Arrivando, mi arrampico sulla
rampa che dal fondo valle porta a Zagarolo, arroccata lassù in cima, con una
punta di fiatone. Ma ormai ho imparato a fare pace con gli affanni del cuore.
Passi corti, frequenti, e si va su.
Il paese è pieno di gente, uno
strano miscuglio tra la sagra, la festa paesana, l’eccitazione che precede l’happening,
il concerto rock. Si va in giro per il corso e ci si saluta come ad un
compleanno, ci si conosce in molti, in fondo siamo a casa di un amico. A
festeggiare un amico.
Banchetti di vino dei castelli,
artisti di strada da ogni parte, mi arrivano note di stornello e stralci di
California, e un camion di quelli da dopoguerra carico di magliette.
Vedo per primo Duccio Pasqua, che
mi chiama da lontano e mi sfotte per la mia maglietta dai colori dell’arcobaleno
dedicata a Jimi Hendrix. Lui indossa la maglia verde di Stradarolo e fa
comunque la sua figura, e così mi viene in mente di guardarmi intorno e sì, le
magliette della gente raccontano qualcosa. Tanti salvadanai, qualche scritta UN'IDEA CHE NON PUOI FERMARE.
E poi molto altro, in una sorta di Olimpo del rock. Oltre al Jimi Hendrix che porto stampato sulla maglietta vedo una Patty Smith, un paio di Pink Floyd, AC/DC, Bob Dylan. Una signora coi capelli bianchi si aggira con Neil Young sul petto. Mi direte, che le cose non si misurano col numero di rockstar sulle magliette. E' vero. Ma è come se, ho pensato, questa mattina qualcuno si fosse detto vestendosi che sarebbe bello dirlo a tutti, che nel suo cuore, fin dalle radici più profonde, porta qualcosa di diverso. Un desiderio, diverso. Un sogno, diverso. E che quel sogno è stato suonato su note, diverse.
Ma contemporaneamente, c'è anche tanta
gente che non ha nomi e facce stampate sulla maglietta, e che percepisce però
un’aria diversa, un clima, e si aggira curiosa.
E poi si arriva alla piazzetta. E’
piccola, il palco è cinque sei metri per tre, la platea è gente seduta sul
pavè, e le facce sono facce di amici, in mezzo alla gente. Sulle magliette,
delle splendide parole scritte da Francesco di Giacomo per Stradarolo 1999.
A certe altezze, si fanno più leggibili, le parti
fisiche, di una terra, sempre più gnoma, boccia, pallino, punto puntino, punto,
appunto.
A certe altezze,
braccia e gambe, e seni e ventrame sparpagliato, alterni a tessuti muscolari,
viadotti e vialetti, terminali nervosi e l’intestino enorme. Autostrade,
strade, autosentieri, colline e montagne e mo’ basta! Nella somma di puzze e
odori celestrini da piastrellaio, quel cielo a noi così poco riverito, come un
grande cesso pubblico.
A certe altezze una
serie di sussurri e sospiri, di grida e di dolcezze, di impressioni basse e
bestemmie sante. Su tutte il pensiero veloce di un bambino che scrive col
dito per aria: “ pallone, palla, boccia, pallino, punto, puntino: voglio venire
anch’io”.
A certe altezze non
si deve mai dire maestà. I re sono così lontani, a certe altezze.
Ai piedi del palco c’è Antonella,
la moglie di Francesco. E’ lei, assieme ad Andrea Satta e ai Tetes de Bois, che
ha voluto questa due giorni, ed ora che è realtà se la gode proprio; si guarda
attorno, una via di mezzo tra controllare che vada tutto bene e godersi il
colpo d’occhio: ed è bella e raggiante.
Vedo Vittorio Nocenzi, Patrizio
Fariselli, Edoardo de Angelis, vedo Filippo Marcheggiani, Tiziano Ricci, Timisorara
Pinto, Paolo Sentinelli, Ambrogio Sparagna… C’è Alessandro Sgritta, e John Vignola, e Maria Cristina Zoppa, ed Elisabetta Malantrucco. E domani ci saranno Gianni Nocenzi,
Alessandro Papotto, Franz di Cioccio, ci sarà Toni Carnevale… Ognuno scrive una dedica su un manifesto
di Stradarolo, e lo stende, letteralmente lo stende ad un filo da bucato tra i
tanti tesi tra i vicoli e di traverso sulla piazza.
Sul mio scrivo: “Sulla luna,
assieme ad Astolfo, per te”. E mentre lo scrivo, mi viene un brivido perché so
che non sarò mai capace di eguagliare Francesco e la sua capacità di scrivere
parole che arrivino in fondo all’anima.
Ma lo voglio fare lo stesso, questo
Orlando, e sono grato a Vittorio che ha fiducia in me.
Ad un certo punto, viene notte,
ed è quasi il mio turno. E mi sale l’ansia. In scaletta sono subito dopo
Vittorio Nocenzi, che suona assieme a Nico di Già e inizia con una inaspettata “Please
don’t let me be misunderstood”, per passare al “Giardino del mago” e ad “Emiliano”, e chiude dedicando a Francesco una sola parola: UTOPIA. E poi Patrizio Fariselli, che apre i suoi 15 minuti con “Luglio agosto settembre
nero”.
"Mi sono reso conto che oggi, 13 Giugno, è anche l'anniversario della morte di Demetrio. Per dire." Dice Patrizio, e sono subito brividi.
E io dovrei salire sul palco
terzo tra cotanto senno, addirittura in mezzo? Per continuare a scomodare
Dante, c’è di che far tremar le vene e i polsi.
Di colpo, mi rendo conto che è
proprio vero: sono solo un fan fortunato.
Per questo sono qui. Preparo i miei
filmati, i miei file audio, parlo col fonico di palco, appollaiato sullo
stipite di una porta in mezzo alla gente, e poi mi dico che ormai lo so, come
si scende a patti con gli affanni del cuore.
Passi corti, frequenti, e si va
su.
Tre gradini, e sono sul palco.
E questo è quel che so raccontare
a tutti quelli che mi ascoltano. Lo ricopio di seguito:
Sono solo un fan fortunato. Per
questo sono qui. Perché diciamocelo, non a tutti i fan è capitata la fortuna di
conoscere i musicisti che hanno significato tutto quando avevi quattordici
anni, e, quindi, per sempre. Stavo per dire “di conoscere i propri miti”, ma so
che Francesco mi avrebbe riso in faccia. A maggior ragione
sono fortunato, perchè non a tutti i fans è capitato di frequentarli, i suoi... insomma, i musicisti che sono stati importanti per loro. Ecco, questo posso raccontare, stasera. Io ho conosciuto Francesco, e Vittorio, e Rudi, ho immaginato cose belle assieme a loro, e con loro ho realizzato cose di cui sono fiero.Tolleratemi, sono un fan, e a volte mi lancio in affermazioni spudorate.
Una, senza ombra di dubbio, è questa:
se non fosse esistito il Banco del Mutuo Soccorso, sarei una persona diversa. E
negli anni, per un regalo degli dei che proteggono i pazzi, i sognatori, gli
scapestrati, o semplicemente fanno in modo che prima o poi tutti questi si
incontrino, per me Banco del Mutuo Soccorso ha significato anche dei nomi, dei
volti, una storia condivisa.
Dei compagni di viaggio, degli
amici.
Tutto inizia con me seduto nello
studio di un discografico “Puoi passare? C’è un lavoro da mettere in piedi…”.
Non mi aveva avvertito che doveva arrivare qualcuno, non so perché, forse solo
per distrazione. E così, quando si apre la porta della sala riunioni e li vedo
entrare, Francesco di Giacomo e Vittorio Nocenzi, mi pare fosse il
1988, balzo in piedi, sull'attenti come un soldatino a molla. E faccio immediatamente
conoscenza con l’ironia tagliente di Francesco: “Riposo, riposo”
Ma c’era poco da riposarsi, ero
emozionato come una debuttante al ballo. Capitemi, ero un fan, un giovincello
di belle speranze, e loro un monumento, un totem della musica non solo italiana,
e in quel pomeriggio di tanti anni fa si erano materializzati sulla porta senza
avvertirmi. Portando con sé, immediati, un milione di flashback.
La mia fantasiosa versione dell’arpeggio
di “Non mi rompete”, che si ostinava ad assomigliare a Blowin’ in the wind, e a
giorni alterni alla Pulce d’acqua. Il registratore a cassette nascosto sotto il
cuscino per ascoltare Darwin, il mio primo album del Banco. Sì, ho iniziato a conoscere la loro musica da metà della trilogia: alla rinfusa. Darwin, Salvadanaio, Io sono nato Libero. Di Darwin ricordo perfettamente il primo brano dell'album: La danza dei grandi rettili.
Lo so, ci sono alcuni che sostengono che il primo pezzo fosse
l’Evoluzione. Ma per esperienza personale ed empirica, il primo pezzo è la Danza
dei grandi rettili. Nella versione in cassetta infatti, per qualche
imperscrutabile motivo, "La danza dei grandi Rettili" era per metà in
coda al lato A, e metà in testa al lato B. Forse per bilanciare le facciate.
Quindi, la mia avventura col
Banco iniziò col lato B di Darwin, e con la seconda parte della Danza. E ben
presto venne il primo concerto, al teatro Monteverdi di La Spezia, assieme al mio vecchio amico di giorni e pensieri, il Professor (lo sfotto, ma professore lo è davvero) Roberto Danese, col polimoog
di Vittorio che scalava il cielo, Gianni e il suoi foulard a fiori e la voce di
Francesco che la sentivi nella pancia.
Ed ora erano lì, seduti al tavolo
da riunione del mio amico discografico, barba e tutto, ed io stavo pensando che
sarebbe stato bello, in un impietoso flash back - impietoso già allora, era il
1988, figuriamoci oggi - tornare indietro al 1974 e dirglielo, a quel ragazzino
seduto in prima fila.
Di quel lavoro, il video di “E
domani”, tratto dall’album solo di Francesco, “Non mettere le dita nel naso,
non si fece nulla. Ma sentite qui.
Mi arriva inaspettata, un paio di
mesi dopo, la telefonata di Francesco.
“A me e Vittorio il soggetto era
piaciuto, ma sai com’è, non sempre in discografia decide l’artista.” Avrei
imparato a conoscere queste sue disincantate descrizioni dello show business… “Ma
volevo dirti anche che prima o poi lavoreremo assieme.”
Così, dritto per dritto. Con una
semplicità che in fondo era la sua forza.
E soprattutto, era tutto vero. Passarono
quasi due anni da quella telefonata, ma ci ritrovammo sul set di “Hey Joe”, la
bellissima cover di Hendrix arrangiata da Vittorio e cantata da Francesco
assieme al Soul Man Sam Moore. Il video fu Premio Europa Cinema 1990 per la
miglior videoclip europea, ed il regista ero io. Eccola qui.
HEY JOE
Da allora ho fatto un sacco di
cose, con Francesco e col Banco, due album, due video, un home video, tanti
sogni e progetti. Qualcuno che non si è realizzato. Qualche altro che non si è
realizzato ancora, ma lo realizzeremo, anche per lui, facendo volare
l’Ippogrifo sulla luna, alla ricerca del senno di Orlando.
Ad un certo punto io e Rodolfo ci
imbarchiamo in un’impresa da matti, come praticamente tutte quelle che ho
vissuto insieme al Banco. Avevo scritto un testo teatrale su Luigi Tenco, ed avevo
chiesto a Rudi di musicarlo. Lavorammo in studio un mesetto, con Pierluigi
Calderoni e Paolo Sentinelli, e si favoleggiava che un brano lo avrebbe cantato
Francesco, ma Francesco non si vedeva. E i giorni passavano. E come nelle
migliori favole, Francesco arrivò l’ultimo giorno, quando ormai i turni di
studio erano agli sgoccioli. Ma che fai, ti perdi l’occasione di averlo nel
lavoro?
“Spiegame bene.”
“Sì, ok, Francesco, allora ho
scritto questo testo perché volevo esprimere…”
“Anzi, nun spiegarme gnente.
Cantamo.”
E’ venuto fuori questo.
LONTANO LONTANO
Francesco. Che voglia, e che
curiosità per il mondo, per tutte le sue forme. Mi chiedeva notizie dei
programmi tv. Mi faceva domande sul mondo del cinema, lui che aveva lavorato
con Fellini. Aveva una voracità di capire le cose, di conoscerle, che faceva
curioso pendant con la sua paciosa pigrizia, che forse era solo saggezza.
Mi metteva una soggezione
inspiegabile, che non sono mai riuscito a vincere. Forse era la sua ironia, che
però è sempre stata bonaria e accogliente. Forse è semplicemente che non sono
mai riuscito del tutto a tirarlo giù da quel piedistallo sul quale lo avevo
issato a 14 anni.
Lo stesso piedistallo che abbiamo
voluto riproporre in copertina dell’home video, quello di una vecchia copertina
degli anni ’70. Ci venne l’idea mentre eravamo in teatro, e lo scarpone di
allora non c’era più. Allora abbiamo acchiappato Toni Carnevale, che per
fortuna porta il 46, e gli abbiamo levato le scarpe.
Però, se dicessi che mi sono
imbarcato nella regia dell’unico film concerto del Banco a cuor leggero, direi
una bugia. C’era sempre da fare i conti col ragazzino, quello là, quello del concerto
del 1974 che non riusciva a dimenticare.
"750.000 anni fa
l'amore", in particolare, era un monumento, e mi arrovellavo alla ricerca di
un’idea. Vittorio aveva una visione quasi sacrale di quel pezzo. Francesco pure,
secondo me. Ma, come sempre, sparigliava. Insisteva per un flash improvviso che
rompesse l’atmosfera, che facesse da antidoto alla retorica, che come sempre lo
terrorizzava. Avevamo immaginato una situazione raccolta, silenziosa, nella
quale all'improvviso emergesse, violenta e ferina, l'immagine della femmina. Girammo
con una attrice una specie di femmina primitiva mentre si sporcava la faccia col
carbone, con l’atteggiamento lontano che spesso hanno le donne quando si
truccano, e che improvvisamente si voltava verso la telecamera e ringhiava,
come una scimmia. Aveva ragione
Francesco, era un bel pugno nello stomaco.
Pensai che per contrasto l'ideale
era girare l’esecuzione del pezzo nel teatro vuoto, con tutto quell'eco
metafisico, fuori dal tempo, che un teatro vuoto porta con sé. Pianoforte,
voce, e nient’altro.
E più ancora che la splendida
interpretazione di Francesco Di Giacomo e la sapienza pianistica di Vittorio
Nocenzi, di quel momento mi torna in mente il silenzio che era piombato sulla
sala alla fine della registrazione. Per capirci. In teatro c'erano solamente i
tecnici, elettricisti, attrezzisti, gente abituata a scaricare imperturbabile,
anche che scendesse dal cielo Jim Morrison coronato di fulmini ad annunciare che
sta iniziando l'era dell'Acquario. Gente che tutto ha visto e non si emoziona
di fronte a nulla. Eppure, alla fine di quell'esecuzione, calò sul Palladium
un silenzio che ancora mi rimbomba nelle orecchie.
Se ne dovette
accorgere anche Francesco, che come dicevamo era refrattario ai momenti troppo eterei
ed applicava una sorta di contrappasso ironico. Se ne dovette accorgere perché
afferrò un tramezzino dal vassoio del catering e, con la solita verve
iconoclasta, commentò: "Semo la vera produzione proletaria Tizià. Il
lucidalabbra lo famo co' l'olio di tonno..."
Io non ero in sala, in quel
momento, perché avevo voluto essere lasciato
solo nel pullman regia, come soli, sul palco, erano Francesco e Vittorio. Ma là dentro, liberato dal ruolo di regista e
dalla timidezza, diedi campo libero al ragazzino, quello là del concerto del
’74 e cantai a squarciagola, all'unisono con Francesco, per l'intero pezzo.
Magari meno bene, ma, ve lo
giuro, con lo stesso cuore.
750.000 ANNI FA…L’AMORE?
Mentre parlo guardo giù, venti
centimetri sotto, e vedo facce che sorridono e che annuiscono. Mi colpisce lo sguardo commosso di Filippo Marcheggiani, seduto sotto il palco. E penso a quante volte siamo stati a ruoli ribaltati. Lui sul palco a suonare, ed io, il fan, sotto. A poco a poco
l’ansia passa, e lascia il posto ad una sensazione bella, di quelle che
vorresti provare più spesso, nella vita: quella di avere qualcosa in comune con
quella gente lì intorno, e, voi lo capite, questo non è mica poco.
In un paio di momenti sono sul
punto di commuovermi, e allora cerco gli occhi di Antonella, che sta proprio a
fianco al palco, e lei mi sorride.
E come sia, come non sia, arrivo
in fondo.
E scendo, mi gira un po’ la
testa.
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