lunedì 5 gennaio 2015

DITELE CHE L'HO PERDUTA QUANDO L'HO CAPITA. PENSIERI DOPO LA VISIONE DI "GONE GIRL"



E così pensava l'uomo di passaggio
mentre volava alto nel cielo di Napoli
rubatele anche i soldi rubatele anche i ricordi
ma lasciatele sempre la sua dolce curiosità
ditele che l'ho perduta quando l'ho capita
ditele che la perdono per averla tradita.




Gone girl, che è titolo molto più bello dell’Italiano “L’amore bugiardo” che pure rimanda al romanzo a cui il film è ispirato, è una storia sull’identità.
O, per dirla in termini psicanalitici, che qualche volta non guastano, sul vero sé.
E’ la storia, mi permetto di insistere, della dimenticanza di sé, della propria essenza, di quelle cose che veramente necessitiamo per essere felici. E’ la storia del tradimento di un sogno, e del livoroso tentativo di redimerlo nella vendetta, a costo di varcare i cancelli della follia.
Ed è una bella storia, ben costruita, ben scritta e ben raccontata. Una di quelle storie che mi sarebbe piaciuto scrivere.
Non tanto, e non solo, perché da una bella sceneggiatura è nato un bel film. Ma anche perché affronta un terreno tanto controverso e facile alla manipolazione ideologica ed agli slogan come la dinamica tra i sessi con una disincantata voglia di chiarezza – direi – scientifica, nella quale non c’è aprioristicamente il sesso prevaricatore e quello vittima, ma semmai c’è da chiedersi, come si chiedono ad un certo punto i nostri protagonisti: “Cosa ci siamo fatti.”
Al plurale, ecco sì. Uomo, e donna. Ambedue prigionieri, in un gioco di mascheramenti, falsità, insostenibili ruoli indossati per compiacere l’amato – o l’amata.
Mi pare questa, la vera notizia, la vera novità del film: l’avere analizzato le dinamiche, spesso distruttive, tra i sessi (o almeno lo sono quelle di cui narra il film) come la storia non tanto di un sesso violento e poco razionale contro un sesso intelligente, empatico e vittima, quanto la storia del dolore esistenziale che comporta l’allontanarsi dalla propria vera essenza per indossare – specificatamente nel rapporto di coppia – dei ruoli che finiscono per andare stretti, per soffocare, per incancrenirsi nel rancore e nella voglia di vendetta.
Ed è ancor più bello che la penna che ha scritto questa sceneggiatura  sia quella di una donna, Gillian Flynn.
Lo dico, consapevole che questa affermazione, che è anti nulla, ma semplicemente a favore della chiarezza che non ha bisogno di categorie ideologiche, potrebbe essere causa di polemiche. 
Lo dico consapevole che su certi temi si cammina sulle uova, e ci si espone facilmente ad attacchi.
Ma lo dico.





Su Gone girl si è scatenata, collateralmente al dibattito sul film, anche la polemica da parte di chi cerca di decidere se si tratti di un film femminista o misogino, e i tentativi a mio parere un po’ velleitari di farlo rientrare a tutti i costi nel dibattito sul femminicidio.
Lo annoto solo en passant, senza nulla togliere alla sacrosanta battaglia contro la violenza nei confronti delle donne, perché mi pare che il film non ci stia parlando di femminismi o maschilismi, ma della violenza quotidiana che si sviluppa all’interno di un rapporto di coppia, e nel quale, mi pare di capire, ambedue sono protagonisti, ed ambedue vittime.
Mi terrò lontano dalle polemiche di parte, perché non è un mistero che sono convinto che le ideologie, tutte, abbiano la cattiva abitudine di mettere filtri davanti agli occhi di chi guarda, e di indurre in tentazione chi commenta: quella di forzare le argomentazioni – in questo caso di un film – al proprio assunto di partenza.
E qui, l’analisi, spietata, di David Fincher e di Gillian Flynn, che è anche l'autrice del romanzo, è sulla dinamica della vita di coppia.

Le sere sono uguali, ma ogni sera è diversa
e quasi non ti accorgi dell' energia dispersa
a ricercare i visi che ti han dimenticato
vestendo abiti lisi, buoni ad ogni evenienza,
inseguendo la scienza o il peccato...

 


Il film si apre su una testolina bionda di una bella ragazza (ragazza, dico non a caso, non donna…) e su una mano di uomo che gioca coi suoi capelli. Poi, irrompe la voce fuori campo di lui:

«Quando penso a mia moglie penso sempre alla sua testa. Immagino di aprirle quel cranio perfetto e srotolarle il cervello in cerca di risposte alle domande principali di ogni matrimonio: – a cosa pensi? – ; – come ti senti? – ; – che cosa ci siamo fatti? – ».

Poi lei si volta, lo guarda, ha gli occhi grandi, e belli, e strani, perché non sappiamo dire se sono sconcertati, abbandonati, innamorati, o cosa.
O cosa.


Ma la verità è che la chiave del film non è tanto nello sguardo di lei, Amy, ma nello sguardo del marito, che è il nostro stesso punto di vista.
Perché Amy, interpretata dalla bellissima Rosamund Pike, esiste solo nella misura in cui è frutto del punto di vista di qualcuno.
Amy non esiste, in definitiva, ma indossa il ruolo che di volta in volta qualcuno sceglie per lei. Lo ha fatto fin da bambina, quando padre e madre le hanno costruito addosso il personaggio della “Mitica Amy”, una serie di romanzi per ragazzi ispirati a lei, ma nei quali la protagonista cartacea sta sempre un passo avanti, costringendola ad un inseguimento senza speranza lungo i sentieri dell’adolescenza, o ad una resa senza condizioni.
« Mitica Amy è sempre stata un passo avanti a me !»

Amy ha da tempo abdicato alla sua vita, ha deciso di essere quel che gli altri vogliono che sia. Si è tirata addosso il fardello di realizzare i sogni delle persone che ama – o che crede di amare.
Nelle “Cronache Marziane” di Ray Bradbury lo scrittore immagina un pretino che giunge su Marte per coronare il suo sogno, portare la Fede ai nativi ed ai coloni. Una notte, nella sua chiesetta costruita con mezzi di fortuna, un po' simile a quelle del vecchio west, viene svegliato dal suono di una goccia che cade ritmicamente sul pavimento. Corre in chiesa e trova, sopra l'altare, Cristo, vivo, crocifisso. La goccia è il suono del suo sangue che cade a terra. Il pretino, che non crede ai suoi occhi, cade in ginocchio invocando il miracolo: quello è dunque il segno che il Signore approva la sua missione, E' il segno che gli darà il suo sostegno per convertire Marte?

Prima di proseguire, si impone una parentesi. I marziani, come sono descritti da Bradbury, sono una sorta di mutaforma telepatici. Percepiscono cioè i desideri e i sogni di chi hanno davanti, e li incarnano. Su Marte, alcuni dei coloni hanno ritrovato i genitori morti da anni, altri la donna della loro vita che non sono riusciti a conquistare, e così via.
Tutto questo per dire che, mentre il pretino intona il Te deum di ringraziamento, dalle labbra del Cristo morente arrivano, fioche, alcune parole: “E’ bello, quel che mi stai dicendo. Ma ora posso andare? Sto morendo dissanguato…”
Il povero marziano mutaforma, condannato ad assumere le sembianze dei sogni degli altri, rischia di morire per incarnare (mai verbo fu più adeguato) il desiderio del pretino.

Lo stesso vale per Amy. E una mattina , al culmine della frustrazione per essersi svegliata così lontana da sé da non riconoscersi, Amy decide che la colpa è del marito, Nick, interpretato da Ben Affleck.
Ora, sia chiaro, anche a Nick puzza un po’ la coscienza, e le sue colpe ce le ha eccome. Ma è come se Amy gli imputasse non tanto l’averle anteposto le necessità della famiglia di origine, non solo l’averla di fatto costretta a sacrificare la sua carriera, non solo le sue meschinità e i suoi tradimenti di maschio, ma anche il fatto, che, sia pure senza chiederlo, l’ha costretta ad essere altro da sé.
E per questa colpa lo ha giudicato, e condannato.


Gone girl si sviluppa lungo due filoni: da un lato, la scomparsa di Amy, e i flashback che attraverso il suo diario raccontano la storia d’amore tra lei e Nick, fin dal primo incontro.
Dall’altro, l’invadente ruolo dei media e la manipolazione delle coscienze, attraverso patetiche e melodrammatiche giornaliste (di cui noi in Italia abbiamo purtroppo esperienza quotidiana) capaci di sbattere il mostro in prima pagina – femminicida fedifrago e senza scrupoli come ogni uomo - un giorno, per celebrare la palinodia del marito modello il giorno dopo.
E naturalmente, sguazzare nel luogo comune in ognuno dei due casi.
Questo secondo elemento, che si fonda su un personaggio di giornalista a mio parere poco originale e stereotipato, è la parte meno riuscita del film.
Coinvolgente, e degno di soffermarsi, è invece lo sviluppo del tema dell’identità, che nella fattispecie è per Amy raggiungibile solo fuggendo dalla sua vita, e al prezzo dell’incursione nel delirio.
Mi pare che si tratti di cinema che racconta una mancanza, non tanto di una figura maschile o femminile (certo, anche di quelle) ma soprattutto di un centro. Di un perno attorno al quale giri tutto.
In Matteo 6:21, Gesù dice: "Dov'è il tuo tesoro, lì è il tuo cuore".
Mi pare che la ricerca struggente di questo tesoro, sul quale depositare il cuore, sia il dramma di Nick ed Amy.
Perché Amy è carnefice soprattutto di se stessa, e si forza, dolcemente, ad essere figlia modello, fidanzata perfetta...

«Quando ho conosciuto Nick ho capito che lui voleva una strafica»

...nuora capace di sacrificare il proprio destino alla malattia della suocera, femmina fatale, mantide…
E poi, un giorno, la ragazza (non la donna, lo ribadisco) sparisce.
Sparita.
Gone girl.
Alla ricerca forse della propria vera dimensione, forse della morte, forse della vendetta, non mi addentro, lo dirà la visione del film.
Ma chissà quale sarà il prezzo di questa ricerca, perché c’è sempre un prezzo. O quale la posta in palio.

Ma in tutto questo non abbiamo parlato di Nick, che, torno a dirlo, ha la sua rispettabile serie di cadaveri nell’armadio, ma non è una semplice vittima di questo gioco di falsificazioni e di falsi sé, ma anzi ne è l’inevitabile complice, quasi come se la menzogna e il tradimento – non tanto e non solo quello fisico – fossero l’unica forma possibile di convivenza che – alla lunga – possa reggere.
E come se, in definitiva, proprio quello possa essere l’unico modo che ha per riconquistare la perduta età dell’oro: inscenare il marito compunto, ferito, reo confesso, disperato, perché nessun’altra mossa gli concede il comune sentire – e la fanfara mediatica – se non quella di adattarsi al ruolo di carnefice designato.

 In un vecchio film di Roberto Russo interpretato da Monica Vitti, che valse alla grandissima Monica l’Orso d’argento a Berlino, si narra la storia di una coppia in crisi nella quale, un bel giorno, il marito annuncia alla moglie di avere un’amante di fantasia.


Esattamente, si è innamorato di una donna che non esiste, l’unico modo, io credo, per innamorarsi di una donna perfetta. Il genio femminile di Monica Vitti sta nel fatto di accettare la sfida, scendere in competizione con la rivale nel mondo dell’immaginario, sfidarla, pregarla, insultarla, ma riprendersi, alla fine, il suo uomo, dopo avergli dimostrato di essere capace, per amore, di seguirlo anche nella pazzia.





Nick fa qualcosa di simile, ma lo fa, in definitiva, per non amore, per vigliaccheria, o forse solo per una improvvisa presa di coscienza nichilistica che quella della menzogna è l’unica via percorribile nei rapporti tra persone.
Laddove, come suggerito prima, quei rapporti si scoprano improvvisamente privi di un senso e di una direzione.
Nick non è carnefice e neanche è vittima della situazione. E’ abulico, rassegnato complice di qualcosa che in fondo neanche ha voglia di cambiare.



Amy invece sì, lei ci ha provato a cambiare. Ha provato a sparigliare le carte, a strappare via un paio di capitoli del libro della sua vita, quello della Mitica Amy, che fa tutto al meglio e sta sempre un passo avanti a lei, per provare a scriverne altri, e trovarsi improvvisamente fuori dal falso sé, libera di scegliere di vivere, o di morire.

Ma solo per scoprire, improvvisamente e dolorosamente, di non essere capace neppure di quello, perché non si può, mi pare, scegliere di vivere o di morire se non di fronte ad una pietra di paragone, qualcosa per cui valga la pena di.
Qualcosa che, mi pare di capire, Amy non ha.
Ed è questo, mi sento di dire, il suo vero dramma.
Che poi, è lo stesso di Nick.

1 commento:

  1. Ho visto il film e l'ho trovato molto intrigante ... nel mio primo romanzo "Centogiorni"pubblicato nel 2008, ho provato nel limite delle mie possibilità, con altro tipo di trama, a addentrarmi in tematiche simili

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