Sì, però che noia.
Neanche liberi di
non vedere Sanremo, siamo. Sì, perché in questo clima da controriforma, se non guardi Sanremo, o se lo
critichi, sei snob, oppure, secondo una definizione che ormai non ha più alcun
senso ed è completamente de-semantizzata, sei radical chic.
Mi si
dirà: non ti piace? Non guardarlo e non rompere le palle.
Beh, no. Perché Sanremo
non è una sagra di paese o un raduno di vecchi nostalgici di Albano e Romina.
Sanremo è, ce lo dicono loro e ce lo ripetono ad ogni piè sospinto, il festival
della Canzone Italiana.
Che se capisco
bene il senso delle parole, ed a volte capita che uno lo colga al di là delle
posizioni ideologiche, significa che si tratta di una manifestazione che
pretende di rappresentare lo stato dell’arte della musica italiana e di costituirne
una vetrina.
E allora no, che
non sto zitto. Perché la musica italiana è anche roba mia, non solo delle
conventicole di potere e sottopotere, perché da tutta la vita mi illudo che
cantare significhi scandire delle parole in buona metrica con una buona
divisione ritmica ed in buona intonazione (buona, non pretendo l’intonazione
assoluta, altrimenti poi della Pausini che ce ne facciamo?), perché mi pare una
legittima pretesa che quelle parole siano appoggiate su una costruzione
musicale degna di questo nome e che – non secondario, per me – tutto questo
messo insieme (parole, musica, metrica, ritmo ed intonazione) concorra a creare
una cosa chiamata canzone che ha lo scopo di emozionare e di comunicare
contenuti.
Non necessariamente
contenuti politici e sociali, sia chiaro. Diceva John Ford che se avesse dovuto
mandare un messaggio avrebbe fatto un telegramma, molto meno costoso di un
film, e probabilmente la boutade vale anche per le canzoni.
Ma contenuti
umani, intuizioni emozionanti, cuori caldi e pulsanti, quello sì, per dio.
Ora, non dico che
non sia capitato, per caso, che qualche evento artistico degno di questo nome
abbia calcato, negli ultimi anni il palco di Sanremo. Non dico neanche che quel
che vi accade oggi sia a priori da buttare via. Dico che non accetto che la
musica italiana sia rappresentata da un piacione lampadato che con tutta
evidenza non sa neanche di cosa si stia parlando. Capitemi bene, intendo dire che
la musica non è solo un oggetto con il quale riempire i carrelli dei
supermercati. E’ qualcosa che ha alle spalle una storia, un apparato di
conoscenze, di emozioni, di simbolicità che il nostro conduttore alla brace
evidentemente non conosce. Si capisce dal modo in cui ne parla.
Poi
naturalmente, in questo clima di “accontentiamoci dell’esistente” si sente dire
che è garbato, elegante, che conosce i tempi televisivi, come se essere in
gamba a scandire il nulla fosse un’abilità da sottolineare. Come se essere
insulsi con garbo fosse più accettabile che farlo con arroganza.
Poi
naturalmente, in questo clima di basso impero, le canzoni hanno arrangiamenti
che spaccano, suoni della madonna, confezioni raffinatissime. Come se si
andasse a cena e si apprezzasse la salsa, visto che la carne è andata a male.
Non
capisco, e non reggo alla visione del “Festival della canzone italiana” per più
di dieci minuti.
Ma no,
non accetto questo gioco alla delegittimazione per cui chi si dissocia è snob, o
radical chic. Parole, lo ripeto che non significano più nulla neppure nella
bocca di chi le usa, tanto sono prive di significato, se non quello di una
polemica vagamente politica, tanto ormai è tutto vago, anche la politica,
neanche più si può farne una questione di schieramenti, figurarsi se ne
facciamo una questione di contenuti ideali.
Sul
palco di Sanremo sono passati “Nel blu dipinto di blu”, “Almeno tu nell’universo”,
“Gianna”, “Vacanze romane”, “Vita spericolata”, ed ho detto solo le prime che
mi vengono in mente, ma sono certo che me ne verrebbero in mente altre
duecento.
E sono
passate su quel palco con qualsiasi regime (sì, regime…) e con qualsiasi clima
culturale. Quindi, non è affatto una questione di snobismo o di politica. Mi si
dice (non l’ho visto, ma non ho difficoltà a crederlo) che la performance di
Tiziano Ferro sia stata notevole. Beh, a prescindere dal fatto che ti piaccia
il genere che canta e suona, Tiziano Ferro è insindacabilmente un artista. Non
un fenomeno da baraccone come troppi altri sulla passerella del conduttore bruschettato.
Non
pretendo di avere soluzioni, non sarò io a dire la cosa definitiva su Sanremo.
Ma a me, se Albano e Romina si amano, non me ne frega niente.
Ma a me, se Albano e Romina si amano, non me ne frega niente.
Se
Concita Wurst è o non è gay, beh, not my cup of tea.
L’unico
modo che riesco a concepire per vedere questo Festival è guardarlo per ridere
delle maschere che si alternano sul palco. Guardarlo come si guarda la donna
con la barba o il nano più alto del mondo nelle fiere dell’est. Dove non a
caso, per due soldi si possono comprare solo topolini dalla vita breve.
Se no, l’alternativa
è non guardarlo, ma senza dover sopportare lo snobismo di chi etichetta come
snob chi non canta col coro.
Quello
sì, vorrei esprimerlo.
Ecco, l’ho
detto, mi stava sul gozzo da giorni. Ora apro le falde della camicia ed aspetto
la raffica del fuoco di sbarramento.
Ma spero
mi sia risparmiata l’accusa di snobismo, almeno quella.
Ma
credetemi: l’imperatore è nudo.
Sì.
L’imperatore
è nudo.
E
allora.
Guardi
Sanremo chi vuole guardare (questo) Sanremo.
Per gli
altri, almeno la libertà di dire: cambio canale, esco, vado al cinema, a
teatro.
O mi
ritiro in campagna.
Come ha
fatto Gaber.
Ora, chi sparerà, miri a cuore, per favore.
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