Quest'oggi, sull'Unione Sarda, grazie agli auspici del mio fratello isolano Francesco "Frisco" Abate - fratello, ma anche grande scrittore e grande cronista - è apparso un mio piccolo racconto in una rubrica domenicale dal titolo Contixeddus (in sardo raccontini, piccole storie).
E' venuta fuori una bella pagina, in un appuntamento settimanale che accoglie lavori di scrittori sardi. E anche se sardo non sono - o non lo sono completamente - a giocato a mio favore quella percentuale di sangue arzanese che porto nelle vene, e che urla la propria appartenenza all'isola.
Un'appartenenza remota, ma non per questo meno intensa.
Sono molto orgoglioso di questo racconto.
Sia perché è sempre bello partecipare alle imprese di Francesco, vulcanico creatore di eventi che una ne fa e cento ne pensa, sia perché il legame con la Sardegna e Cagliari è per me importante e speciale, e sono felice di consolidarlo giorno dopo giorno.
Ma anche perché sono riuscito a raccontare - diciamo meglio a sfiorare - una bellissima storia, scomoda per chi ama catalogare tutto e dividere le cose in bianco e nero: la storia della libera città di Fiume, un luogo di libertà dove nel 1920 i giovani si riunirono in nome di una ribellione antica ai polverosi poteri istituzionali. Mi piaceva che in quel luogo, come in molti altri luoghi negati, nella storia umana, non hanno contato le ideologie, gli schieramenti, le logiche di fazione: ma solo l'umano desiderio di ideale e di infinito. E al culmine della provocazione, l'eroe di quella città libera è stato il vituperato, ostracizzato, demonizzato Gabriele D'Annunzio.
Mi pareva bello, innamorato come sono dei divergenti, di tutti i divergenti, che fosse così. Amo quei giovani di tutti i colori che si radunarono a Fiume e che il potere non amò.
Mi piaceva dire che forse l'orrore delle Foibe e della Guerra Civile in Istria è stato generato anche da una sorta di vendetta del Potere nei confronti di quell'atto di anarchico idealismo, che mai è stato perdonato.
Un atto di irriverenza e di libertà.
Simile, per tanti versi a quello di Woodstock, della mia amataodiata generazione, del Rock.
Un atto di irriverenza e di libertà.
Simile, per tanti versi a quello di Woodstock, della mia amataodiata generazione, del Rock.
A Cagliari, poi, ci sono persone che mi sono care, e anche questo conta. A loro dedico questo racconto. E a mio nonno, Antonio de Murtas, che era nato davvero ad Arzana.
Castéddu 'e susu
racconto
Dal traghetto la costa era una riga bianca sull’azzurro
del mare sormontata da rocce rosse e dallo spruzzo verde dei cespugli. Morivano
gli anni ‘60, tra gelati Motta, fumetti di Alan Ford e Cantagiro, e il futuro mi
sembrava illimitato come un boom economico.
“Tornati siete?”
Quanto mi piaceva quell’inversione tutta sarda tra
ausiliario e verbo. Qualche volta, in
quelle estati profumate di capretto e fichi d’india, giocavo a sentirmi sardo.
E, lo confesso, ci gioco ancora. Sono creciuto a mia insaputa, ma l’isola resta
accoccolata in un angolo del cuore. Pulsante e un po’ lontana. Almeno così mi
sembrava.
E invece.
“Ti va di venire a Cagliari a presentare il tuo libro?”
Un’ora di volo, altro che lontana. Eccola, sa Isuledda. Cespugli bruciati da
canicola e speculatori e rocce che arrivano dal principio dei tempi e se ne
fregano. Geografie sepolte e improvvisamente materializzate, come diapositive
di quel gioco da bambini, il view-master. Ci-cick: Quartu. Ci-cick: Poetto. Ci-cick:
Cala Mosca. E Golfo degli Angeli, e lo Stagno.
Mi ritrovo, la notte, sul Bastione di san Remy, a Castéddu
'e susu.
L’odore di pietra arrostita al sole è come allora, ma mi sembra
di sentire un’aria nuova che sale dai tetti arroventati delle case. Forse
questa città ha finalmente imboccato una via giusta.
Chie chircat a
Deus, cum Deus s'agatat.
Forse sì. Forse la ricerca rende divini.
E’ stata una giornata di cose: la libreria, gli amici, su sardo idioma.
Ed ora la brezza della notte addolcisce la canicola.
Sollevando gli occhi, lo vedo. Testa rasata e riga ossigenata
tipo Balotelli. Piercing,
maglietta dei Sex Pistols: ANARCHY IN THE UNITED KINGDOM. Un chiodo in pelle che fa caldo
solo a guardarlo. Una sigaretta fatta a mano di incerta provenienza.
“C’hai ‘a piccià?”
Mi squadra, arrogante, ma neanche troppo. Scuoto la
testa.
“Sardo sei?”
Sardo sono, sto per dire. Ma ho pudore.
“Mio nonno era sardo. Di Arzana, conosci?”
“Eja, di Supramonte.”
Eja. Studio la maglietta dei Sex Pistols, stracciata sui
bicipiti.
“Forti, i Sex pistols.”
Inclina la testa da una parte all’altra. Abbastanza, vuol
dire quel gesto. Il sardo lo capisco. Non lo parlo, ma lo capisco.
“Sono ribelli. Apposta mi piacciono.”
“Oramai erano, ribelli.”
Il punk mi squadra con una punta di ostilità, e mi
affretto a precisare: “Beh, Sid Vicious avrebbe 55 anni, fosse ancora vivo.
Pochi più di me. “
Lui scuote la cicca, fatalista.
“I sogni non invecchiano.”
Mi strappa un sorriso, quella frase da cioccolatini in
bocca ad un ribelle col look da ribelle.
“Anch’io ne avevo uno, di sogno. Forse un po’ sputtanato,
ma ce l’avevo.”
Dico. Lui dà una tirata in uno sfrigolio di cartine, e
scuote la testa per dissipare le nebbie.
“Eja. E’ importante, averci un sogno, prima che questi si
rubino tutto.”
“Questi”, per lui, sono tutti gli altri. Quelli con le
mani in pasta, con la camicia bianca, quelli che hanno quello che non ho.
“Custu è su porcu,
custu l’ha mortu, custu l’ha bruscadu, custu l’ha manigadu, custu narada piupiu.”
Cantileno, afferrandomi le dita ad una ad una. Mi studia
perplesso.
“Una filastrocca, la diceva…
“…tuo nonno.”
“Già. Il senso è che al più piccolo non resta niente. Ma
noi non ci arrendiamo vero?”
“Eja.” Dice, gettando indietro la testa. Puoi
scommetterci, significa quella volta. Sotto di noi, un Jukebox gracchia note
sfuocate e un unz-unz-unz fastidioso come uno sciame di zanzare.
“No. Non ci arrendiamo. Il sogno magari scade o si
sputtana, ma poi riemerge ad ondate. Una generazione dopo l’altra, tutti abbiamo
avuto la nostra Woodstock dove fuggire. Tu dove vorresti andare?”
Ci pensa un attimo. “Berlino. E’ grandissima e piena di
giovani...”
“C’è già stato, un posto così.”
“Eja?” (stavolta vuol dire: “ma dai?”)
“Nel 1920. Si chiamava Fiume.”
“Come lo sai?” Fa, un po’ aggressivo. Forse si vergogna
di sognare.
“Me l’ha raccontato mio nonno.”
“Ma tutto sapeva?”
“Poche cose. Ma quelle giuste.”
Sorrido, mentre si ingegna a succhiare le ultime tirate
tenendo il filtrino tra le dita.
“Lo so, a prima vista non c’entra con Sid Vicious. Manco
con Woodstock. Eppure basta guardar meglio.”
Lui affonda le mani in tasca, mi studia di sghimbescio che
in sardo vuol dire: continua, ti ascolto. E io continuo.
“Era appena finita la Prima Guerra mondiale. Milioni di
morti. Milioni di progetti distrutti. Milioni di sogni infranti.”
“Cazzo, questa è poesia. “
Forse ha visto Natural Born Killers. E io mi rendo conto
di che bestia pericolosa ed infida sia la retorica. Scalo la marcia.
“A volte la storia è generosa. I potenti litigando scordano
un angolino di mondo, e lì iniziano a fiorire le utopie.”
Siede a terra e si prende le guance tra le mani. Ho
ottenuto l’attenzione di un punk.
“Nel 1920 a Rapallo il Regno d’Italia e quello di Jugoslavia
proclamarono Fiume città libera. Ma proclamavano un dato di fatto: si erano
distratti, la città gli era sfuggita di mano. E i giovani da tutta Europa avevano
cominciato a correre là. Via dalla guerra. Via da quelli che mangiano i sogni.
Via da quelli con la camicia bianca. C’erano bolscevichi, futuristi, anarchici,
nichilisti, fascisti, socialisti, insurrezionalisti, irredentisti, nazionalisti
e internazionalisti, monarchici e repubblicani, conservatori e sindacalisti,
clericali, imperialisti e comunisti. O semplicemente ribelli.”
“Un sacco di gente.” Borbotta. C’è ironia nella sua
risposta? Decido di no.
“La gioventù è come l’acqua. Se trova un buco, si infila
e scorre via. Quei giovani andavano a Fiume ad inseguire un sogno. ”
“Sei professore?” Mi dice, squadrandomi con improvviso sospetto.
Scuoto la testa.
“Sono solo un rockettaro. Più noioso di un professore. E un
inguaribile nostalgico delle vite che non ho vissuto. In quell’esercito di
ribelli che ha occupato Fiume alla faccia di tutti i regnanti d’Europa, mi
sarebbe piaciuto esserci. In barba alle etichette che gli hanno appiccicato
dopo.”
“Eja.”
In sardo vuol dire “Anche a me”. Ma pure: “Ti sembra
facile?” O: “Chiedi poco…” Eja cambia, a seconda del gesto che l’accompagna. Ma
visto che lui non ne fa, rimaniamo ad ascoltare il traffico che scorre sotto le
mura.
“Era una città che non dormiva mai. Altro che New York.”
Mormoro, inseguendo un’immagine letta nei libri. “Teatri aperti 24 ore su 24.
Locali dove si suonava di tutto. Asilo politico per i perseguitati di ogni
colore. Parità dei sessi, libero amore. E poeti, e scrittori, e musicisti,
attori e intellettuali… e pirati. Un esercito a comando elettivo. Nel 1920.”
“E perché non ne ho mai sentito parlare?”
Guardo il mare, cercando di distinguere sull’orizzonte il
punto dove le luci delle navi fanno l’occhiolino, e spariscono di là.
“Eh. Perché. Il potere non perdona chi gli fa crescere delle
utopie sotto il naso. Perché se crescono, non sono più utopie e le cose si
complicano. Allora pretende un risarcimento. In Istria è stato la guerra, le foibe,
la pulizia etnica. In nome di un vessillo, un Impero, un Dio migliore o un
Popolo sovrano, ma la sostanza era la stessa: c’era da pagare la gabella dei
sogni.”
Per un attimo mi chiedo perché mi è venuta in mente
Fiume. E perché qui.
Forse tra i sogni esistono misteriosi legami: c’erano un
sacco di sardi, nella brigata dei Granatieri di Sardegna di Fiume, e molti si
fermarono. O perché Fiume è per me un luogo dell’anima. Come Woodstock, Cagliari.
E altri, che conservo gelosamente. Dublino. Macchu Picchu. Ho sogni complicati.
Ma devo finire la storia, il mio amico con la cresta aspetta.
E anche voi.
“ ‘A Fiume moriranno di fame’ dicevano tutti. Invece se
la cavarono benissimo. E dopo un paio d’anni erano tutti d’accordo ad
assegnarla perfino all’Italia purché non restasse una città libera. Tutti.
Rossi e neri. Imperialisti e Comunisti. Lo scandalo della libertà doveva
scomparire. E c’è una controprova. Basta guardare le cartine dell’Istria.”
“Guarda che ho l’Iphone.”
“Cerca, cerca. Non la trovi. Fiume non c’è più, l’hanno
cancellata.”
Mi guarda sconcertato. “E perché?”
“Ovvio. Perché di lei non restasse neanche il ricordo. Ora
si chiama Rijeka.”
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