giovedì 12 febbraio 2015

LA SOLITA STRADA, BIANCA COME IL SALE. UN URLO DI RIBELLIONE, IN OCCASIONE DEL FESTIVAL DI SANREMO.



Sì, però che noia.

Neanche liberi di non vedere Sanremo, siamo. Sì, perché in questo clima da controriforma, se non guardi Sanremo, o se lo critichi, sei snob, oppure, secondo una definizione che ormai non ha più alcun senso ed è completamente de-semantizzata, sei radical chic.

Mi si dirà: non ti piace? Non guardarlo e non rompere le palle.

Beh, no. Perché Sanremo non è una sagra di paese o un raduno di vecchi nostalgici di Albano e Romina. Sanremo è, ce lo dicono loro e ce lo ripetono ad ogni piè sospinto, il festival della Canzone Italiana.

Che se capisco bene il senso delle parole, ed a volte capita che uno lo colga al di là delle posizioni ideologiche, significa che si tratta di una manifestazione che pretende di rappresentare lo stato dell’arte della musica italiana e di costituirne una vetrina.

E allora no, che non sto zitto. Perché la musica italiana è anche roba mia, non solo delle conventicole di potere e sottopotere, perché da tutta la vita mi illudo che cantare significhi scandire delle parole in buona metrica con una buona divisione ritmica ed in buona intonazione (buona, non pretendo l’intonazione assoluta, altrimenti poi della Pausini che ce ne facciamo?), perché mi pare una legittima pretesa che quelle parole siano appoggiate su una costruzione musicale degna di questo nome e che – non secondario, per me – tutto questo messo insieme (parole, musica, metrica, ritmo ed intonazione) concorra a creare una cosa chiamata canzone che ha lo scopo di emozionare e di comunicare contenuti.

Non necessariamente contenuti politici e sociali, sia chiaro. Diceva John Ford che se avesse dovuto mandare un messaggio avrebbe fatto un telegramma, molto meno costoso di un film, e probabilmente la boutade vale anche per le canzoni.

Ma contenuti umani, intuizioni emozionanti, cuori caldi e pulsanti, quello sì, per dio.

Ora, non dico che non sia capitato, per caso, che qualche evento artistico degno di questo nome abbia calcato, negli ultimi anni il palco di Sanremo. Non dico neanche che quel che vi accade oggi sia a priori da buttare via. Dico che non accetto che la musica italiana sia rappresentata da un piacione lampadato che con tutta evidenza non sa neanche di cosa si stia parlando. Capitemi bene, intendo dire che la musica non è solo un oggetto con il quale riempire i carrelli dei supermercati. E’ qualcosa che ha alle spalle una storia, un apparato di conoscenze, di emozioni, di simbolicità che il nostro conduttore alla brace evidentemente non conosce. Si capisce dal modo in cui ne parla.

Poi naturalmente, in questo clima di “accontentiamoci dell’esistente” si sente dire che è garbato, elegante, che conosce i tempi televisivi, come se essere in gamba a scandire il nulla fosse un’abilità da sottolineare. Come se essere insulsi con garbo fosse più accettabile che farlo con arroganza.

Poi naturalmente, in questo clima di basso impero, le canzoni hanno arrangiamenti che spaccano, suoni della madonna, confezioni raffinatissime. Come se si andasse a cena e si apprezzasse la salsa, visto che la carne è andata a male.

Non capisco, e non reggo alla visione del “Festival della canzone italiana” per più di dieci minuti.

Ma no, non accetto questo gioco alla delegittimazione per cui chi si dissocia è snob, o radical chic. Parole, lo ripeto che non significano più nulla neppure nella bocca di chi le usa, tanto sono prive di significato, se non quello di una polemica vagamente politica, tanto ormai è tutto vago, anche la politica, neanche più si può farne una questione di schieramenti, figurarsi se ne facciamo una questione di contenuti ideali.

Sul palco di Sanremo sono passati “Nel blu dipinto di blu”, “Almeno tu nell’universo”, “Gianna”, “Vacanze romane”, “Vita spericolata”, ed ho detto solo le prime che mi vengono in mente, ma sono certo che me ne verrebbero in mente altre duecento.

E sono passate su quel palco con qualsiasi regime (sì, regime…) e con qualsiasi clima culturale. Quindi, non è affatto una questione di snobismo o di politica. Mi si dice (non l’ho visto, ma non ho difficoltà a crederlo) che la performance di Tiziano Ferro sia stata notevole. Beh, a prescindere dal fatto che ti piaccia il genere che canta e suona, Tiziano Ferro è insindacabilmente un artista. Non un fenomeno da baraccone come troppi altri sulla passerella del conduttore bruschettato.

Non pretendo di avere soluzioni, non sarò io a dire la cosa definitiva su Sanremo.
Ma a me, se Albano e Romina si amano, non me ne frega niente.

Se Concita Wurst è o non è gay, beh, not my cup of tea.

L’unico modo che riesco a concepire per vedere questo Festival è guardarlo per ridere delle maschere che si alternano sul palco. Guardarlo come si guarda la donna con la barba o il nano più alto del mondo nelle fiere dell’est. Dove non a caso, per due soldi si possono comprare solo topolini dalla vita breve.

Se no, l’alternativa è non guardarlo, ma senza dover sopportare lo snobismo di chi etichetta come snob chi non canta col coro.

Quello sì, vorrei esprimerlo.

Ecco, l’ho detto, mi stava sul gozzo da giorni. Ora apro le falde della camicia ed aspetto la raffica del fuoco di sbarramento.

Ma spero mi sia risparmiata l’accusa di snobismo, almeno quella.

Ma credetemi: l’imperatore è nudo.

Sì.

L’imperatore è nudo.

E allora.

Guardi Sanremo chi vuole guardare (questo) Sanremo.

Per gli altri, almeno la libertà di dire: cambio canale, esco, vado al cinema, a teatro.

O mi ritiro in campagna.

Come ha fatto Gaber.

Ora, chi sparerà, miri a cuore, per favore.

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