggeri che fissano di fronte a sé, e si siede. Sarebbe tentato di rilassarsi, di dirsi che non c’è nessuno che lo segua o che lo tenga d’occhio. Invece potrebbero semplicemente fingere, di non guardarlo. Tutti quanti.

Lui scruta i loro volti, e loro guardano lontano.

Invece a volte è crudele, la notte. Perché fa pensare al passato.

E se il passato è troppo lungo per ricordarlo tutto, allora la notte diventa nient’altro che un immenso tunnel spalancato sull’alba del giorno dopo, e dentro quel tunnel scroscia un flusso di ricordi, come sangue che sgorga da una ferita.

È un dolore sottile, si placa solo quando l’alcool brucia la lingua.

PROSSIMA FERMATA: PIAZZA RE DI ROMA dice il display luminoso che scorre insistente sopra la porta dell’autobus. Merlino guarda fuori, il viso appiccicato contro il finestrino, confuso nel rumore di mille parlate estranee che si sommano.

Sente il freddo del vetro sulla guancia, e si immagina che da un minuto all’altro qualcuno aprirà il finestrino, e il nero della notte comincerà a colare dentro. Ad ondate. A fiotti. Sommergerà tutto, come catrame.

Come un rigurgito di fogna, perché tanto c’è poco da salvare, in questa città.  Come in tutte le altre, d’altra parte, in questo scorcio di millennio puzzolente di fumo di idrocarburi e di poteri che non mostrano la faccia.

Avalon era diversa.

Oh, certo. Magari qualcuno non ci amava, ma certo. Ma almeno si sapeva chi comandava: Artù, era sua la responsabilità. Se dovevi odiare qualcuno, era lui il capo.

Oggi invece quelli che comandano davvero non si vedono. E quelli che invece si vedono sono solo burattini in una recita dei pupi.

O forse è solo che Merlino, allora, era giovane, e quando si è giovani è bello avere degli ideali.

Un vegliardo giovane, era. O era il mondo, che aveva appena iniziato ad invecchiare.

Ma tant’è.

Il vecchio aggiusta le buste di plastica tra i piedi, piene di quei pochi vestiti che è riuscito a raccattare, e tira fuori dalla tasca del giaccone la bottiglia di fernet. Ingoia una lunga sorsata di quel liquido denso, che gli scende nello stomaco colando lungo le pareti della gola, e spera di sentire al più presto le ondate dell’alcool risalire al cervello, per riempirlo di ovatta rosa.

Oppure, meglio ancora, spegnerlo e basta.

Avalon era un’altra cosa.

Oh, come no. Ed è proprio perché Avalon era l’unica cosa che valesse la pena di salvare, e far rinascere nei secoli, che aveva, tanto tempo prima, accettato di far parte di questa missione.

Eri entusiasta di essere stato scelto.

Non sapevo quanto sarebbe stata dura.

Pensa, mentre guarda fuori, le macchine che fuggono nella direzione opposta. Le strade sono fradice di una pioggia torrenziale che cade a secchiate, e nell’aria c’è un odore acre e speziato di asfalto. Nella notte, il traffico si è diradato, ed il bus corre veloce, mentre le luci fuggono via in una scia sfocata. Poi, senza preavviso, il mezzo imbocca una strada circondata da campi e dal silenzio e dal buio. Stretta, tortuosa, a malapena illuminata in alcuni punti: una strada di campagna ingoiata dalla metropoli. 

Succede spesso, a Roma. Brandelli di contado rimasti appoggiati lì, circondati dal niente e dalle palizzate di luci e di finestre dei casermoni della periferia.

Il bus procede placido ondeggiando come un grosso bue, e si fa strada dentro il cono dei suoi fari, ammonticchiando l’oscurità ai due lati della strada come uno spazzaneve.

Merlino continua a studiare gli altri passeggeri. Ognuno di loro potrebbe essere il nemico.

Un gruppetto di cinesi parla a voce altra, sputacchiando suoni lunghi ed estranei. Forse litigano, chissà. O forse parlano di soldi, oppure di fregare qualcuno. O forse no. Forse invece sono lì per lui, lo stanno seguendo e si sono appena detti di aspettare che il vecchio si alzi e vada a prenotare la fermata per avvicinarsi anche loro alla porta… li soppesa ancora un attimo, poi si volta dall’altra parte. Un tempo se lo sarebbe chiesto sul serio, che cosa stanno dicendosi, ora no. Ha sulle spalle il peso di troppe domande.

Alle quali non corrispondono altrettante risposte.

La mano corre di nuovo alla tasca, e alla bottiglia, in un automatismo ormai consueto. Beve, senza neanche sentire il sapore del liquore. E così, ancora una volta, sta scappando. Avrà bisogno di soldi, si dice. Ma per quelli sa come fare. Avrebbe bisogno, invece, di un compagno con cui condividere quest’altra avventura.

Sperando che sia l’ultima.

L’ultima avventura sarà quella che porta alla vittoria.

Ringhia il drago, nell’orecchio del vecchio. Merlino scuote la testa, e rinuncia a ribattere.

Lo sguardo indugia triste al di là del vetro. Chissà cosa stanno facendo ora, tutti gli altri. Chissà se anche loro pensano ogni tanto a com’era prima. Chissà se anche a loro manca il salone di pietra dove risuonavano le loro voci e dove squillavano le trombe. I volti di tutti gli altri, radunati intorno alla tavola.

Non vede l’ora di condividere la lotta, e la strada e il sentiero, con ognuno di loro. Ma non è ancora tempo, non è questo che è stato stabilito. Improvviso, inaspettato, lo schiaffo della rabbia sul volto gli fa imporporare le guance.

Lo hanno lasciato solo. Ecco cosa. Sanno benissimo, tutti.

Quasi, tutti.

Ma allora, perché non lo cercano? Perché non arrivano?

Un silenzio totale, che se non fosse certo che ci sono ancora, perché lo sente, potrebbe sospettare che siano morti. Invece, semplicemente, si sono disinteressati di lui.

Vorrebbe gridarlo ai quattro venti.

Mi avete lasciato solo.

Arrampicarsi sulle pendici del Gran Sasso, aggredire la roccia a mani nude, come se nulla fosse, come fosse uno scherzo, sbucciarsi le nocche e spaccarsi le mani e i piedi, ma arrivare in cima, no, non dove termina il mondo, dove inizia il cielo, e urlare verso la luna.

Spalancare le braccia come ali e tuffarsi a testa in giù nel firmamento, sopra di lui, infilarsi nell’infinito, tra i pianeti, e finalmente, perdersi. Oppure raggiungerli, uno per uno, e guardarli in viso. Scuoterli per le spalle e dire: oh, sveglia. Dire: ti ricordi? Te le ricordi, le guglie delle torri che bucavano il crinale?

Avalon, te la ricordi?

Ma non può.

lunedì 1 settembre 2014

PRIMO SETTEMBRE, BUON ANNO. TRE CANZONI SU SETTEMBRE.



Che poi uno si chiede per quale motivo non ci siano pezzi indimenticabili dedicati a Gennaio. Però è così: non ci sono. O quanto meno, se ci sono io non me li ricordo. 
Fa eccezione, come mi fa notare Giampaolo Simi, "Preghiera di Gennaio" di Faber, ma ritengo che lì la situazione sia diversa, in quanto Gennaio è presente solo in quanto il triste periodo in cui avvenne il suicidio di Luigi Tenco.  Per quanto riguarda Settembre, invece, ne ricordo parecchi, e almeno tre, davvero epocali. Che poi, almeno in due casi, sono quelli che molti postano sui social network, nei primi giorni di Settembre. Non mi ricordo di avere visto fiorire nelle bacheche altrettanti post dedicati ad altri mesi.
Il motivo di questa disparità di trattamento è semplice: l’anno inizia a Settembre, che è anche il mese dei progetti, dei bilanci,  e dei 

pensieri sul mondo, come dice Guccini in un’altra grande canzone,  La canzone dei dodici mesi:
Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull’età. Dopo l’estate porta il dono usato della perplessità…
Per un qualche motivo a nessuno viene in mente di pubblicare canzoni all’inizio di Ottobre o di Novembre (fa eccezione solo l’immarcescibile Luglio di Riccardo del Turco) e in effetti a Settembre sono dedicati – in modo e per motivi diversi - quelli che secondo me sono tre capolavori italiani, diversissimi tra loro.
Voglio dedicare la riapertura settembrina di questo blog a quei tre pezzi, sia perchè in questi giorni sono molto postati (almeno due), ed è bello scoprire quante cose hanno dietro, ma anche perchè è abbastanza semplice, solamente all’ascolto delle prime note, affacciarsi sul passato. E’ come spalancare il coperchio di un pozzo e guardar giù….
…e il naufragar m’è dolce in questo mare. Ma mica sempre.
Diciamo che se lo è, dolce, è solo perchè i tre brani, le tre canzoni di cui sto per parlare, sono di tanto, tanto tempo fa.
E qui, mi sento come il vecchietto del west, che con voce tremolante filtrata da un unico dente contumelia che più il tempo passa e più il mondo peggiora.
E anche la musica.
Però che posso farci, se è vero?



1 - Quante gocce di rugiada attorno a me…




Ora pare tutto normale, ma non lo era mica così tanto.
“Impressioni di settembre” ha sparigliato le carte della canzone pop italiana.  Sto per dire, lo ha fatto quasi più di certe canzoni di Lucio Battisti (tanto è vero che ricordo benissimo che per un breve periodo qualcuno pensava che fosse sua).
Lo ha fatto avvalendosi di un testo scritto a quattro mani da Mogol e Mauro Pagani. In cui si parla di sensazioni rarefatte, parenti in qualche modo a quelle di “Emozioni” e di “Luce dell’est”, l’una precedente,del 15 settembre 1970, l’altra praticamente contemporanea.

Quante gocce di rugiada intorno a me
cerco il sole ma non c'è
dorme ancora la campagna o forse no
è sveglia
mi guarda
non so.

Lo ha fatto con una struttura strana per i tempi, composta unicamente da strofe e bridge, e con un ritornello affidato alla sola esecuzione strumentale,  eseguito, invece che dai soliti violini, da un polimoog.
E se non ricordo male, è proprio quel tema (che chiunque tentasse di suonare le tastiere ha imparato a forza di provare e riprovare…)
che fece nascere la grande celebrità di questa canzone.
La leggenda vuole che quello usato nel brano fosse il primo minimoog italiano, e che la PFM non potesse permettersi di acquistarlo, in quanto a quei tempi era costosissimo ( e pure oggi, che è diventato una prezioseria vintage per collezionisti, non scherza...) 
Insomma, i ragazzi poterono usarlo nel disco solo grazie all'amicizia personale di uno di loro con l'importatore italiano. 


Già l'odor di terra, odor di grano
sale adagio verso me,
e la vita nel mio petto batte piano
respiro la nebbia
e penso a te...

Al di là del mito, pare di riconoscere il tocco di genialità di marketing che avrebbe contraddistinto, per qualche anno, la Premiata, fino al trionfo negli Usa.



Il brano appare in “Storia di un minuto”, album di esordio della Premiata Forneria Marconi, del 1972, ma era già uscito in 45 giri l’anno prima, nell’ottobre del 1971.



https://www.youtube.com/watch?v=8lz-Hp4Jb_U

Io, non so perchè, quel brano me lo ricordo nel 1974, legato al mio primo anno di Ginnasio. E’ anche vero che I primi echi di musica altra avevo cominciato a percepirli quell’estate, ascoltando Battisti. E’ anche normale che per me la rivoluzione musicale del secolo inizi nel momento in cui me ne rendo conto.

Quanto verde tutto intorno, e ancor più in là
sembra quasi un mare d'erba,
e leggero il mio pensiero vola e va
ho quasi paura
che si perda...

 
Non sto dicendo che la rivoluzione fu iniziata da quel brano. Sto dicendo che per me l’ascolto di Impressioni di Settembre e il concerto (ormai mitico, per la mia esperienza personale) del Banco del Mutuo soccorso al Monteverdi di La Spezia furono il viatico attraverso il quale scoprire, da lì a poco, King Crimson, Genesis, Pink Floyd, Jethro Tull.

Un cavallo tende il collo verso il prato
resta fermo come me,
Faccio un passo, lui mi vede, è già fuggito,
respiro la nebbia e penso a te.
No, cosa sono io adesso non lo so,
sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso...



Insomma, in quel breve scorcio in cui la musica italiana fu davvero internazionale, noi c’eravamo grazie a loro, i "ragazzi" della PFM, del Banco, delle Orme… sugli Area sorvolo, ma solamente perchè ne parlerò tra poco.



Poi, ad un certo punto, con l’ansia auto-fustigatoria tipica di noi italiani, si è cominciato a sentire dire che in fondo la PFM e il Banco non erano altro che la brutta copia dei Genesis. Lo dicevano solitamente intellettuali in scarpe da ginnastica e Lacoste che giravano per Via Chiodo, la via dello struscio di La Spezia, con un mazzo di vinili sotto braccio. Preferibilmente di Frank Zappa, Henry Cow, Soft machine, e che si guardavano attorno con occhi dolorosamente stupiti di quanto fosse prosaica la realtà.

Ebbene, non era vero.

Anni dopo, in una intervista, Peter Gabriel, front-man dei Genesis (di quelli veri, di Selling England by the pound, Nursery crime, Foxrot…) dichiarò che in effetti i Genesis si ispirarono moltissimo al progressive italiano, soprattutto a Banco e PFM, ma dal momento che i giornalisti musicali insistevano a sostenere il contrario, che erano gli italiani che scopiazzavano, ad un certo punto si erano rassegnati a far credere che le cose stessero davvero così.
Credo che nell’ironia british di Gabriel ci sia la storia di moltissime eccellenze del nostro paese, che gli italiani non sono stati capaci di comprendere e valorizzare.

No, cosa sono adesso non lo so,
sono solo, solo il suono del mio passo.
E intanto il sole tra la nebbia filtra già. 
Il giorno, come sempre, sarà.

Ma per me “Impressioni di settembre” è legata anche al ricordo del diario della mia compagna di banco e del testo ricopiato con la sua scrittura tondeggiante.
Aveva i capelli neri e gli occhi scuri, e pelle olivastra.
Io ci morivo dietro, non alla canzone, a lei.
Ma non ero capace di dirglielo. Non avevo ancora scoperto che bastava imparare a suonare la chitarra e cantargliela, quella canzone.
Guardandola negli occhi.


2 - Ahi settembre lontano, dalle un bacio per me…

Arrivare ad Alberto Fortis a partire dalla PFM è quanto di più semplice si possa immaginare: un vero link da conduttore radiofonico.



Il primo ed il secondo album del cantautore milanese “Alberto Fortis” e “Tra demonio e santità”, infatti, videro I “ragazzi” della PFM come musicisti. Fortis era quello di “Milano e Vincenzo” dedicata al discografico e talent scout della It Vincenzo Micocci, che permise il debutto, tra gli altri, di Francesco De Gregori, Antonello Venditti e di Rino Gaetano: come dire, uno che un qualche fiuto per la canzone d’autore doveva avercelo. Eppure, con Alberto Fortis le cose non funzionarono, e il nostro gli regalò versi al vetriolo: “Vincenzo io ti ammazzerò, sei troppo stupido per vivere”…
Ho l’immagine chiarissima del juke box del bar sotto casa dove, per alzare un argine all’invasione della disco e del pop britannico che stavano per portarsi via la troppo breve stagione degli anni settanta, io e i miei compagni di adolescenza e di musica altra continuavamo a selezionare “Milano e Vincenzo” “Aida” e “L’era del cinghiale bianco”, che ci sembravano l’unico baluardo contro gli stupidi anni ottanta che già si intravvedevano all’orizzonte.
E invece, all’alba del 1981, con l’album “La grande grotta” Alberto Fortis produsse quello che è stato di certo il suo maggior successo commerciale. Settembre.

Ahi Settembre mi dirai quanti amori porterai
le vendemmie che farò, ahi Settembre tornerò.
Sono pronto e tocca a me, l'aria fresca soffierà
l'armatura non l'avrò, ahi Settembre partirò.
Mentre il giorno sparisce primavera verrà
sarà dolce e nervosa ma non mi scapperà
salirò sul battello e non la fuggirò
sarò avvolto per sempre e la bacerò…

Personalmente, ho amato moltissimo “La sedia di lillà”, “Il duomo di notte” tratte dal primo album di Alberto Fortis, e l’intero “Tra demonio e santità”, e non credo che Settembre sia il suo capolavoro. Ma c’era in quei primi album, mai più eguagliati, un soffio di irridente poesia, di ironia sognatrice che quei primi anni del decennio ottanta non ci avrebbero regalato più.

…e i suoi lunghi capelli non li rivedrò più
ahi settembre lontano, dalle un bacio per me.
La tempesta di neve non mi sorprenderà 
ahi Settembre che sarà.

C’era, in quei testi in bilico tra il visionario e il mistico,  qualcosa di nuovo. Si sentiva in versi inaspettati e bellissimi, costruiti con raro equilibrio sia metrico che sonoro: “Piroette di sabbia, tra le guglie del duomo, differenza tra pietra e le voglie di un uomo che ha per vita una gabbia…”  C’era un’aspettativa riposta in Alberto Fortis della quale forse non è stato all’altezza. Sì. Mi sono sempre detto, ripensandoci, che non è stato all’altezza del suo genio, che era parecchio.

https://www.youtube.com/watch?v=3Tcm5tZy5SI 


Non sono certo che “La grande grotta” fosse un grande album.
Anzi, forse no, non lo è, se si esclude appunto “Settembre” e “La nena del Salvador”. Ma di certo questa canzone ha segnato un momento ed è legata a tanti tanti ricordi di tutti noi.

Lascio tutto a te, dille del mio amore
dille che se può io potrò aspettare
l'accompagnerò, dentro il mio giardino
sempre la terrò, da vicino, sempre, sempre…

Un giorno di ottobre di quell’anno, era il 1981, partimmo da Pisa col mio gruppo, che ingenuamente avevamo deciso di chiamare “Gli Excalibur” non tenendo conto che la spada era una sola, per andare a suonare a Firenze. Partimmo la sera tardi, perchè non avevamo ospitalità a Firenze, e di andare in albergo non se ne parlava, chi ce li aveva i soldi. L’idea era di arrivare il più tardi
possibile, dormire in pulmino, ed essere pronti la mattina per scaricare gli strumenti e montare lo stage. Se non ricordo male, lo stage era un matrimonio.
Avevamo l’età per farlo, e quella notte non dormimmo un minuto.
Ma soprattutto, ad un certo punto del viaggio, arrampicandomi sulla catasta di strumenti nel retro del pulmino, riuscii ad acchiappare un banjo ed imbastire una stralunata versione di “Settembre” che cantammo tutti in coro, mentre il pulmino, che non faceva più dei settanta, tentava di macinare i chilometri.

Ed un giorno mi disse entra ti aspetterò
ma il nemico da sempre si cattura così
apri bene la porta, fallo entrare da te
lei l'ha fatto settembre, lei l'ha fatto con me
e se nella tua testa un rasoio terrà
taglierà i miei pensieri come e quando vorrà
userà i suoi capelli, io la pettinerò
e prima che sia Settembre il mio sangue darò.

E poi, non so perchè (o forse sì, temo che la spiegazione sia da ricercare nelle sue difficili vicende personali…) Alberto Fortis si perse. Pubblicò un altro album poco più che decente, Fragole infinite, con questa delicata citazione Lennoniana, che fu molto più elegante che la cover in italiano di Imagine in cui si avventurò dopo qualche tempo. 



Lo ritrovammo, qualche anno dopo, a Music Farm, che altro dire. Insieme al califfo che di notte diceva la formazione dell’Inter e a Baccini che si macerava per Dolcenera. Per carità, le vie della discografia sono infinite e mi guardo bene dal criticare gente che sta solo tentando di vendere un prodotto.
Ma quei lampi di inizio anni ottanta per Alberto Fortis erano lontanissimi.
Ora, so che sta per uscire un nuovo disco. Lo aspetto con affetto, perchè Alberto Fortis mi ha regalato alcune canzoni che sono incastonate nella mia storia personale.


3 - …bambini che il sole ha ridotto già vecchi…

Demetrio invece, il polimoog ce l’aveva in gola. 


Questo brano, era dedicato ai Palestinesi quando stare dalla parte dei palestinesi era una scelta molto meno facile di adesso, e la dedica era chiara proprio per quel Settembre nero, il nome della guerriglia palestinese.
Ma molti lo riconosceranno perchè la chitarra distorta e compressa con cui inizia, fu per molti anni sigla di una trasmissione radio. La musica era stata composta da quel genio lunare e allampanato di Patrizio Fariselli, ispirandosi ad un canto popolare Macedone, ma fu di certo la vocalità di Demetrio che diede agli AREA quel quid in più che li fece volare. 
Dietro l’International Pop Group, come si definivano con uno slogan militante, c’era Gianni Sassi, che appariva dietro lo pseudonimo di Frankenstein.
Gli Area erano un gruppo difficile, politicizzato, senza concessioni al marketing e all’easy listening, soprattutto nel loro album di esordio “Arbeit macht frei” che conteneva appunto questo brano.




Giocare col mondo facendolo a pezzi
bambini che il sole ha ridotto già vecchi.

In apertura una voce registrata di una ragazza palestinese lancia un appassionato appello in lingua araba al suo ragazzo: «Lascia la rabbia/ lascia la rabbia, Lascia il dolore/ lascia le armi e vieni a vivere in pace». 
Ma è evidente che il concetto ispiratore del pezzo è invece: "Si vis pacem, para bellum".

https://www.youtube.com/watch?v=81PMx5ndpnc 

Certo, la simpatia per la lotta del popolo palestinese era un elemento fondante delle posizioni della sinistra (e non solo della sinistra, ma anche per esempio di certi movimenti della destra radicale), ma quel che è significativo è che a quell’appello alla pace
il canto di Demetrio Stratos risponde affermando la rabbia e la rivolta di fronte all’omologazione, e la sfiducia nella possibilità di trattativa.
Una crepa che moltissimi anni dopo non si è ancora colmata. E personalmente, non credo che la colpa sia da attribuire solamente ai terroristi non organizzati. Anche quelli di Stato hanno fatto la loro parte.

Non è colpa mia se la tua realtà
mi costringe a fare guerra all'omertà.
Forse un dì sapremo quello che vuol dire
affogare nel sangue con l'umanità.


Gente scolorata quasi tutta uguale
la mia rabbia legge sopra i quotidiani.
Legge nella storia tutto il mio dolore
canta la mia gente che non vuol morire.

 



Demetrio Stratos, greco di Alessandria d’Egitto, nato nel 1945, scomparve a New York trentacinque anni fa, il 13 Giugno del 1979. Aveva fondato gli Area nel 1972, dopo un periodo come front-man dei Ribelli. 
E’ lui, per dirne una, la voce di “Pugni chiusi”. “Pugni chiusi, non ho più speranza, in me c’è la notte più nera…”
Con il nuovo gruppo si era dedicato alla sperimentazione fusion e prog-rock, ma soprattutto a sviluppare le sue abilità vocali che lo rendevano capace di emettere più note contemporaneamente e di elaborare suoni polifonici. Personalmente trovo che Crac sia tutt’oggi un capolavoro della musica italiana inarrivabile ed ho impresso indelebile il ricordo del primo ascolto: "C'era una volta mela a cavallo di una foglia...".

 


Poi, del tutto inaspettatamente, almeno per me che la storia del Rock la leggevo sulle pagine di Muzak, di Gong, di Ciao2001, nel 1978 Demetrio Stratos lascia gli Area, forse inseguendo un altro orizzonte, un po' come la Mela di Odessa:



 "Ma dove siamo? Ma dove siamo?",
chiese la mela.
"Se pensi che il mondo sia piatto,
allora sei arrivata alla fine del mondo.
Se credi che il mondo sia tondo allora sali,
e incomincia il giro tondo!"
E la mela salì, salì, salì, salì, salì.

La foglia invece saltò, saltò, saltò.
Rientrò nel mare e nessuno la vide più.
Forse per lei, mah, il mondo era ancora piatto.
....Vicino al mare dove il mondo diventa piccino....
Se credi che il mondo sia tondo, allora sali, sali!
E incomincia il giro tondo!

 

Il girotondo di Demetrio portava agli Stati Uniti, dove andava per dedicarsi, diceva, alla sperimentazione. Nei mesi successivi frequenta John Cage e la factory di Andy Warhol. Ma poco dopo arriva in Italia una notizia sconcertante: si era ammalato di una rara forma di anemia aplastica, che lo aveva costretto a costosissime cure al Memorial Hospital di New York.

Quando guardi il mondo senza aver problemi
cerca nelle cose l'essenzialità
Non è colpa mia se la tua realtà
mi costringe a fare guerra all'umanità.

Il destino ha spesso uno strano senso dell’umorismo. 
Alla notizia della malattia di Demetrio, il mondo del Rock italiano,
al tempo coeso e forte di un senso di movimento culturale che gli conferiva anche delle carbonare capacità di solidarietà, si organizzò per mettere su un concerto “Concerto per Demetrio”, a cui aderirono tutti i gruppi e i musicisti della scuola rock mediterranea, come si chiamava allora, per finanziare le cure e permettergli di tornare a cantare.  Lo racconta Patrizio Fariselli, in una intervista di molti anni dopo:

«Per dire quanto Stratos fosse amato aderirono tutti a quel concerto. Ci chiamò perfino Celentano: gradimmo molto, ma gli sconsigliammo di venire. Qualcuno tra il pubblico non avrebbe apprezzato...». 
Corriere della Sera, 20 settembre 2010

Ma quel concerto arriverà troppo tardi, perché Demetrio morirà in ospedale la sera prima, il 13 Giugno 1979.
Mi sono fatto raccontare dal mio amico Renato Marengo, che era là in quanto giornalista inviato a seguire il concerto, e in seguito autore del film che lo
ha immortalato, edito dalla Cramps, una etichetta militante legata a quegli anni e a quella musica, di quell’incredibile veglia funebre fatta di suoni altri, che si tenne comunque il 14 giugno e alla quale parteciparono ovviamente gli Area, ma poi il Banco del Mutuo soccorso, la Pfm, Angelo Branduardi, Antonello Venditti, Roberto Vecchioni, Francesco Guccini, Eugenio Finardi, gli Skiantos.
Ma, nella mia storia personale, la morte di Demetrio Stratos significò anche molto altro.


Vedete, io quel 13 giugno scoprii, anche se può sembrare banale, che anche i miei eroi potevano morire.
Non è poco, per un ragazzo di 19 anni.
A breve, ci avrebbe lasciato John lennon, e sarebbe stato traumatico, ma in un certo senso meno, perchè la malattia incurabile porta con sè qualcosa di meno romantico, ammesso che sia romantico morire per il proiettile di un pazzo in un agguato sotto casa.
Per la prima volta moriva un mio eroe, uno che, nell'illusione dei vent'anni, sarebbe dovuto essere giovane per sempre. Forever Young, come diceva Dylan. Beh, ho chiarissima come se fosse oggi che quel giorno scoprii che non era vero.
O meglio, che era verissimo, ma in un altro modo da quello
letterale. E per la prima volta, per un attimo, ho pensato che non era detto che il modo letterale fosse il più bello.



Oggi ho quel concerto, in un DVD che conservo gelosamente perchè mi è stato regalato dal suo autore, Renato Marengo appunto, e ogni volta che ne guardo le immagini mi vengono in mente le parole di "Luglio, Agosto, Settembre Nero":

Giocare col mondo facendolo a pezzi
bambini che il sole ha ridotto già vecchi.


Storie di rock, come era allora.

Storie legate a Settembre, ma anche a tanto altro.

Perchè da una parola, si può arrivare ovunque.