domenica 8 febbraio 2015

BIRDMAN, OVVERO DI CHE PARLIAMO QUANDO PARLIAMO D'AMORE.








Di cosa parliamo, quando parliamo d’amore?
Nel gioco di scatole cinesi in cui un film contiene una piece teatrale che a sua volta contiene l’opera più celebrata di Raymond Carver, è probabilmente il titolo di quest’ultima quello che più di tutti ci indirizza nella giusta direzione, ammesso che esista una giustezza in questa pellicola. Sto parlando, ovviamente, di Birdman di Alejandro Gonzàles Iñárritu. In definitiva, con sapiente senso dell'ironia, il più immaginifico dei registi dell'ultima generazione affida la chiave del suo film al campione del minimalismo, con un occhio ad "America oggi" di Altman, anch'esso tratto da Carver..

Anni dopo aver rinunciato a Birdman 4, Riggan Thomson ha adattato la celebre pièce di Raymond Carver, e si prepara a debuttare a teatro come regista e protagonista. E nell’avvicinarsi del debutto, combatte con le decine di conti che la vita, la professione, la famiglia, hanno deciso di presentargli tutti ora tutti insieme, uno sopra l’altro.
Oddio, alcuni conti mi sono sembrati in definitiva pagabilissimi: quelli con una moglie che alla fine ha saputo guardare oltre i tradimenti e le pochezze di Riggan, e gli sta vicina in ogni caso, quelli con una figlia che lo accusa di non esserci stato, ma comunque c’è, e combatte al suo fianco questa battaglia, mentre combatte personalmente quella contro la droga, quelli con una amante che è in attesa di una parola di condivisione - di accoglienza, appunto – che lui non sa, o non vuole dirle.
E allora il conto in sospeso, quello meno pagabile, sembra essere il conto con il proprio ego. O con la sovrastima di sé, viatico sicuro per il fallimento.
Riggan infatti ha avuto il grandissimo successo nei panni di un supereroe, Birdman, ma di quel grandissimo successo quasi si vergogna, perché non si sente di essere stato un vero attore, non si sente di aver fatto arte, non si sente corrispondente al suo sogno ed alla sua aspirazione: cioè essere un attore vero, trionfare in teatro, fare qualcosa di profondo ed importante. Come non è - secondo lui - la sua interpretazione di Birdman, uno dei tanti supereroi mononeuronici di cui è piena l'America - e non solo quella - e che gli ha fruttato tre blockbusters.

Insomma, proprio come Groucho Marx, Riggan non entrerebbe mai in un club che lo accettasse come socio. Perché lui è quello di Birdman, ed essere stato quello di Birdman è un episodio della sua vita che non ama ricordare.
Contemporaneamente però, Birdman è la voce del suo rancore, della sua voglia di riscatto, del suo sentirsi sottostimato e sotto accettato. In un gioco di specchi che finisce per confonderci, Riggan non sopporta di essere amato perché è stato (ed è, per molti) Birdman, ma contemporaneamente non accetta di non essere valutato quanto merita oggi, proprio perché lui è stato (ed è, anche per se stesso, Birdman).


E poi succede pure che una acida e frustrata critica teatrale che dispensa promozioni e sentenze come se avesse avuto l’investitura divina gli dica che stroncherà la piece comunque, a priori, per far giustizia di tre blockbusters con i quali Riggan ha imbrattato la cultura americana.
La critica, come qualche trombone nostrano che pontifica dalle colonne di quotidiani di tradizione ottocentesca, non sa fare altro che dire quel che non va, ma lo fa con una spietata certezza di combattere dalla parte del bene.

Codesto solo oggi possiamo dirti
Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo…

Come se la verità delle cose potesse essere pesata sulla loro ponderosità.
Come se fosse l’intellettualismo, la risposta al vuoto esistenziale di Riggan, e per esteso di tutti.
E allora di cosa parliamo, quando parliamo di amore?
Di accettare con indulgenza il proprio limite, la propria pochezza, la propria fragilità, e non affidare il nostro completamento all’approvazione degli altri.
Parliamo, ancora una volta, di provare a mostrare una parte vera di sé, quella più scorticata e vulnerabile, ma probabilmente la più vera, e lasciare che gli altri ci amino, invece che ammirarci.
“Tu hai sempre confuso l’amore con l’ammirazione.”
E’ una delle battute più efficaci e rivelatrici dell’intera – splendida - sceneggiatura. Perché pare proprio sia necessario, ad ognuno di noi, per sentirsi amato, di sentirsi accolto. Non per quel che mostra il falso sé, quello che tutti indossiamo più o meno consapevolmente sul palcoscenico della vita sociale, ma per quel che siamo davvero.
In uno strano corto circuito difficilmente spiegabile, ognuno di noi si ingegna per mostrarsi migliore e ammirevole agli altri, e poi si sente solo e poco considerato quanto gli altri mostrano di amare ed ammirare quell’artificioso falso sé che gli abbiamo spacciato come il nostro vero essere.
Discorso intricato, parrebbe. Ma, mi pare, questo è il centro di questo film, in cui il cinema dei supereroi diventa metafora di una immagine superficiale ed obbligatoriamente vincente - ma per alcuni versi anche essenziale e non contorta - che la società della comunicazione pretende da ognuno di noi.

In Birdman c’è infatti una figlia convinta che se non appari, su internet, su Facebook, su Twitter, allora non esisti. Anche in questo caso, ho la sensazione che non ci sia stata neanche troppa forzatura della realtà. Un popolo di bimbiminkia e una moltitudine di leoni da tastiera è convinta che la realtà sia nella rete, nei selfie, nelle votazioni on line, nell’ipocrisia del like, e così via.


E allora, di cosa parliamo, quando parliamo d’amore?
Edward Norton  dando vita a Mike Shiner, il coprotagonista talentuoso, ingestibile, geniale, scorticato (ma fragile in alcuni risvolti, soprattutto nei dialoghi con la figlia di Riggan)ci offre la sua risposta.
Di nulla, parliamo, perché non siamo mai veri. O per lo meno, lui non lo è. O meglio, lo è solo in un attimo preciso, quando è sul palco.
“Solo quando sono in scena sono vero”



Un altro paradossale gioco di specchi e di doppi, per cui solo nella finzione della recitazione Mike è veramente se stesso, mentre nel resto della sua vita recita e indossa una maschera che lo tiene lontano dagli altri.
Il regista ci confeziona un finale aperto, depistante, bara anche un po’ rispetto alla grammatica della narrazione, ma non importa.
Non mi addentrerò nel "come va a finire" per non rovinare la sorpresa, ma mi pare che il centro del film, e il suo cuore caldo, pulsante ed emozionante, sia in questo disperato bisogno d’amore, che, come scrivevano gli Stadio in una canzone di anni fa, non fa dormire.
Salvo essere capaci di dargli un nome, delle coordinate, dei luoghi e delle facce, a questo bisogno. E così, la domanda di Carver si ripropone prepotente come prepotente è l’entrata in scena di Edward Norton.
Di che parliamo quando parliamo d’amore?
Parliamo – mi sento di azzardare - della necessità di essere veri, e di quanto difficile, quasi impossibile sia esserlo in un mondo che ci pretende supereroi senza debolezze e che ci insegna a negare e dissimulare le crepe. Parliamo della necessità, invece, di prendere quelle crepe e mostrarle, sbatterle in faccia ai nostri simili e a chi si candida a volerci bene. Perchè è nella consapevolezza della nostra fragilità che risiede l'unica possibilità di essere amati sul serio.


Quindi, parliamo di essere accettati, probabilmente,
E, un passo dopo, di accettarsi. 
Di essere accolti, mi sento di dire. 
E immediatamente dopo, di accogliersi.
Solo che non è un percorso facile, accettarsi ed accogliersi, e farsi accettare mostrandosi per quel che si è. Cioè di essere poca cosa, alla fine dei conti.
Pieni di limiti, di errori precedenti, che addirittura nel film di Inarritu non sono irreparabili, ed è vero che uno può sbagliare con la moglie, con la figlia, con l’amante, ma può, in definitiva, al netto di un po’ di malinconia e di qualche recriminazione, averle presenti, e con meno spigoli di un maglione d’angora.


E allora, di cosa parliamo, quando parliamo d’amore?
Parliamo, probabilmente, della necessità di fare i conti con la pochezza, di farci pace.
Parliamo della verità dell’uomo, che è sempre qualcosa di molto diverso, mi sembra, da quel che vorrebbe da noi un sistema competitivo per il quale vali perché hai fatto tre Birdman ed hai incassato miliardi, e sei un coglione perché hai rifiutato il quarto. 

Anche se tu non sei, Birdman.

E anche se, a forza di insistere, il mondo ha fatto venire il dubbio perfino a te.

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