LIKE AN HURRICANE
Stavolta voglio raccontare di
Mauro, che mi è piovuto in testa in un momento qualunque di una giornata qualsiasi, chissà
da dove, e perché. Talmente piovuto che di lui non ricordo neanche il cognome.
Era una di quelle primavere percorse
da troppa retorica e frasi fatte, come possono essere solo ad un certo punto
della vita – a quel punto lì – una di quelle primavere fatte di fiori gialli e
ormoni e brufoli. Sulle magliette portavamo le facce giovani di divi del rock, che
allora giovani lo erano davvero.
Aspetta. Non lo so se è andata
veramente così, se i particolari sono esattamente questi, se qui e là non ho
ceduto alla tentazione di abbellire. Ma cosa importa? Questa è la storia come è
riaffiorata da non-si-sa-dove, appesa ad una canzone di Neil Young…
…Once I thought I saw you in a
crowded hazy bar,
dancing on the light from star to star...
…ma il succo c’è tutto.
…
Ok, va bene. Magari qualche
cosetta qui e là l’ho aggiustata, ma è il ricordo, che fa questi scherzi, no?
E quindi.
Era una di quelle primavere fatte
di sigarette fumate con rabbia, che senza preavviso si travestono da promessa d’estate,
e ti fanno sussultare il cuore in gola. Sullo scalino della chiesa, Patrizia –
anzi la, Patrizia, con l’articolo - suonava la chitarra. Era la fine di Aprile,
e le rondini urlavano nel cielo e I bambini sembravano impazziti, mentre
giocavano a calcio in strada e tiravano pallonate rumorose contro la
saracinesca del garagista, che era la porta di un campo che si estendeva per
traverso in via Marco Federici. Ma Patrizia suonava lo stesso, con quella sua chitarra
con le corde di nylon. Conosceva solo La, Re, e Mi. Naturalmente maggiore, giro
di La, o un’altra di quelle tonalità che non si deve imparare a fare il barrè.
Mi sarei chiesto, parecchi anni
dopo, e continuo a chiedermelo anche adesso, senza miglior fortuna, se ci fosse
una ragione precisa per cui in quella primavera l’aria, verso l’ora di cena
avesse quel profumo deciso di futuro. Questa è solo una delle domande a cui
ancora non so dare una risposta.
Ma ci sto lavorando.
Di certo, in quello scampolo di
primavera che si spalancava sugli anni ottanta ci piaceva passeggiare, alla
fine del pomeriggio, andando verso Via Chiodo e il lungomare, per fermarci a
lungo davanti alle vetrine dei negozi di dischi a fissare e valutare le
copertine dei vinili, come se quelli potessero suonare da dietro il cristallo e
raccontarci le loro storie solo guardandoli.
Di certo eravamo convinti - e
forse avevamo ragione, è adesso che abbiamo torto - che il rock and roll avrebbe
cambiato il mondo. Altrettanto di certo, ci stavamo organizzando per capire
come, lo avrebbe cambiato.
Per esempio, con le scale
pentatoniche.
Eh, quelle sì.
Le pentatoniche. Ci misi un certo
tempo capire che le dita non dovevano aggrapparsi alle corde come fossero pioli
– appunto, di una scala – ma pattinare da una cromatica all'altra come scivolassero
sul sapone e cercassero un posto dove fermarsi, a fine dirupo.
Per esempio, il futuro.
Eh beh, quello pretendeva una
risposta.
Perché vedete, non è mica vera
quella storia che a vent'anni si è stupidi davvero.
Balle.
A vent'anni ci si interroga
ossessivamente sul senso di tutto. O almeno, quella volta lì era così, in
quello scampolo di primavera in cui le mattinate passate sui libri sembravano
sprecate. Forse per questo, per il rincorrersi di quelle domande troppo grandi
per sperare in una risposta, o per stanchezza o per frustrazione, piano piano
si finisce per dimenticarsene, di quella litania di dubbi per le quali si sta svegli
la notte, con la cuffia in testa per non svegliare gli altri, e dentro la cuffia
Like an Hurricane.
I am just a dreamer, but you are just a dream,
You could have been anyone to me.
E non eravamo sicuri, neanche
pensandoci bene, che Neil Young stesse parlando di una donna. O di un uomo.
Perché l’incessante ripetersi di
quella preghiera frustrata spiegami chi
sono, spiegami dove vado, spiegami perché a poco a poco avrebbe lasciato il
posto, a volte, non tanto alla rassegnazione - che per lo meno avrebbe il senso
di un bilancio - ma molto peggio alla dimenticanza di sé. Che poi, mi spiegava
il mio amico Roberto che aveva studiato – come me, ma lui le cose se le
ricordava – tutto questo aveva a che fare anche con Pavese e col vizio assurdo
e quelle cose lì.
Ma in quella primavera che – mi
pare di ricordare – aveva il profumo degli aranci selvatici che crescevano
lungo Corso Cavour, tutto questo pareva inammissibile. Allora si guardava oltre
il crinale di domani, certi che il mondo sarebbe cambiato, e come no. Certi che
era solo questione di aspettare il momento.
I tempi, lo sapevamo bene,
stavano cambiando. Lo cantavano tutti, e se lo cantavano tutti voleva dire che era vero. Salvo che lo facevano, in quella primavera alla fine degli
anni settanta, ormai da un decennio, senza che nulla accadesse, a provare che
era tutto vero.
Renzo e Mauro loro sì, che
sapevano suonare la chitarra. Mauro più di Renzo, a dir la verità, con quella sua faccia tonda e paciosa e quella
pelle olivastra e quei capelli di carbone da ragazzo del sud nato per caso, o
per emigrazione, sulle rive del Golfo.
Avevano un gruppo, loro due, vattelapesca
come si chiamava, e suonavano country, e soprattutto Neil Young, che a quei
tempi, anche lui come tutte le altre rockstar, era giovane sul serio, e non solo di nome.
Oggi si direbbe che erano una
cover band, ma allora erano solo dei tizi che suonavano Harvest come se fosse
il disco.
Erano bravi, e i chitarristi
negati come me, prigionieri degli accordi naturali, li guardavano con invidia e
desiderio. Perché, anche se ci sarebbero stati ancora mille anni per provare scale
pentatoniche e quinte diminuite, per il momento pendevamo dalle loro corde, e
loro avevano in mano la chiave del mondo.
Renzo indossava un look
pre-grunge – camicia a scacchi e maglietta - che sarebbe sopravvissuto alle
mode e alla pioggia di Seattle. Girava per strada con la chitarra a tracolla, e
suonava sempre. Dei due era quello che conoscevo meglio, anche perché, per un certo periodo, abbiamo
frequentato lo stesso giro di amicizie che si avviluppava attorno ad una radio
locale.
Eravamo pazzi, oh, sì.
Si passavano serate seduti sul
muretto a guardare i fari delle macchine che si rincorrevano sull'Aurelia verso
la Foce e parlavamo di musica totale, che ancora oggi mi chiedo cos'è, di regia
del collettivo e di musica commerciale e musica di lotta. E poi ci si chiede
come mai uno viene su storto. Per forza.
In radio, Rossana era capace di
fare una intera puntata sul “Tema della morte nelle canzoni di Branduardi”, e
nessuno che si desse una grattatina, neanche di nascosto. E poi arrivava
Roberto e le metteva su Bennato, e lei si arrabbiava.
Oh, sì, che eravamo pazzi, come
no. Come tutti, prima o poi.
La radio. Si trasmetteva da uno
stanzino alla base del campanile e si stava molto stretti, e la notte si
lasciava aperta la porta di metallo che sigillava il pertugio per fare entrare
aria, che si soffocava, là dentro. E in certe sere di quella primavera che
scivolava veloce verso l’estate come uno slittino su un crinale innevato,
avevamo fatto girare sul piatto Neil Young, così, come uno sberleffo al futuro.
Far across the moonbeam
I know that's who you are,
I saw your brown eyes
turning once to fire.
I know that's who you are,
I saw your brown eyes
turning once to fire.
C’era un pianoforte, nell'anticamera che portava allo stanzino dove stavamo seppelliti a trasmettere, che ci
ostinavamo a chiamare Radio Liguria 91. E Riccardo si lamentava che le cose
migliori del giovane Nello erano per chitarra e lui, che aveva confidenza coi
tasti neri e bianchi, non poteva suonarle. Così ripiegava su Antonello
Venditti, che lo capirete bene, non era la stessa cosa.
Ma parlavamo di Mauro, e della
sua chitarra. Una Gibson Les Paul, me la ricordo bene, o forse no, forse è uno
scherzo del ricordo ma è comunque così che deve essere. Non lo conoscevo bene, Mauro, lo
guardavo da lontano, ma era affascinante, con quel sorriso semplice e piano, nulla
di costruito, con quei capelli corti, che allora erano una stravaganza, con
quella faccia aperta da contadino calabrese che per qualche incomprensibile
motivo si intonava perfettamente con le parole di un canadese scorbutico e
capellone – come si diceva allora - scappato via da casa per approdare in
California.
Parole nate lontano, quelle che
cantava accompagnandosi con la sua chitarra, scritte sulle rive di un altro Golfo dall'altra parte del mondo, affacciato sul Tropico, che Mauro indossava con una
naturalezza che spiazzava, senza capelli sugli occhi, senza sguardi torvi e
senza lo spleen che - in quella primavera odorosa di mare e di idrocarburi - sembrava
necessario per essere credibili.
Ma c’era qualcosa, una pace, una
serenità, un appagamento, nel sorriso di Mauro, di cui già allora mi sentivo
orfano. Capiamoci, quella primavera si infilava in un periodo in cui il
rodimento di culo era all'ordine del giorno. In cui l’estraneità col mondo e la proclamazione della propria differenza, della propria sradicata dissociazione
erano condizione necessaria.
Ma, lo avremmo capito poi, non
sufficiente.
Mauro, invece, fatico a
ricordarmelo senza sorriso. Era così ineffabile e lontano, nel mio ricordo.
Eppure, in tutto questo, non ricordo di essermi mai chiesto fino in fondo quale
fosse il segreto di quella pace che portava in giro per il mondo. Anche quando
suonava. Non suonava rabbia, che pure, in quella primavera di allora come oggi,
era sacrosanta. Suonava gioia.
Ecco, questo era nuovo. Così
nuovo che mi sono dimenticato di chiedergli il perché.
Ma erano bravi, dio. Davvero
bravissimi. E noi adoravamo Neil Young.
E così capitava che quando
suonavano, Mauro, Renzo e il gruppo, di solito in qualche sala parrocchiale, era
una specie di happening di provincia, provincia profonda, sonnacchiosa,
esasperante e soffocante, ma lo avremmo saputo dopo.
E capita che ad un certo punto
gira la voce, e girano dei manifesti scritti a mano, che dicono che loro
avrebbero suonato al Don Bosco, un cinema parrocchiale, d’accordo, ma grosso,
per una città piccolina, bastardo posto in cui cercare di crescere. Insomma,
come si direbbe ora, un evento. Allora, era un “momento di ascolto”, come lo
chiamava Vladimiro. Eravamo bravi, a dare alle cose nomi burocratici da verbale
di condominio. Forse nell'illusione che diventassero più credibili se avevano
vagamente un sapore di istituzionale. Salvo che poi li accoppiavamo colla
sistematica negazione di qualsiasi istituzione.
Ora non mi ricordo più perché, ma
ci pareva che in questo ci fosse un senso.
Dicevamo di Mauro, della sua
chitarra, e del Cinema Don Bosco.
Quella sera c’eravamo tutti,
intellettuali in scarpe da ginnastica, panciotti trapunti di spilline e vinili
sotto braccio, perché come fai a separartene mentre fai una passeggiata in centro? E se non te ne separi per passeggiare, figurati se lo fai ad un
concerto.
Di cover di Neil Young, per
giunta. Quella sera le copertine di Zuma
e After the gold rush si sprecavamo.
E però.
Quella sera, seduti composti
sulle poltrone in velluto rosso del cinema, abbiamo per un attimo giocato a
Woodstock. Anche se erano passati più di dieci anni da Woodstock, ma si sa, le
cose in Italia arrivano in ritardo, figuriamoci a La Spezia. Anche se alcuni di
noi erano lì – forse molti, a giudicare da come è andata poi – solo perché c’erano
gli altri.
Ma questa è un’altra storia ancora.
Ma questa è un’altra storia ancora.
Ora raccontiamo questa, per come
me la ricordo o per come me la voglio ricordare, e se qualcuno si ricorda
meglio non me lo dica, se non è andata così.
Quella sera ad un certo punto
della scaletta, Mauro dice che è arrivato il momento di “Like an Hurricane”.
Oh, sì. L’uragano di quella elettrica solista che scandisce in note lunghe,
tirate, un’angosciosa richiesta di qualcosa che ti travolga la vita.
Di qualcosa che te la cambi, per
dire.
Nel mio ricordo, le luci del
palco erano rosse, in quel momento. E tutto sembrava immerso in una pozzanghera
sanguigna, e violenta. E sopra quella nuvola rossa in cui stavamo evaporando
tutti, c’era la chitarra di Mauro, e quel grido angoscioso in cui ognuno di noi
voleva riconoscersi, la richiesta di qualcosa che sparigliasse le carte, e che
aprisse nuove porte e chiudesse i portoni, un vento nuovo che sapesse di mare e
che gonfiasse le vele. Anche un uragano, purchè conducesse la barca in porti
migliori.
You are like a hurricane
There's calm in your eye.
There's calm in your eye.
Mauro aveva un modo strano di
suonare quel pezzo.
Lo faceva senza contorcersi, senza dimenarsi, senza
piegarsi su se stesso come percosso da una incomprensibile sofferenza – a meno
che non fosse quella stessa di noi tutti, quel sogno di una cosa che non
riusciva a diventare realtà. E poi, quel sorriso semplice, non ostentato, non
buttato in faccia a nessuno. Non la rappresentazione del dolore, in quel
momento, galleggiando su quel mare di luci rosse. Ma di altro.
Qualcosa che ci eravamo scordati di chiedergli.
Qualcosa che ci eravamo scordati di chiedergli.
And I'm gettin' blown away
To somewhere safer
where the feeling stays.
To somewhere safer
where the feeling stays.
Mi pare
di ricordare che andò avanti a lungo, con un insistito duello di chitarre, e
che invece che la solita bolgia da concerto – anche se quella era solo la
nostra piccola e privata Woodstock di provincia al Cinema Don Bosco – ci fosse,
in sala, un silenzio di cristallo. Fragile ed eterno. Come se in quella
chitarra che si imbizzarriva e scalciava sopra la base ritmica, capricciosa
come un cavallo pazzo, ci fosse qualcosa che veniva da molto lontano, e che
ancora non sapevamo, perché ci eravamo dimenticati di chiederglielo.
..I want to love you but
I'm getting blown away…
I'm getting blown away…
E poi, come succede sempre, perché nessuna
musica può durare in eterno, quel pezzo era finito, seguito dalla solita
esplosione di applausi, e, per fortuna, non dalla fiaccolata di accendini, che
a quei tempi non c’erano ancora. Non gli accendini, le fiaccolate.
Io questa parte non me la ricordo
benissimo, e mi aiuta l’abitudine alla messa in scena. Ma la sostanza sì,
quella ce l’ho impressa nel cervello, ora che è riemersa, dopo più di trent'anni,
ancorata ad una canzone di Neil Young.
Chissà cosa fa Mauro adesso. Chissà se
qualcuno sa dove sia, sa come trovarlo, sa se abbia ancora in viso quel sorriso
inspiegabile, perché ci eravamo sempre scordati di chiederglielo.
In quel tripudio di applausi, Mauro era
venuto a proscenio, con la sua maglietta per niente rock e il suo viso aperto
da figlio del sud. Aveva la sua Les Paul a tracolla, e teneva le mani sul
microfono, come se cercasse la forza per iniziare a dire qualcosa.
“Io…” - disse semplicemente, con una voce
esitante, emozionata, ma anche qualcos'altro. “Io volevo dirvi che questa è l’ultima volta
che suono.”
Per la seconda volta, sulle poltrone in
velluto rosso del cinema Don Bosco di La Spezia, si era fatto silenzio. Che
significa, che vuol dire? Che è successo?
“Io… ho voluto suonare questo pezzo perché
succede qualche volta che ti travolga un uragano. E quell'uragano può cambiarti
la vita.”
Lo so, qualcuno potrebbe pensare che il
dialogo sia un po’ banale, anche prevedibile. Eppure è così che andò, e non
sempre i momenti speciali
devono essere per forza imprevedibili.
Qualche volta è sufficiente che
siano veri. E quello lo era, inutile girarci attorno.
“Io…” aveva proseguito Mauro,
scivolando fuori dalla cinghia della chitarra e appoggiandola al supporto come se fosse l'ultima volta che lo faceva, e lo era, “io vado
in trappa.”
In trappa. In clausura.
“Vedete, ho capito che questo
uragano che mi ha colpito è più che sufficiente per essere felice. E non ho
bisogno di nient'altro”
C’era, tra noi del pubblico, una
ridda di reazioni contrastanti. Dal commosso all'infastidito.
Già, infastidito. Perché che
cavolo, non sono affari suoi? Cosa c’entrano con la musica.
C’entrano, mi sento di dire oggi.
C’entrano. Anche se io sono andato per un’altra strada, anche se quell'uragano che
ha colpito lui mi ha mancato, o preso di striscio, oppure non c’è proprio.
Dopo quella sera Mauro – credo – regalò la
chitarra. O per lo meno in una storia di quelle che si vedono al cinema sarebbe
bello che sia andata così. Sarebbe bello che quella Gibson rossa l’avesse, per
esempio, Renzo.
Ma quella sera andammo via
borbottando, senza sapere se questo era bello o meno, che il rito prevedibile di quel
concerto fosse stato interrotto così, per dare un annuncio che ci lasciò senza
parole. O magari non è andata così. Magari quell'annuncio l’ha dato un’altra
volta, e i ricordi si sono mescolati nella testa.
Ma l’uragano l’aveva travolto,
questo è certo.
Chissà se invece non l’ha portata
con sé, quella chitarra. Oppure no.
Chissà se a volte sente ancora Neil Young,
oppure se lo canta nella testa, nelle prime luci dell’alba, mentre si avvia a
cantare le lodi, o guardando le brume salire dalla terra, mentre lavora nell'orto, e probabilmente sorride.
Chissà.
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