lunedì 10 dicembre 2012

Immagini cinesi





Al terzo giorno di orribile musica cinese - no, non quella tradizionale, che pure pure - no, al terzo giorno di pessimo brit pop - che già mi resta difficile da sopportare in versione One Direction, figurarsi riveduto e corretto con pentatonali orientali, chitarre elettriche impapocchiate insieme alle arpe cinesi, i guzheng, che al nostro orecchio paiono sempre scordate, indigeribili peggio dei dumping col sugo alla amatriciana - al terzo giorno, dico, di quella roba lì, che l'autista cinese, che ci porta in giro, canta all'unisono col cd con espressione sognante dipinta in volto, al terzo giorno, scusate, sarò snob, ma io non ce la faccio più.


Non mi é sufficiente la vocazione terzomondista e terzointernazionalista di figlio degli anni settanta, non basta neppure la professione di terzista - qual io sono e fui, per reggere.
Per un attimo, arrivo perfino a rimpiangere Laura Pausini o Marco Mengoni, per dire. E a quel punto, capisco che è proprio arrivato il momento di agire, Calzo la cuffia ringraziando in cuor mio Steve Jobs per avere pensato l'Iphone, dove tengo stivato il mio kit di sopravvivenza musicale. Mi sparo gli Stones, in alto dosaggio, e un pochino va meglio.
It's only rock 'n roll, but i like it.

Sia ben chiaro: sono felicissimo di essere in Cina, orgoglioso di far parte della delegazione di produttori, registi e sceneggiatori che é venuta qui a rappresentare il nostro Paese in occasione dell'accordo di coproduzione cinematografica Italia Cina. E sono grato a Sandro Silvestri che mi ha chiamato a farne parte, assieme all'ineffabile Pondi, che ha pure paura dell'aereo, ma intrepido affronta il decollo contando le ore che ci separano dall'atterraggio.
Novello Marco Polo, mi sottopongo volentieri al supplizio dl jet lag per aprire nuove prospettive e nuovi mercati e per dissodare nuovi orticelli.
Ma sulla musica – eh no – su quella non si transige.

Flash back, si impone.




Tre giorni prima eravamo saltati su un Alitalia, garruli ed anche un po' eccitati, ed ora eccoci, qui, nel Catai.
E, tra un incontro ufficiale e l'altro - che loro, i cinesi, vivono con una serietà e una partecipazione cerimoniosa che probabilmente noi italiani dovremmo imparare - abbiamo anche il tempo di visitare la capitale del Celeste Impero. Personalmente poi tengo molto al mio piccolo, privato pellegrinaggio nel luogo in cui è avvenuto uno dei più indimenticabili gesti di eroismo della storia del secolo scorso: Piazza Tien an Men.
Un appuntamento con la storia e con il mio immaginario personale che mai avrei creduto di poter fissare nella vita. Il primo, il più importante, ma non il solo. Così torno indietro con un bagaglio di colpi d'occhio, di odori stivati nelle narici, di suoni impressi nelle orecchie, suoni di una lingua più miagolata che scandita, torno indietro col ricordo di incomprensibili rituali e di sapori che ai ristoranti "La grande Muraglia" che popolano la penisola non si trovano. 


Milioni di suggestioni, di stimoli, di pensieri, di idee. Spesso senza ritrovarmi in tasca gli strumenti per elaborarli e senza la cultura sufficiente per comprenderli. O l'apertura mentale, chissà.
Ma per fortuna questo é un blog, e non un manuale di geografia politica. e in ogni caso, paga la faccia tosta di pubblicare, alla rinfusa, le mie postille disordinate di viaggio.
Eccole qui.

In primo luogo: se qualcuno vi dice che la Cina é vicina, ridetegli in faccia.
O parla per sentito dire, o ha visto troppi film italiani degli anni sessanta. La Cina non é vicina per nulla, e non solo in forza delle tensioni sociali che l'invasione silenziosa di prodotti tarocchi e di emigranti dall'incerta identità - tre quattro ogni passaporto... - porterà prima o poi ad un punto insostenibile, se non si prova a mettere in campo uno sforzo di comprensione.




Non sto parlando di indulgenza, madre svogliata – quando viene elargita a buon mercato - di parecchi mali. Parlo proprio di capire, per, semmai, prendere le legittime contromisure. Ho scolpite in mente le parole di Edoardo Nesi in “Storia della mia gente” ed ho ben chiaro come, lucidamente, pur nel grido di rabbia e di allarme per l’invasione commerciale cinese, non si dimentichi di additare chi, in Italia, quell'invasione ha assecondato, lucrandoci sopra.






Anche a quei buffoni degli stilisti andrei a chiedere aiuto: loro che ci imponevano lo sconto sul tessuto e poi rivendevano i cappotti a dieci volte il loro costo; loro che cianciavano tanto del MADE IN ITALY e poi andavano a produrre i loro cenci in Cina, e quando qualcuno glielo faceva notare si incazzavano dicevano che comunque erano stati concepiti in Italia...






No. La Cina non è affatto vicina, perché é veramente ALTRA da noi. Il paradosso è che potrebbe benissimo far a meno di noi, di tutti noi. Poi non ne fa a meno, e ci sommerge di ristoranti cinesi e mercanzie di dubbia qualità e dai prezzi impossibili per gli italiani, che hanno sul groppone il sistema fiscale (e che onorano lo stato sociale, diciamolo...), ma questo é un altro conto, e lascio quest'analisi a chi ne sa. Non ho soluzioni, sto raccontando cosa pensa uno di noi, mediamente informato, andando là. Non sono un'aquila, quando si tratta di parlar di politica. Meno che mai di politica internazionale. Mi indigno di fronte alle evidenti porcate, mi fa male vedere la risposta del populismo idiota agli oggettivi dissesti sociali, ma lì mi fermo.
E mi limito a considerazioni da viaggiatore.


Nel 1434 l’imperatore Hung Si prescrisse la fine dei viaggi oceanici e la costruzione di navi abbastanza grandi da raggiungere i porti degli altri paesi. E per rendere più evidente la sua decisione, ordinò di bruciare la flotta del Celeste Impero nel porto di Bejing, la città che noi ci ostiniamo a chiamare Pechino.
No, non voleva emulare Nerone. Hung Si realizzò invece una potentissima azione ideologica e di comunicazione.
Oggi si direbbe un'operazione di marketing di immagine.
Diede al suo popolo - e al mondo intero - un messaggio inequivocabile: io, l'imperatore del più gigantesco e longevo impero del mondo, brucio la mia stessa flotta perché - semplicemente - non ne ho bisogno.
Perché nel mio Impero ho già tutto, e non mi serve attraversare il mare per andare a prendere quel tutto a casa di qualcun altro.
Ed era, assolutamente, la verità. 

Il Celeste Impero aveva risorse naturali, minerarie, agricole, mano d'opera a buon mercato o addirittura gratuita, e una sterminata domanda interna che rendeva inutile piazzare i propri prodotti altrove. 

Poteva, per dirla alla romana, cantarsela e suonarsela.
L'impressione, a pelle, è che la Rivoluzione Culturale non abbia cambiato minimamente questo stato di cose. Anzi, allo stato attuale delle cose, la Cina detiene il quasi monopolio delle cosiddette terre rare e dei minerali rari, necessari alla microelettronica. Li estrae nel suo sterminato territorio, e sola al mondo li raffina, dopo che Occidente e Russia hanno abbandonato la lavorazione perché troppo pericolosa.



Ultimamente, i cinesi hanno perfino vinto un braccio di ferro con l'intera comunità internazionale, quando hanno preteso, ed ottenuto contro ogni regola commerciale, che chi volesse trasformare i materiali che loro raffinano in altissima tecnologia lo facesse sul territorio cinese, dimostrando una vocazione a fare trattative da suk e a fregare l'interlocutore che posso testimoniare di prima mano: basta fermarsi ad una bancarella o salire su un taxi a Beijing. Ma ancora una volta, non mi addentro.

Voglio raccontare solo impressioni in prima persona, perché quelle riporto indietro.
E la prima è che in questo momento la popolazione cinese stia godendosi il peggio di ambedue i sistemi che - purtroppo - ereditiamo dal Novecento: il neocapitalismo le sta regalando l'inurbamento coatto di una gran massa di contadini, una urbanizzazione selvaggia e una crescita caotica, totalmente deregolamentata, dell'impresa privata e del commercio al dettaglio, come nel peggiore dei deliri neoliberisti.




Del comunismo invece sta sperimentando da quasi un secolo, e continua a sperimentare, un delirio orwelliano realizzato. Un Partito Unico che è l'unico modo per trovar lavoro statale dipendente, e visto che qui lo Stato è dappertutto, e il Partito unico pure, è l'unico modo per trovar lavoro, punto.
La gran parte dei cinesi, mi dicono le guide - non senza un bel po' di reticenza, ma poi lo dicono - è tutt'oggi totalmente tagliata fuori dalle garanzie minime, dall'assistenza medica - una visita d'urgenza te la sogni, se non fai parte dell'esercito o del Partito - dagli ammortizzatori sociali, dalla certezza del posto di lavoro, e figurarsi dalla libertà di pensiero.
Questo blog – per fare un esempio - ha vissuto settimane di assenza del suo estensore non per una pigrizia di viaggiatore, ma semplicemente perché le sue pagine erano inaccessibili dalla Cina. Come d'altra parte Facebook, come Twitter, come molte altre arterie della grande rete.
Cose che abbiamo sempre saputo, e spesso negato:

“E’ chiaro, che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce, e come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare…”

Il mio amico Heman Zed, nel suo bellissimo romanzo "La cortina di marzapane", edito da Maestrale, ha immaginato come suo protagonista, con sublime ironia, un ventenne italiano del nordest che negli ultimi decenni del secolo scorso aveva sognato un altro 
mondo, migliore della merda che c'era da questa parte del Muro, e questo nuovo mondo lo aveva immaginato, in spe contra spem, al di là dei cavalli di frisia e dei rotoli di filo spinato della Cortina di Ferro.

 

Il tutto a causa di un sogno di bambino, dei racconti di una mamma troppo protettiva, che voleva tutelare il suo piccolo dalle delusioni, e di un fantasmagorico trionfo calcistico della Germania Est contro la Germania ovest, Davide contro Golia, ai mondiali del 1974: con un gran gol di Jurgen Sparwasser.

Tutto questo rigiro, oltre a far sacrosanta pubblicità al libro di Heman, serve a dire che posso perfino capirli, i maoisti italiani degli anni settanta. Oggi li guardiamo con indulgenza, come fossero personaggi da fumetto.

Ma allora non era così divertente discutere di politica con loro. Soprattutto se la vedevi diversamente.
Però posso capire la disperata ostinazione con cui affermavano che doveva pur esserci, da qualche parte se non qui, un'altra via che non fosse quella di Nixon, di Andreotti, o di Pinochet.
Posso capirli, ma ho sempre avuto il sospetto che stessero prendendo un granchio colossale, pur sperando anch'io, allora come oggi, in una terza via. Però, quando dico il sospetto, sto sfumando: mi pareva evidente. Loro invece erano invece talmente convinti di essere nel giusto, che provati tu a dargli torto, ad opporre argomenti dialettici alle spranghe.
Diciamo comunque che se allora avevo il sospetto che fossero dei pericolosi illusi, oggi ne ho la certezza.




Per la verità la certezza ce l'ho avuta parecchio tempo fa, tra il 15 Aprile ed il 4 Giugno 1989, guardando un eroe sconosciuto in maniche di camicia, uno studente cinese di cui neppure sappiamo il nome, e che nella migliore delle ipotesi sta trascorrendo la sua esistenza in qualche sconosciuta prigione nel ventre oscuro e irraggiungibile della Cina, opporsi a mani nude ai carri armati dell'Esercito del Popolo, stringendo curiosamente qualcosa in mano, non si capisce se un sacchetto o un giacchino, come se fosse passato di lì per caso, mentre andava a far la spesa.
Ce n'era stato un altro, come lui, anni prima. A Praga, il 16 Gennaio 1969. Io ero molto piccolo, ma lo ricordo benissimo. Si diede fuoco in Piazza San Venceslao, per protestare contro l'invasione sovietica.

Si chiamava Jan Palach.



Francesco Guccini, dedicandogli una bellissima canzone, colse il senso disperato della ribellione del pensiero e dell'ideale contro qualsiasi dogma e qualsiasi inquisizione, e lo accomunò ad un altro grande martire, un riformatore boemo ucciso dagli sgherri della Controriforma Cattolica:

"Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava..."





Sono stato a Praga, a Piazza San Venceslao, a deporre un pensiero per Jan Palach. Altrettanto volevo fare a Tien an Men.




Ma la peggior violenza il Potere non l'ha compiuta incarcerando quell'eroe senza nome, o uccidendolo come temo abbia fatto, nell'indifferenza di quegli stessi esportatori di democrazia che invece radono al suolo l'Iraq perché lì c'è il petrolio. 
No. La peggior violenza contro l'ignoto eroe di Piazza Tien an Men il Potere l'aveva ancora in serbo.

Racconto questa e chiudo il primo capitolo di questo diario di viaggio. 

Partendo per Beijing, come ho detto, mi ero ripromesso di portare un fiore, o anche solo un pensiero, un attimo di silenzio, nel luogo in cui l'eroe sconosciuto ha dimostrato al mondo che un ideale può renderti davvero libero, e impavido.
Anche di fronte ai carri armati del Comitato Centrale.
Il secondo giorno chiedo alla guida, una fantastica ragazzina di vent'anni, laureata in giornalismo, preparata, buone letture e buone frequentazioni musicali, un progetto di marketing per il suo futuro, piena di voglia di fare, di intraprendenza e di insofferenza verso il regime che neanche si preoccupa di mascherare, se ci accompagna nel luogo della rivolta degli studenti. precisamente, Nel luogo in cui uno studente ha fermato i carri armati, eccetera, eccetera.
Mi guarda perplessa ed io, che sono un'anima candida - leggi: un illuso - fraintendo la sua perplessità. Ma certo, mi dico, non si saprà il punto esatto. E come potrebbe. Di certo non c'è una targa per terra. E meno che meno il potere permetterà manifestazioni di solidarietà.
Le dico, complice e indulgente, che basterà che mi porti più o meno in zona. E che - giuro - non farò nulla di compromettente, tipo bruciate incenso o intonare "La Primavera di Praga" di Guccini. 


Son come falchi quei carri appostati, 
corron parole sui visi arrossati,
corre il dolore bruciando ogni strada
e lancia grida ogni muro di Praga.
Quando la piazza fermò la sua vita,
sudava sangue la folla ferita,
quando la fiamma col suo fumo nero
lasciò la terra e si alzò verso il cielo,
quando ciascuno ebbe tinta la mano,
quando quel fumo si sparse lontano,
Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava
all'orizzonte del cielo di Praga... 


Le dico che basterà che ci fermiamo - più o meno - in zona, il tempo di un pensiero. Basterà sostare un attimo - mentre l'autista si spara la sua orribile musica a tutto volume e sbadiglia, nel luogo immortalato da quella foto, simbolo di tutti gli uomini di ideale di tutto il mondo. Quella dove lo studente, in maniche di camicia col braccio alzato, fronteggia il carro armato. 
Un attimo, un pensiero. E via.
Mi guarda perplessa, non capisce.


Lo ripeto: sono un illuso, perché ancora non intuisco l'evidenza.
Il problema, per lei, non è identificare il luogo in cui in quel lontano maggio 1989 quell'eroe sconosciuto dimostrò al mondo, eccetera, eccetera.
Il problema è che lei, una fantastica ragazzina di vent'anni, laureata in giornalismo, preparata, buone letture e buone frequentazioni musicali, un progetto di marketing per il suo futuro, piena di voglia di fare, di intraprendenza e di insofferenza verso il regime che neanche si preoccupa di mascherare...


...della rivolta degli studenti di Piazza Tien an Men non ha mai sentito neanche parlare.
Ecco lo spregio piú atroce che il regime ha fatto all'eroe sconosciuto: lo ha cancellato. E con lui, l'intera rivolta di Tien an Men. Non esiste. Non esistono più.



La storia, raccontava Orwell nel suo 1984, viene riscritta continuamente. Tanto meticolosamente e radicalmente, che sotto la guida del Grande Fratello si parla di “neostoria”. Il motivo è semplice:

Chi controlla il passato controlla il futuro... Chi controlla il presente controlla il passato. 

Ma, nonostante la lettura di Orwell sia uno dei peccati d’adolescenza al quale ho concesso più tempo, non ci voglio stare. Non può finire così. E allora faccio una cosa totalmente inutile: le racconto cosa avvenne, col mio inglese raffazzonato e improbabile. Non sarà nulla, ma lo faccio.




Lei mi guarda prima perplessa, poi incantata. 

E' una bella favola, che racconta che l'orco può essere battuto.
Magari per un attimo, ma che importa. L’importante è che qualcuno ha dimostrato che non è invincibile.
È il massimo che riesco a contrapporre a questo gigantesco insulto alla verità. Mi piacerebbe avere un'arma segreta. Frugo in tasca, ma non la trovo.
Vorrei dirle che alla fine la giustizia trionfa, vorrei dirle che gli ideali prima o poi prevalgono.
Mi rendo conto che non ne sono mica così sicuro, a conti fatti. Penso alle gigantesche manipolazioni della verità ad opera del sistema occidentale. Penso allo spregio dell'evidenza a cui in Italia siamo assuefatti.
Così mi limito a dirle che è accaduto.


E quindi, che ribellarsi è possibile. E spesso anche piuttosto giusto.


Ma questo, parliamoci chiaro, vale ovunque.

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