domenica 22 luglio 2012

L'ultimo ceffone di Bagnasco

L'ultima volta che l'ho visto mi ha dato un ceffone.
E ora che ci penso, anche quella prima. 
Il fatto è che probabilmente gli riusciva difficile separare l'immagine attuale da quella del ragazzino massimalista col nagra a tracolla che faceva una rubrichetta di mezz'ora su Rai 3 Liguria, ed era convinto che stava cambiando il mondo.
E mica solo quello della radio, della tv, del cinema e della cultura.
Proprio il mondo intero. La civiltà occidentale e quel che stava oltre la Cortina, che allora c'era ancora. Antico difetto di movimentista e di intellettuale, era, la convinzione di una superiorità culturale e morale, che finalmente scendeva in campo. "Scansatevi, ora ci pensiamo noi."
Per fortuna, però, avevo anche imparato altrove il senso del seguire chi ne sa di più, dell'imparare da chi ha da insegnare, e, quindi, dell'accettare i maestri. 
E di vivere il presente per quel che il presente significava. E in quel momento, lo diceva la vita, il mio maestro era lui, poco da recriminare.
Mi incuteva soggezione, e ora che ci penso, non ha mai smesso di incutermela.
Anni dopo, mentre registravo "Chiedi chi erano i Beatles" la mia sghemba e personalissima storia del Rock che ho realizzato per Rai Educational, mi venne in mente di intervistarlo, in quanto era un'autorità in materia di cantautori genovesi, ma in generale di cultura pop italiana, che, negli anni sessanta settanta, a differenza di oggi, confinava allegramente con la cultura alta, e vi dialogava proficuamente.
Probabilmente, al di là del suo indubbio valore, giocava un ruolo anche il volergli dimostrare che ero riuscito a combinare qualcosa, ed intervistarlo mi avrebbe posto, nella mia testa, su un piano di quasi parità.
Ci misi quasi una settimana per trovare il coraggio.
Sì. Perchè io di Arnaldo ho sempre avuto paura. 
Non tanto delle sue mitiche cazziate, con strilli che si sentivano dal fondo del corridoio. A quelle ero rassegnato, infarcito com'ero della cultura della gavetta e dei maestri che ti forgiano menandoti. 
No. Mi terrorizzava la sua ironia. 
Una ironia placida, cotonata, blanda come un ritmo di samba, se è vero - come è vero, stavolta ci sta bene... - che i brasiliani altro non sono che genovesi abbronzati.
Mi mettevano i brividi, quelle sue battute fulminanti in cadenza genovese, lente e altalenanti, che mi toglievano la pelle. Andavo da lui con la pizza della mia trasmissione settimanale. Entravo in ufficio già curvo, alla Fantozzi. Mi mettevo a sedere e immediatamente, istintivamente, incassavo le spalle.
Lui ascoltava, in silenzio. Mano a reggere il mento. Di tanto in tanto dita passate sui capelli a ravviare le rade chiome. Il massimo del riscontro, qualche rara volta, un dito puntato e oscillato verso di me, con un'ombra di sorriso, alla Robert de Niro: "Tu-sei-bravo." 
Però lui la battuta non la diceva. E quel dito ondeggiante me lo dovevo far bastare per una settimana. Alla fine, prendevo la mia pizza e la portavo alla messa in onda, sospirando di sollievo. Se c'era di che sospirare, e non era sempre.
Quando andai via da Genova, prima per il militare, poi per Roma, la tv, il futuro, trovai il coraggio di chiedergli, balbettando, se mi poteva "dare una mano", secondo il classico stile italico, che mio malgrado avevo imparato, quello del "Dì che ti mando io.", del "Ti presento un amico".
Mi rispose che non si chiedono queste cose ad un comunista trinariciuto. E soprattutto che non si chiedono, dopo avere fatto la parte di quello che vuole cambiare il mondo per un anno, tanto avevamo lavorato assieme.
Così. Dritto per dritto.
Ora, negli anni ho scoperto che c'è gente che certe cose le chiede, eccome. 
Ai comunisti trinariciuti, ai socialisti, ai radicali, ai terza-forzisti, ai moderati ed ai fascisti.
Ma ho conosciuto anche gente che come lui era capace di scandalizzarsi, in ogni schieramento.
Arnaldo era questo. Una specie di orco bonario inflessibile sui principi e settario fino all'intolleranza. Ma alla fine, ha fatto da maestro ad uno che era il suo contrario, che non aveva mai amato il dogma, che non amava le nomenclature e le discipline di partito.
Ma l'ha fatto, e mi ha richiamato alla coerenza non al suo ideale, ma al mio.
Lo racconto, perché credo che delle tante cose che mi ha insegnato, quella sia stata la cosa più importante. 
Mi vergognai un sacco della sua risposta.
Se ne dovette accorgere, perché aggiunse che comunque non ne avevo bisogno, di presentazioni. Che me la sarei cavata. E mi ammollò, a mò di congedo, un ceffone a piena mano. Non era il primo, e non sarebbe stato l'ultimo, di una lunga serie.
Devo dirgli grazie perchè quella volta lì ho imparato la differenza tra pratica e grammatica.
E tra chiacchiere ed etica. O forse quella volta lì mi è stato mostrato che non ero immune ai vizi italici, anche se sussiegosamente, da intellettuale neolaureato, ne ero convinto.
Anni dopo, al telefono, mentre cercavo di invitarlo a "Chiedi chi erano i Beatles" pensavo a quanto mi avesse messo in soggezione allora. E mi resi conto, quando rispose, che di soggezione ne avevo altrettanta oggi.
Accettò e si presentò in studio per l'intervista. 
Non ricordo i particolari, ricordo che liquidò con sarcasmo Johnny Rotten che parodiava Frank Sinatra in New York New York. "Probabilmente i Sex Pistols hanno dato un colpo al mito Sinatra. Ma non so quanto possa durare il mito Sex Pistols...".
Lo fece con quella cadenza caraibica che ha sempre, alle mie orecchie, la lingua di Genova. Una cadenza da cui non ti puoi aspettare simili stilettate. Ma invece.
Quando gli chiesi della scuola genovese (a lui, che la vide nascere assieme a Tenco, Paoli, De Andrè, Lauzi, Reverberi, e che anni dopo dedicò a Gino Paoli un libro fondamentale...) pensai di avere colpito nel segno. 
Gli chiesi se poteva tratteggiare il senso di quell'amicizia che aveva cambiato la musica italiana, se aveva un fatto di giovinezza e di spensieratezza da raccontare, a contraddire l'aspetto pensoso ed esistenzialista con cui si addobbavano in quella fine di anni '50, loro, i membri della cosiddetta scuola genovese.
Credo cercassi anche, coscientemente, la sua commozione. E lui lo capì, rifilandomi, col sorriso, l'ultimo schiaffo di quella serie ventennale. Per fortuna non eravamo in diretta. Eravamo solo io, lui, il cameraman, il fonico e un'altra decina di persone. Restò tra noi.
"Vuoi la lacrimuccia eh? Non l'avrai."
Non da lui, infatti.
Ci pensò su, e mi raccontò l'aneddoto del giovane Tenco che attraversava il tunnel dei rapidi tra Genova Principe e Genova Brignole per tornare a casa, dopo avere suonato il Jazz al porto.
Anni dopo, quell'aneddoto è diventato un lavoro teatrale, "Dunque lei ha conosciuto Tenco?", con premi, soddisfazioni, emozioni, annessi e connessi.
Ma quel giorno mi raccontava semplicemente di quella notte di tempesta, e gli occhi gli brillavano.
I suoi. 
Io lo seguivo incantato, e lo invidiavo, perchè quella sera non c'ero.
Ma in fondo, gli ero grato, perchè adesso era come se ci fossi stato.
Grazie anche per questo, Arnaldo.





domenica 15 luglio 2012

Mimì è mia.





In fondo ho sempre desiderato scrivere qualcosa su Mimì. Me lo dico da anni e l'ho dichiarato anche in qualche intervista. Dopo il premio conseguito con il mio testo su Tenco, e dopo la pubblicazione della raccolta "Tenco e gli altri" edita da Cut Up edizioni, mi è stato spesso chiesto, da intervistatori, se avessi nel cuore o in testa qualche altro grande musicista a cui dedicare un monologo. 
Ho sempre risposto senza esitazioni: Ivan Graziani o Mia Martini.
Di Ivan è facile comprendere il perché, era un grande amico. Ma forse proprio per questo non riesco a distaccarmi da lui a sufficienza per raccontarlo. Ma succederà.
Mimì invece l'ho conosciuta molto meno di quanto mi sarebbe piaciuto, ma l'ho "sentita" molto. Con grande intensità. 
Erano giorni in cui avrebbe dovuto essere raggiante per quella favolosa rentrèe a Sanremo con "Almeno tu nell'universo", e avrebbe dovuto, a rigor di logica, essere raggiante. Invece, di quei pochi giorni intensi, conservo il ricordo del velo di malinconia che sembrava appannare il suo sorriso. Ricordo come una corrente di tenerezza, che evidentemente lei ha percepito, ricordo che si lasciava piazzare in scena, spostare - un po' a destra, un po' a sinistra, alza la testa... - dal direttore della fotografia, dall'operatore, da me, con una sorta di rassegnata dolcezza. Epperò, poi cantava. E il ringhio le gorgogliava in gola. 
Mi è sempre parso ripensandoci che ci fossero due donne, in lei, che si combattevano o meglio no, combattere non è la parola adatta. Che ciclicamente si sopraffacessero. 
Una era una donna ringhiante e ironica, al limite di un pacato sarcasmo, la stessa che avevo visto in tv tanti anni prima, per esempio intervistata da Enzo Tortora nel novembre del 1974. 
C'era, nello sguardo di quella Mimì poco più che ventenne, seduta sulla poltrona da psicanalista con una sorta di sconcertata disponibilità anche alle domande più scomode, una caratura di distacco, di chi fosse davvero oltre la collina. Una punta di malcelato fastidio per le domande Un senso di disincantata collaborazione ai riti dello star system - se proprio devo farlo lo faccio - senza però concedersi appieno, abbandonarsi a quel mondo di plastica, e guardarlo invece con quel distacco e quello scetticismo di chi teme che possa avere in serbo qualche brutto scherzo. 
E infatti, lo star system, un brutto scherzo per lei ce l'aveva pronto.
Questa prima donna, mi vien da dire, è quel che Loredana ha urlato di essere per tutta la vita, fino ad arrochirsi le tonsille.
E invece.
A Mimì, che così era davvero, è bastato sussurrarlo, o dirlo con gli occhi.
La seconda Mimì che m'è parso di scorgere dietro il velo di quegli occhi è una donna che ha pagato con la vita il suo voler rimanere al di fuori dei compromessi. 
E non parlo solo di quelli professionali. Anzi.  
Mi riferisco prima di tutto al suo consegnarsi inerme all'amore e agli uomini. Pur sapendo, e cantandolo, che gli uomini non cambiano. 
Ricordo che ad un certo punto, durante le riprese del video di "Almeno tu nell'universo" che ho realizzato nel 1989 per la Rai, eravamo sul pulmino a tre file che ci portava in giro assieme alla troupe. 
E lei si mise a parlottare sottovoce con l'anziano direttore della fotografia. 
Costui era un personaggio da cinema, anche perché veniva, dal cinema. Capelli bianchi, faccione pacioso, una punta di aceto romanesco che non ci sta mai male, saggezza dissimulata da decine di spigoli e pungiglioni. Però ispirava fiducia. 
Non so cosa si dissero, parlottavano sottovoce sul sedile in fondo. 
Ma sono certo che parlassero di uomini. Non so neanche dire chi fosse in quel periodo, l'uomo per il quale soffriva Mimì. Anche se un'idea ce l'ho.
Sono certo che parlassero di uomini perché ad un certo punto lui le disse, e giuro che non sto romanzando: "Non te la prendere. Gli uomini non cambiano."
Ora, io non so se Bigazzi quel titolo l'abbia saputo da lei. 
Non so neanche se nel momento di cui sto parlando, il 1989, quella canzone, che Mimì portò a Sanremo nel 1992, era già stata composta. 
(cosa possibile, visto che "Almeno tu nell'universo" stava nel cassetto dal 1972...)
Però, giuro: le disse proprio così: "Non te la prendere. Gli uomini non cambiano."
E allora, dal mio punto di vista, è bello pensarlo.
Mimì era questo, a quel che di lei ho potuto capire. Non si sottraeva alle domande, neanche a quelle banali, al massimo dedicava uno sguardo di ironica distanza. E ugualmente, non si sottraeva all'emozione, e non si sottraeva all'amore. E ne portava negli occhi tutta la fatica. E nella voce, pure. Tutti i graffi di un'anima consunta per il troppo uso. 
Credo che per tutta la vita si sia vista strappare brandelli di anima e di cuore per troppo amore. E credo, ancora, e me ne prendo tutta la responsabilità, che per tutta la vita abbia cercato di diventare davvero Mia, e non di altri.

Tutto questo rigiro per dire che sono molto contento di avere finalmente iniziato a scrivere qualcosa su Mimì. La proposta mi è arrivata dal Maestro Vince Tempera, mio complice in un paio di uscite estive su Tenco, e da Romina de Luca, una bellissima voce che rende onore a Mimì. E con orgoglio lo voglio dire: ho cominciato a scrivere.
Sono poche righe, appena abbozzate. Ma voglio consegnarle ai marosi della rete. 
Per Mimì.
Per inciso, penso che potrei intitolare lo spettacolo: Mimì è mia. E questi sono alcuni brandelli, un piccolo passaggio di monologo in cui la "mia" Mimì ricorda l'infanzia.


C’era il lupo? C’era.
Nel bosco, c’era, oppure acquattato dietro la porta? Dietro la porta, era, io lo ricordo bene. Tiravo le lenzuola sul viso e cantavo, sottovoce.
Un sussurro, era, lui.
(Sì, lo ricordo bene, era un bisbiglio, lui, un borbottio qualcosa che riuscivo a malapena a capire, lui. Ma lo sentivo e lacerava la notte, lui, e faceva a brandelli il sonno. E così io cantavo più forte, ma dentro, che lui non sentisse me, e non capisse che ero nascosta sotto le coperte, lui.)
Ma io lo sapevo che lui era lì.
Dietro la porta, c’era.
E la luna? C’era. C’era anche lei.
Era lassù e illuminava la strada, e i rovi mangiavano i piedi. E le spine graffiavano le gambe. Ma io correvo lo stesso, scalza, dentro il bosco.
E laggiù, nei laghi di luna, il lupo non arrivava.
Però c’era.
E mi chiedevo, violentata dal cigolio dei cardini della porta, se davvero ci fosse qualcosa, un particolare, un tratto del viso, un pelo, la curva di un’unghia, che avevamo uguali.
Io e lui.
E mi chiedevo, rabbrividendo nell’attesa delle sue urla, e del rumore degli schiaffi, perché non mettesse l’olio ai cardini della porta che gracchiassero meno e non mi straziassero le notti coi loro lamenti.
Ma oliare i cardini non era lavoro da lupo. Era un lavoro manuale, non faceva per lui.
E così io spalancavo le finestre e m’inondavo il viso della brezza di mare.
Ma non mi portava mai via, quella brezza.
E tu c’eri, già da allora, nascosto in fondo all’inevitabilità di un destino? Forse.
Ma io guardavo tra i rami del bosco, dove la luna non arrivava, e non ti vedevo.
Ma forse c’eri, ed eri oltre la collina.
Almeno tu, mi dicevo, e volevo che ci fossi. Da qualche parte. Nell’universo.
Perché era notte, e la notte non c’era, il sole. E ogni sera era un’incognita.
E allora io – donna con te, ma a spesso senza, bambina dal principio dei tempi, femmina di un dolore antico - correvo alla radura e danzavo alla luna.
Il mio eterno, sanguinoso dolore urlavo, in un sanguinante sabba.
Di femmina violata. Di femmina impedita. Di femmina amata.
Di strega, di bambina. Di santa e di puttana.
E strillavo, con la mia voce che saliva dal ventre come un ringhio, come una preghiera. Ventre violato. Impedito. Amato.
Come un’implorazione: nonfarmimalenonfarmimalenonfarmimalenonfarmimale… Perché – lo sapevo da allora, lo avevo imparato dalle urla di mia madre, improvvise, a fare a brandelli i sogni – gli uomini sono capaci di farti male, se non conosci la maniera per impedirglielo.
E a quei tempi, non la conoscevo.
Ma poi no. Non l’ho conosciuta mai davvero, la maniera. Ad un certo punto, raschiandola in fondo alle ferite, l’ho intuita. Ho saputo che esisteva. Ma forse non ero brava ad usarla, perché loro – loro… - mi hanno fatto male lo stesso. Hanno continuato a farmi male.
Ma allora non sapevo nulla, e qualche volta non volevo sapere, né sentire.
E  fissavo il cielo, e le sue nuvole temporalesche, e mi dicevo che finché c’era la luna non sarebbe finito. E che sarebbe finito, invece, quell’incubo, un uno scrosciare di note come cristalli di ghiaccio sul terreno umido. E sarebbe finito, perché il mio canto l’avrebbe fatto finire. E se quel canto era potente e saliva fino alle nuvole allora era la dimostrazione che nessun lupo poteva esistere nella realtà.
E finalmente, cullata da quel pensiero, mi addormentavo. Sperando di non sprofondare più in quell’incubo che raschiava fuori dalla porta.
Perché in fondo a quell’incubo, c’era, il lupo.
Eccome, se c’era.



domenica 8 luglio 2012

Castéddu 'e susu




Quest'oggi, sull'Unione Sarda, grazie agli auspici del mio fratello isolano Francesco "Frisco" Abate - fratello, ma anche grande scrittore e grande cronista - è apparso un mio piccolo racconto in  una rubrica domenicale dal titolo Contixeddus (in sardo raccontini, piccole storie). 
E' venuta fuori una bella pagina, in un appuntamento settimanale che accoglie lavori di scrittori sardi. E anche se sardo non sono - o non lo sono completamente - a giocato a mio favore quella percentuale di sangue arzanese che porto nelle vene, e che urla la propria appartenenza all'isola. 
Un'appartenenza remota, ma non per questo meno intensa.
Sono molto orgoglioso di questo racconto. 
Sia perché è sempre bello partecipare alle imprese di Francesco, vulcanico creatore di eventi che una ne fa e cento ne pensa, sia perché il legame con la Sardegna e Cagliari è per me importante e speciale, e sono felice di consolidarlo giorno dopo giorno.
Ma anche perché sono riuscito a raccontare - diciamo meglio a sfiorare - una bellissima storia, scomoda per chi ama catalogare tutto e dividere le cose in bianco e nero: la storia della libera città di Fiume, un luogo di libertà dove nel 1920 i giovani si riunirono in nome di una ribellione antica ai polverosi poteri istituzionali. Mi piaceva che in quel luogo, come in molti altri luoghi negati, nella storia umana, non hanno contato le ideologie, gli schieramenti, le logiche di fazione: ma solo l'umano desiderio di ideale e di infinito. E al culmine della provocazione, l'eroe di quella città libera è stato il vituperato, ostracizzato, demonizzato Gabriele D'Annunzio.
Mi pareva bello, innamorato come sono dei divergenti, di tutti i divergenti, che fosse così. Amo quei giovani di tutti i colori che si radunarono a Fiume e che il potere non amò.
Mi piaceva dire che forse l'orrore delle Foibe e della Guerra Civile in Istria è stato generato anche da una sorta di vendetta del Potere nei confronti di quell'atto di anarchico idealismo, che mai è stato perdonato. 
Un atto di irriverenza e di libertà. 
Simile, per tanti versi a quello di Woodstock, della mia amataodiata generazione, del Rock.

A Cagliari, poi, ci sono persone che mi sono care, e anche questo conta. A loro dedico questo racconto. E a mio nonno, Antonio de Murtas, che era nato davvero ad Arzana.




Castéddu 'e susu
racconto

Dal traghetto la costa era una riga bianca sull’azzurro del mare sormontata da rocce rosse e dallo spruzzo verde dei cespugli. Morivano gli anni ‘60, tra gelati Motta, fumetti di Alan Ford e Cantagiro, e il futuro mi sembrava illimitato come un boom economico.
“Tornati siete?”
Quanto mi piaceva quell’inversione tutta sarda tra ausiliario e verbo.  Qualche volta, in quelle estati profumate di capretto e fichi d’india, giocavo a sentirmi sardo. E, lo confesso, ci gioco ancora. Sono creciuto a mia insaputa, ma l’isola resta accoccolata in un angolo del cuore. Pulsante e un po’ lontana. Almeno così mi sembrava.
E invece.
“Ti va di venire a Cagliari a presentare il tuo libro?”
Un’ora di volo, altro che lontana. Eccola, sa Isuledda. Cespugli bruciati da canicola e speculatori e rocce che arrivano dal principio dei tempi e se ne fregano. Geografie sepolte e improvvisamente materializzate, come diapositive di quel gioco da bambini, il view-master. Ci-cick: Quartu. Ci-cick: Poetto. Ci-cick: Cala Mosca. E Golfo degli Angeli, e lo Stagno.



Mi ritrovo, la notte, sul Bastione di san Remy, a Castéddu 'e susu.
L’odore di pietra arrostita al sole è come allora, ma mi sembra di sentire un’aria nuova che sale dai tetti arroventati delle case. Forse questa città ha finalmente imboccato una via giusta.
Chie chircat a Deus, cum Deus s'agatat.
Forse sì. Forse la ricerca rende divini.  
E’ stata una giornata di cose: la libreria, gli amici, su sardo idioma.
Ed ora la brezza della notte addolcisce la canicola.
Sollevando gli occhi, lo vedo. Testa rasata e riga ossigenata tipo Balotelli. Piercing, maglietta dei Sex Pistols: ANARCHY IN THE UNITED KINGDOM. Un chiodo in pelle che fa caldo solo a guardarlo. Una sigaretta fatta a mano di incerta provenienza.
“C’hai ‘a piccià?”
Mi squadra, arrogante, ma neanche troppo. Scuoto la testa.
“Sardo sei?”
Sardo sono, sto per dire. Ma ho pudore.
“Mio nonno era sardo. Di Arzana, conosci?”
“Eja, di Supramonte.”
Eja. Studio la maglietta dei Sex Pistols, stracciata sui bicipiti.
“Forti, i Sex pistols.”
Inclina la testa da una parte all’altra. Abbastanza, vuol dire quel gesto. Il sardo lo capisco. Non lo parlo, ma lo capisco.
“Sono ribelli. Apposta mi piacciono.”
“Oramai erano, ribelli.”
Il punk mi squadra con una punta di ostilità, e mi affretto a precisare: “Beh, Sid Vicious avrebbe 55 anni, fosse ancora vivo. Pochi più di me. “
Lui scuote la cicca, fatalista.
“I sogni non invecchiano.”
Mi strappa un sorriso, quella frase da cioccolatini in bocca ad un ribelle col look da ribelle.
“Anch’io ne avevo uno, di sogno. Forse un po’ sputtanato, ma ce l’avevo.”
Dico. Lui dà una tirata in uno sfrigolio di cartine, e scuote la testa per dissipare le nebbie.
“Eja. E’ importante, averci un sogno, prima che questi si rubino tutto.”
“Questi”, per lui, sono tutti gli altri. Quelli con le mani in pasta, con la camicia bianca, quelli che hanno quello che non ho.
Custu è su porcu, custu l’ha mortu, custu l’ha bruscadu, custu l’ha manigadu, custu narada piupiu.
Cantileno, afferrandomi le dita ad una ad una. Mi studia perplesso.
“Una filastrocca, la diceva…
“…tuo nonno.”
“Già. Il senso è che al più piccolo non resta niente. Ma noi non ci arrendiamo vero?”
“Eja.” Dice, gettando indietro la testa. Puoi scommetterci, significa quella volta. Sotto di noi, un Jukebox gracchia note sfuocate e un unz-unz-unz fastidioso come uno sciame di zanzare.
“No. Non ci arrendiamo. Il sogno magari scade o si sputtana, ma poi riemerge ad ondate. Una generazione dopo l’altra, tutti abbiamo avuto la nostra Woodstock dove fuggire. Tu dove vorresti andare?”
Ci pensa un attimo. “Berlino. E’ grandissima e piena di giovani...”
“C’è già stato, un posto così.”
“Eja?” (stavolta vuol dire: “ma dai?”)
“Nel 1920. Si chiamava Fiume.”
“Come lo sai?” Fa, un po’ aggressivo. Forse si vergogna di sognare.
“Me l’ha raccontato mio nonno.”
“Ma tutto sapeva?”
“Poche cose. Ma quelle giuste.”



Sorrido, mentre si ingegna a succhiare le ultime tirate tenendo il filtrino tra le dita.
“Lo so, a prima vista non c’entra con Sid Vicious. Manco con Woodstock. Eppure basta guardar meglio.”
Lui affonda le mani in tasca, mi studia di sghimbescio che in sardo vuol dire: continua, ti ascolto. E io continuo.
“Era appena finita la Prima Guerra mondiale. Milioni di morti. Milioni di progetti distrutti. Milioni di sogni infranti.”
“Cazzo, questa è poesia. “
Forse ha visto Natural Born Killers. E io mi rendo conto di che bestia pericolosa ed infida sia la retorica. Scalo la marcia.
“A volte la storia è generosa. I potenti litigando scordano un angolino di mondo, e lì iniziano a fiorire le utopie.”
Siede a terra e si prende le guance tra le mani. Ho ottenuto l’attenzione di un punk.
“Nel 1920 a Rapallo il Regno d’Italia e quello di Jugoslavia proclamarono Fiume città libera. Ma proclamavano un dato di fatto: si erano distratti, la città gli era sfuggita di mano. E i giovani da tutta Europa avevano cominciato a correre là. Via dalla guerra. Via da quelli che mangiano i sogni. Via da quelli con la camicia bianca. C’erano bolscevichi, futuristi, anarchici, nichilisti, fascisti, socialisti, insurrezionalisti, irredentisti,  nazionalisti e internazionalisti, monarchici e repubblicani, conservatori e sindacalisti, clericali, imperialisti e comunisti. O semplicemente ribelli.”
“Un sacco di gente.” Borbotta. C’è ironia nella sua risposta? Decido di no.
“La gioventù è come l’acqua. Se trova un buco, si infila e scorre via. Quei giovani andavano a Fiume ad inseguire un sogno.
“Sei professore?” Mi dice, squadrandomi con improvviso sospetto.
Scuoto la testa.
“Sono solo un rockettaro. Più noioso di un professore. E un inguaribile nostalgico delle vite che non ho vissuto. In quell’esercito di ribelli che ha occupato Fiume alla faccia di tutti i regnanti d’Europa, mi sarebbe piaciuto esserci. In barba alle etichette che gli hanno appiccicato dopo.”
“Eja.”
In sardo vuol dire “Anche a me”. Ma pure: “Ti sembra facile?” O: “Chiedi poco…” Eja cambia, a seconda del gesto che l’accompagna. Ma visto che lui non ne fa, rimaniamo ad ascoltare il traffico che scorre sotto le mura.
“Era una città che non dormiva mai. Altro che New York.” Mormoro, inseguendo un’immagine letta nei libri. “Teatri aperti 24 ore su 24. Locali dove si suonava di tutto. Asilo politico per i perseguitati di ogni colore. Parità dei sessi, libero amore. E poeti, e scrittori, e musicisti, attori e intellettuali… e pirati. Un esercito a comando elettivo. Nel 1920.”


“E perché non ne ho mai sentito parlare?”
Guardo il mare, cercando di distinguere sull’orizzonte il punto dove le luci delle navi fanno l’occhiolino, e spariscono di là.
“Eh. Perché. Il potere non perdona chi gli fa crescere delle utopie sotto il naso. Perché se crescono, non sono più utopie e le cose si complicano. Allora pretende un risarcimento. In Istria è stato la guerra, le foibe, la pulizia etnica. In nome di un vessillo, un Impero, un Dio migliore o un Popolo sovrano, ma la sostanza era la stessa: c’era da pagare la gabella dei sogni.”
Per un attimo mi chiedo perché mi è venuta in mente Fiume. E perché qui.
Forse tra i sogni esistono misteriosi legami: c’erano un sacco di sardi, nella brigata dei Granatieri di Sardegna di Fiume, e molti si fermarono. O perché Fiume è per me un luogo dell’anima. Come Woodstock, Cagliari. E altri, che conservo gelosamente. Dublino. Macchu Picchu. Ho sogni complicati.
Ma devo finire la storia, il mio amico con la cresta aspetta. E anche voi.
“ ‘A Fiume moriranno di fame’ dicevano tutti. Invece se la cavarono benissimo. E dopo un paio d’anni erano tutti d’accordo ad assegnarla perfino all’Italia purché non restasse una città libera. Tutti. Rossi e neri. Imperialisti e Comunisti. Lo scandalo della libertà doveva scomparire. E c’è una controprova. Basta guardare le cartine dell’Istria.”
“Guarda che ho l’Iphone.”
“Cerca, cerca. Non la trovi. Fiume non c’è più, l’hanno cancellata.”
Mi guarda sconcertato. “E perché?”
“Ovvio. Perché di lei non restasse neanche il ricordo. Ora si chiama Rijeka.”








giovedì 5 luglio 2012

LA MARTINI PORTA SFIGA



Come si dice in questi casi: io non l'ho conosciuta bene quanto avrei voluto. 
Ma sicuramente, conoscendola, qualcosa mi è vibrato dentro. 
Ai tempi mi occupavo della pagina musicale di Unomattina. Era il 1989, davvero secoli fa. E ricordo perfettamente quell'infame campagna di cui fu fatta bersaglio. 

La Martini porta sfiga.



La ricordo, come no. Ricordo i sorrisetti indulgenti quando qualcuno faceva una battuta, quell'ammiccamento come a dire: lo sappiamo tutti, no? Lo ricordo e personalmente mi vergogno. Non per averlo mai detto, questo no. 
Ma per non essermi mai incazzato a dovere, le decine di volte che ho sentito quella schifosa battuta.
Perché ha - aveva - ragione Gabriella Ferri. Tutti, o più probabilmente molti, si devono vergognare. Perchè se ci si pensa a mente fredda, è davvero una stupidaggine, essere tacciati di portar sfiga. Ma ci pensi a mente fredda quando non si tratta di te. Quando non vedi - e lei li vedeva - i gesti scaramantici e gli scongiuri, quando i conformisti della prima e dell'ultima ora non cominciano ad evitare di invitarti alle trasmissioni musicali o alle serate.
Perchè nel mondo dello spettacolo di gente che vive di sentito dire ce n'è eccome. Gente che ripete a pappagallo cose che neanche conosce, ma che ha ascoltato da qualcun altro, ad una cena, ad un cocktail, in un corridoio...
Non c'è stata una regia malvagia. 
Il calvario di Mimì è nato così. Con un coglione che ha iniziato e una serie di coglioni che hanno ripetuto a pappagallo.



La Martini porta sfiga.

E la Martini, con quel suo sguardo di scanzonata ribelle sconfitta e impossibile da sconfiggere, con quei suoi occhi da pantera triste, e' stata il primo carnefice di sè stessa.
Raccontava Renato che  la conosce fin da bambina, praticamente, che era lei la prima a chiamarsi fuori non solo dalle occasioni pubbliche, ma addirittura da quelle private, per paura di mettere a disagio gli altri.
Perchè...

...la Martini porta sfiga.

E così.

In quel 1989, con un tremito dentro la pancia, dove gorgogliava tutta la rabbia che da donna di Calabria aveva ingoiato e lasciato fermentare dentro, era salita sul palco dell'Ariston ed aveva urlato, con quella sua dolcezza da pantera offesa, che la gente è strana, prima ti odia e poi ti ama.
E quasi, con uno sguardo che continuava ad appuntarsi sulla platea e poi a sfuggire altrove, aveva cercato di giustificarli, quei carnefici che   "ciecamente" e "scioccamente" seguono le parole d'ordine e ripetono a pappagallo gli slogan.
Ora sia chiaro, non so a cosa pensava Mimì quella sera, mentre puntava quello sguardo di carbone di Calabria proprio al centro dell'ottica della telecamera e cercava di convincersi che non aveva paura a sfidare il mondo, e che l'esilio era finito.
E che quella frase: 

...la Martini porta sfiga... 

...era l'ora di farla sparire.
"Almeno tu nell'universo" era un pezzo di Bruno Lauzi e Maurizio Fabrizio, scritto nel  1972, quindi contemporaneo a "Piccolo Uomo".
Ed aveva viaggiato nello spazio e nel tempo per arrivare all'appuntamento con la rinascita, l'ennesima rinascita di Mimì.
Era rinata dopo molte cose, Mimì.


Dopo un padre violento che era sparito - o avevano abbandonato, sua madre, le sue sorelle, e lei - quando era bambina.
Era rinata al carcere, quattro mesi con l'infamante accusa si spaccio di droga per una caccola di fumo in borsetta. (per inciso, fu assolta con formula piena, dopo quattro mesi di calvario)
Era rinata al suo cuore spezzato, ed ora rinasceva a quella frase:

...la Martini porta sfiga.

In un film americano con un lieto fine ad orologeria, Mimì quel Festival lo avrebbe vinto. E se vogliamo dirla tutta, anche in una competizione in cui si fosse premiato il valore artistico, la tecnica, la canzone. E l'emozione, le secchiate di emozioni che quella sera Mimì vomitò in faccia al pubblico dell'Ariston e alla platea televisiva.
La pantera ferita era tornata. Arrabbiata e travolgente. Arrivò nona. E fu premiata con l'immancabile premio della critica che aveva già vinto nel 1982 con "E non finisce mica il cielo", scritta per lei da Ivano Fossati, già.


Chissà se il premio della critica, che ora è intitolato proprio a lei, era sufficiente a ripagarla di quelle infinite rinascite.
Probabilmente no. Ma chissà se vincere avrebbe cambiato davvero le cose.


La conobbi il mese dopo quel Sanremo. Me la presentò Willy David, che a quel tempo era il suo manager, ed ebbi la fortuna di girare, come regista, il filmato di "Almeno tu nell'universo" per la RAI.
Filmato che non c'è più, è stato smagnetizzato.
Girammo quel video con pochissimi mezzi, tra Circo Massimo e Caffè greco. In una scena, c'era un pupazzetto a molla che saltava fuori da una scatoletta: mezzi spartani, e quindi lo avevo portato da casa. Si toccava il coperchio, si apriva a scatto e boing! oscillava con quella buffa faccia da pagliaccio. E Mimì rideva, a crepapelle. 
"Non sto recitando, mi fa morire dal ridere davvero."
"Te lo regalo."
Un mio regalo è stato, mi piace pensare, in casa di Mimì per qualche anno. L'ho rincontrata altre volte, da allora, ma quei due giorni in cui abbiamo girato il video sono stati speciali. Intimi, lunghi, faticosi e... malinconici. Allora non capivo, oggi forse sì. Ci sono le volte che i risarcimenti arrivano fuori tempo massimo. Forse per lei era così. Oggi mi piace pensare che fosse così. Ma allora non capivo e così, in una pausa, di fronte ad una macchinetta del caffè della Trafalgar, la mitica sala di registrazione dove è stata registrata una bella fetta della storia della musica italiana degli anni settanta e ottanta, la studiai di sottecchi, mentre lei assorta guardava altrove. Ero giovane, non avevo ancora molte parole. Cercai, almeno, di strapparle un sorriso.
Le dissi: 
"Sono convinto che tutto l'amore che ti circonda un questo momento derivi dalla voglia di rivederti, ma anche da un po' di senso di colpa."
L'ho premesso, ero giovane. Probabilmente non era quello, il modo per farla sorridere. Sollevò gli occhi e me li puntò in faccia.
"Questo non posso dirlo io."
Rispose. Mi fissò ancora un attimo, come aveva fatto quella sera sul palco dell'Ariston, prima di distogliere gli occhi.
"Ma comunque non importa più."
Però, non sorrise.


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