“Ma nella musica, chi decide chi
è bravo? Non è una cosa soggettiva?”
“No.”
Siamo
all’incirca al minuto trenta di Whiplash, un piccolo delizioso film sul jazz di
Damien Chazelle che ha trionfato al Sundance festival, e sullo schermo del
cinema fiorisce questa battuta.
Anche il
contesto in cui sboccia, una soffocante riunione di famiglia, è un contesto
significativo.
Nel
film, una piccola storia di formazione che ruota attorno al rapporto allievo
maestro in un conservatorio dove si insegna musica jazz, il protagonista Andrew
Neimann, che è l’allievo (ben messo in scena da Miles Teller), è a pranzo con la
famiglia, e deve subire – come milioni di altre volte nelle riunioni di
famiglia, intuiamo - la santificazione dei due cugini, che stanno riscuotendo
successo in campi più accettabili e riconosciuti: l’uno è campione di rugby in
terza divisione, pensa un po’, l’altro ha ottenuto una borsa di studio come
ricercatore universitario.
Insomma,
si sottintende in famiglia, ma nemmeno troppo, son ragazzi con la testa sulle
spalle che si dedicano a cose importanti, e che non perdono tempo con le favole
e i sogni, come invece fa il cugino Andrew, che frequenta una scuola nella
quale si impara a suonare.
E a
nulla vale protestare che la “scuola” è il conservatorio di New York, dove
prendono i migliori, ed anche che lui è tra i più bravi del corso.
Perché per
i suoi familiari, pratici esponenti della middle class americana ma in
definitiva di qualsiasi posto del mondo, la musica è solamente un giochino, un
passatempo, è il luna park del “secondo me” e del “a mio avviso”, “i gusti sono
gusti” e via così luogocomunizzando…
…come
troppe volte capita di ascoltare anche da noi, per esempio in questi tempi di
Sanremo. Come se non ci fosse un criterio oggettivo di valutazione, come se il
criterio del consenso generalizzato fosse un criterio definitivo.
Eppure,
a sentire Anatole France,
Se un milione di persone crede in
una stupidaggine, rimane una stupidaggine.
Beh, nel
mondo moderno, ed in particolare nel mondo della musica, pare proprio di no.
Insomma,
al minuto trenta di questo bel film (un piccolo film, girato con un piccolo
budget, che toglie l’alibi dei soldi, dietro alla mancanza dei quali si
trincera la poca voglia di azzardare italiana), nel bel mezzo di quel confronto
familiare che dicevamo, esplode come un fuoco artificiale questo scambio di
battute.
“Ma nella musica, chi decide chi
è bravo? Non è una cosa soggettiva?”
Dice il
cugino, quello socialmente realizzato, quello che fa il quarterback in una
squadra di terza categoria ed è convinto di avere davanti uno sfigato che perde
tempo a suonare le musichette.
“No.”
Risponde
serafico Andrew Neimann, e in quel no c’è tutta la sua voglia di rivendicare
una diversità, di proclamarsi di un’altra razza, magari emarginata, ma meglio
così.
Perché no,
Santoddio, la musica non è una cosa soggettiva.
No, Santoddio.
Non si diventa musicisti andando a piangere da Maria o stonando su un palco
televisivo.
No,
Santoddio. E se una cosa così evidente bisogna anche spiegarla, beh…
L’unico
che mi viene in mente, che abbia saputo dire bene questa cosa, questo
atteggiamento (che se è snob, pazienza, di qualcosa si deve pur morire…) è
Vasco Rossi, nella sua “Mi si escludeva”:
Mi ricordo che sì, si escludeva
per motivi che
oggi fanno solo ridere
mi ricordo che sì, si escludeva
per primi quelli che
facevano paura: chissà perché?!?
mi ricordo che sì, si escludeva
... sempre il più debole
mi ricordo che "non si voleva"
però neanche i più brutti come me......
E avanti così...
facciamo due comunità diverse
facciamo due comunità diverse
facciamo due comunità diverse!
per motivi che
oggi fanno solo ridere
mi ricordo che sì, si escludeva
per primi quelli che
facevano paura: chissà perché?!?
mi ricordo che sì, si escludeva
... sempre il più debole
mi ricordo che "non si voleva"
però neanche i più brutti come me......
E avanti così...
facciamo due comunità diverse
facciamo due comunità diverse
facciamo due comunità diverse!
Nel “no”
con cui Andrew risponde alla domanda sciocca di suo cugino, c’è una
dichiarazione di diversità del musicista, quello vero, che arriva giusta, che
aspettavo da tempo.
E allora
non posso fare a meno di esultare.
Finalmente,
Santo Iddio. Finalmente qualcuno l’ha detto. Basta, con la dittatura dei
numeri. Ci sono dei fatti oggettivi che quantificano e identificano il talento.
E c’è un
prezzo da pagare, per seguirne i dettami.
Sì.
Perché Whiplash è un film sul talento.
Sulla
musica, ma, inevitabilmente, sul talento.
Che non
è quella parola inglese, talent, che compone insieme a show la peggior jattura
che la musica abbia dovuto sopportare dai tempi dei tamburi tribali.
No, il
talento non è quello dei talent show.
E
neanche quello del televoto.
O
meglio, Whiplash è un film sulla fatica che pretende il talento. E non solo quello
musicale.
Il titolo, Whiplash, viene da un brano di Hank Levy, universalmente riconosciuto come uno dei primi esempi di Jazz-rock, cioè di quel territorio di confine dove la musica colta ha cercato di mescolarsi con quella dei giovani e giungere a più ascoltatori possibile.
Riuscendoci, per un breve periodo.
Ed ecco che anche questo piccolo indizio ci dice che la domanda di fondo è come il talento si possa coniugare con l'essere popolare, percepibile, e alla portata di tutti.
Sfida interessante, e difficile da vincere.
Il
talento, in questo piccolo film, è quella cosa bruciante che spinge Andrew a
suonare la batteria finché non gli sanguinino le mani, che lo convince a
rinunciare ad una storia d’amore, perché la vocazione a pestare i tamburi è
troppo più grande, e non lascia posto per altro, nel cuore e nel cervello.
E’ una
cosa imprevedibile, che ti prende e ti conduce altrove e di solito lo fa senza
chiederti il permesso.
E
invece, dice il professor Fletcher, magistralmente messo in scena da J. K.
Simmons quasi con rassegnazione, ormai le aule del conservatorio sono invase da
giovani dalle scarse motivazioni e dalla scarsa voglia di faticare, per
diventare bravi.
E
verrebbe da dire: professor Fletcher, venga a dare un’occhiata qui da noi.
Il
burbero, quasi mefistofelico docente del conservatorio è il deuteragonista di
questa storia. Il custode di soglia di un’arte che pretende tutto, un custode
spietato e totalitario, senza mezze misure. Uno che assomiglia talmente tanto
al sergente di Full metal jacket da chiamare uno dei suoi trombonisti “palla di
lardo”.
Lo odiamo, assieme ai suoi studenti, quando li porta alle lacrime
insultandoli e minacciandoli. Lo disprezziamo quando fa scempio dei sogni di
Andrew cacciandolo dal conservatorio.
Ma lo
capiamo quando ci dice – e dice al suo allievo – che quella è la sua missione:
ribadire, in un mondo in cui suonare e cantare è diventato l’optional, che l’arte,
e il talento, sono dedizione, e fatica, e forse dolore.
E
infine, lo adoriamo, il professor Fletcher, nella scena finale, in cui in uno
sguardo solo passa dall’odio al rancore allo stupore ed infine all’amorevole
riconoscimento di identità: alla consapevolezza di avere di fronte, finalmente,
un altro musicista come lui.
E se di
due comunità diverse si sta parlando, Fletcher e Andrew stanno nella stessa.
Ecco cos’è
il talento di cui parla il film: qualcosa che si conquista e che pretende. Ma
qualcosa che quando si è raggiunto, allora non lo devi più spiegare.
“Ma nella musica, chi decide chi
è bravo? Non è una cosa soggettiva?”
“No.”
No che
non lo è. Il talento è una cosa oggettiva, è una cosa tremendamente
quantizzabile e verificabile, anche se generazioni di Carloconti (e molti altri
prima di lui) ci vogliono convincere che alla fine volemose bene, tutto
equivale a tutto, i gusti sono gusti, e ancora più alla fine, che se tanti milioni di mosche amano la
cacca non possono essersi sbagliate.
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