Il primo giorno di guerra, era il 23 Maggio 1915,
anche quello me lo ricordo bene. Eh sì. Me lo ricordo bene perché quella
mattina mi è piovuto in testa un pensiero che lì per lì mi è sembrato stupido.
Cioè, aspetta che mi spiego: quando ho sollevato gli occhi al cielo, dopo aver
bevuto il caffè, ho pensato che era uguale a quello del giorno prima. Che se
non lo avessi saputo prima, per dire, che c’era la guerra, dal colore del cielo
non lo avrei capito. E neanche dalla forma delle nuvole, o dalle cime degli
alberi. Eravamo affacciati sul ciglio dell’estate, e sui rami c’era pieno di
foglie che sembrava una festa. E invece quel giorno era iniziata la guerra, e
nel cielo non c’era nessun segno.
Se ci ripenso, quel pensiero tanto stupido non era.
Ho scelto
uno stralcio a caso – forse non così tanto a caso… - da “1261 giorni di guerra”,
andato in scena Sabato 28 Marzo 2015 per la prima volta a Montefano, teatro La
Rondinella. Non c’ero, tra il pubblico,
come decine di altre volte, per decine di altri testi. Stavolta non ho potuto
essere presente, eppure quanto c’ero, con la testa, col cuore. Soprattutto perché,
al di là del significato che ha per me questo testo, ero emozionato anch’io assieme a 12
esordienti che per la prima volta calcavano le tavole del palcoscenico. Gli
esordienti sono gli allievi di un complice di mille imprese, quel grande attore
di Luca Violini, col quale – faccio un conto a memoria e di certo sbaglio per
difetto – ho già messo in scena una decina di testi. Stavolta abbiamo
raccontato la storia di un vecchio postino – proprio Luca - che consegna
lettere ogni mattina in un paesino dell’alto Friuli durante quegli
interminabili 1261 giorni di follia e di morte asservita alle ragioni dei
potenti, e le voci di quelle persone travolte dai marosi di una guerra
raccontata come “di popolo” e nata probabilmente nelle cancellerie di mezza
Europa.
Mi è tornato in mente un flash di tanti, troppi anni fa, una compagnia amatoriale all'ombra del castello di Lerici, dove assieme a Paolo Cabano, Memi Passalacqua, Beppe Meconi, Caterina Perazzo, e molti altri, mettevamo in scena, con entusiasmo e con senso dell'ideale delle farse in dialetto lericino. E io il lericino non lo conoscevo, però che brividi. Che bello. Credo che parte della decisione di dedicare la vita a questo sia nata là, nella culla di un'amicizia bella, sul principio degli anni ottanta.
Mi è tornato in mente un flash di tanti, troppi anni fa, una compagnia amatoriale all'ombra del castello di Lerici, dove assieme a Paolo Cabano, Memi Passalacqua, Beppe Meconi, Caterina Perazzo, e molti altri, mettevamo in scena, con entusiasmo e con senso dell'ideale delle farse in dialetto lericino. E io il lericino non lo conoscevo, però che brividi. Che bello. Credo che parte della decisione di dedicare la vita a questo sia nata là, nella culla di un'amicizia bella, sul principio degli anni ottanta.
Prima della
rappresentazione ho telefonato a Luca ed ho chiesto di essere messo in viva
voce, per parlare con tutti, proprio tutti i dodici, che cito qui uno per uno: Domenico Amori, Stefania
Terrè, Anna Rita
Cesaretti, Annalisa Galeazzi,
Marco
Mondaini, Claudio Marchetti, Annamaria Cipolloni,
Rosanna Renzi,
Stella Dimare, Luca Bassi Andreasi,
Raphaela Dubbini,
Luisa Mazzocchi,
e con Riccardo Rocchetti che ha governato il suono di 13 voci in scena. Ho
sentito, dall’altra parte del telefono, delle risatine nervose e tese, che
conosco bene.
Non c'è niente da fare, il teatro è peggio dell'antrace, molto più spietato della coca. Più immediato di un fulmine a ciel sereno. Ti prende e ti mangia. E lo fa per sempre.
Non c'è niente da fare, il teatro è peggio dell'antrace, molto più spietato della coca. Più immediato di un fulmine a ciel sereno. Ti prende e ti mangia. E lo fa per sempre.
Però che bello, che
magia il teatro. Perché sa darti queste sensazioni e queste emozioni - e chi te
le ripaga?
Così ho voluto
fare un omaggio, con un po’ di invidia a quei dodici, che provano sensazioni –
andare in scena – che sono sempre insostituibili, ma di più quando accade la
prima volta. E allora mi è venuto in mente che solo la passione può convincerti
a vivere di parole, o di teatro, o di cinema, o di idee in un mondo di piani di
marketing e triadi, quando non di – per dirla con Edoardo Bennato – impresari di
partito.
E allora mi è
venuta in mente, da un’altra parte d’Italia, ma non con minore passione, un’altra
iniziativa: LA CULTURA IN PIAZZA – FESTIVAL DELLA CULTURA INDIPENDENTE, che si
svolge a La Spezia, dove sono nato…
…piccola città, bastardo posto…
…e che vede
impegnarsi tanti amici che, anche loro, si sono scoperti incapaci di vivere
senza le emozioni e i brividi che ti regala crear parole, disegnare idee, mettere
in scena sogni.
Ora, ognuno di noi sa quanto è difficile far cultura in Italia. Non tanto e non solo per la pochezza miope ed ottusa delle istituzioni, anche e soprattutto, non nascondiamoci dietro un dito, perchè il cittadino medio si ciba di reality, di mariedefilippi, e altre amenità simili. Soprattutto perchè, se parli con un produttore, spesso e volentieri ti senti dire: "Sì però niente di complicato, che il periodo è difficile, la gente ha voglia di ridere"...
Ora, ognuno di noi sa quanto è difficile far cultura in Italia. Non tanto e non solo per la pochezza miope ed ottusa delle istituzioni, anche e soprattutto, non nascondiamoci dietro un dito, perchè il cittadino medio si ciba di reality, di mariedefilippi, e altre amenità simili. Soprattutto perchè, se parli con un produttore, spesso e volentieri ti senti dire: "Sì però niente di complicato, che il periodo è difficile, la gente ha voglia di ridere"...
Voglio
fare un augurio anche a loro, che saranno in piazza, nei locali che hanno
scelto di ospitarli, dal 10 al 19 Aprile 2015:
La cultura dovrebbe sempre essere indipendente,
cioè, letteralmente, non dipendere da nulla. Da null'altro che dalla passione.
E alla testa di questa iniziativa vedo persone - alcune che conosco bene, mi
azzardo a dire amici - che di passione ne hanno, da vendere. Forse è che la
passione difficilmente si coniuga con le direttive e gli schieramenti, che è
difficile emozionarsi quando operare nella cultura diventa solo gestione del
potere o apologia dell'esitente. Quando non diventa, peggio ancora, la presa di
distanza di politici sedicenti pragmatici che si nascondono dietro "la
cultura non dà il pane". E allora ben vengano i corsari, ben venga questa
ciurma di pirati che si ricorda che dalle nostre parti i pirati c'erano
davvero, e ben difficilmente finivano la carriera nella regia marina, agli
ordini di un ufficiale di sangue reale. E allora auguri Fabio, Katia, Paola,
Irene, Annamaria. Auguri amici miei. Spero che tutto questo lavoro scuota un
po' di anime spezzine, notoriamente refrattarie e conformiste. Perchè c'è
bisogno degli indipendenti, dove i dipendenti stanno arroccati sulla gestione
del possibile. (Sembra un augurio criptico, ma pensateci bene, non lo è così
tanto)
E’ poco, lo so,
è poco. E’ il contributo di uno spezzino in esilio, che è scappato da una città
dove non trovava nulla in cui radicare il suo sogno. Quindi guardo con
ammirazione loro, che continuano a lottare in un ambiente ostico.
Oggi voglio
dedicare a quei dodici di Montefano, e quel manipolo di pirati di La Spezia il
mio augurio che l’attesa generi sogni, una volta ogni tanto.
L’attesa. Questo è il sentimento che ho sentito
nell’aria, allo spalancarsi di ogni uscio, in ogni occhiata: l’attesa.
Qualcosa è cambiato,
improvvisamente, mentre i giovani – che prima erano Nello, Zeno, Ario –
improvvisamente diventavano fanti, alpini, artiglieri, fucilieri. Sono partiti
una mattina con la roba che avevano addosso e un sacchettino con qualche fetta
di pane, e improvvisamente per le strade del paese è calato il silenzio.
Era il rumore dell’attesa.
Dell’attesa, e della paura.
E della colpa.
Sì, della colpa, non mi sono sbagliato. Ci si sente in
colpa, augurandosi che il proprio figlio, marito, fidanzato, torni a casa sano.
Vedete, noi sappiamo poco di cosa succede là fuori,
lassù sull’altopiano, oltre i fiumi, sulle montagne. Nessuno ci dice nulla,
nessuno di racconta nulla. Sappiamo solo che ci sono i nostri ragazzi, lassù:
Nello, Zeno, Ario, uomini, mariti, figli, e sappiamo anche che non torneranno
tutti, a casa.
Ognuno di noi, lo sappiamo tutti, spera che non tocchi
a lui.
C’è un brivido di vergogna, in quel pensiero. Perché
implica il fatto che toccherà ad un altro, sarà dolore per qualcun altro, ed è
brutto augurarselo, ma il dolore va cacciato con tutte le forze, via, via da
questa casa.
E se è l’unico modo che non mi sfiori, che tocchi agli
altri.
Ci si sente meschini, scoprendosi dentro questo
pensiero.
Ci si sente fragili.
Eppure, ci si sente umani.
(da “1261 giorni di Guerra)
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