domenica 21 ottobre 2012

EH NO, CARO VIRZI’.







Non ho visto il suo intervento in tv, caro Virzì, ma ne ho letto i resoconti. Non sono solito parlare di quel che non ho visto: mi pare un modo di procedere sterile, vagamente snob, ed anche un po' scorretto. Parlo, quando capita, solo a ragion veduta. E sono sicuro che lei concorderà con me su questa linea di condotta.
Per cui mi limiterò a intervenire nel merito del virgolettato, anche per non incorrere in un errore troppo comune sul web, e cioè di inseguire, in mezzo al chiacchiericcio indistinto, chiacchiere altrettanto indistinte, ma soprattutto infondate e generate dal sentito dire, mal riferito o soprattutto, e peggio, mal interpretato.
E - se devo attenermi al virgolettato - pare che lei sia intervenuto come ospite del programma di Rai3 TvTalk, si sia detto “scandalizzato” dalle fiction nostrane, in quanto “girate e scritte malissimo”.



Sempre in quella occasione, pare, ma non ho visto, e quando non vedo non trancio giudizi, ha sostenuto che la fiction italiana sia camomilla per anziani, e che nella tv italiana non c’è lo spazio di sperimentazione che c’è, per esempio in quella americana.
Quest’ultima affermazione mi vede completamente d’accordo, ma mi pare, senza offesa, che lei abbia scoperto dell’acqua calda. 
Davvero dovremmo stupirci del fatto che negli Stati Uniti c’è più libertà creativa che da noi? Davvero dovremmo accogliere questa intuizione come una novità? Mi pare evidente che un mercato ricco per numeri, fondi e per cultura del prodotto come quello americano ci mangi la pappa in testa. 
Mi sfugge la caratura dell’intuizione.

Lungi da me l’idea di far polemica, meno che mai con un regista che ammiro e stimo, e al quale dobbiamo bei capitoli del cinema italiano. Ma mi pare che la sua presa di posizione, caro Virzì, oltre a peccare un po’ di snobismo e di ognierbaunfascismo, sia la posizione di chi la fiction non la vede e la critica a priori. Mi corregga se sbaglio.
Non sono qui a sostenere che la fiction tv sia la nuova frontiera della narrativa italiana per immagini, ma mi pare che, fatte le debite eccezioni, neanche il cinema italiano stia esattamente vivendo un momento di gloria per quanto riguarda la qualità delle storie e la loro realizzazione.

Eppure nessuno si sogna di tranciare giudizi approssimativi dicendo che il cinema italiano (puta caso) è per la maggior parte scritto e diretto da intellettuali fintamente minimalisti, preoccupati di raccontare storie ideologiche e senza respiro, dalla gittata corta e dalla pesante tara della narrazione a tesi, mutuata da antiche convinzioni sul ruolo del cinema come educatore della massa, o, per converso, che il cinema italiano viva di commediole costruite a forza e per forza su personaggi televisivi rivestiti in fretta e furia della dignità di attori e messi in scena con copioni improvvisati e senza il minimo costrutto, la minima intenzione narrativa, la minima struttura...
Puta caso.

Ma se anche qualcuno lo sostenesse, e azzeccasse - faccio per dire - all’80%, se anche accadesse (e potrebbe pure accadere, nella meraviglia del possibile), quel qualcuno (che non sono io) non avrebbe il diritto di sostenere una cosa del genere così, come dicono i napoletani, 'ndrillavallà, che significa, con sublime onomatopea, facendolo saltare fuori dal nulla, senza pezze d'appoggio, senza ragione sostenibile, e facendo, appunto, di ogni erba un fascio.
No, quel qualcuno non avrebbe il diritto di sparare a zero sul cinema italiano come categoria, in senso globale.
Non foss’altro, per rispetto del lavoro, di... Virzì. 

Ma anche di Sorrentino, Garrone, Crialese, Corsicato, Muccino… nomi che dico così come mi vengono in mente, ma per esempio in rispetto del lavoro dei miei amici Manetti Bros, che fanno film con 50mila euro pur di essere liberi di fare le loro scelte artistiche senza pressioni, ma che rimanendo liberi e combattendo dure battaglie hanno realizzato, per la tv, “Il commissario Coliandro”, ironico, sgangherato, e tutto fuorché buonista e camomilloso.

Il fatto è che la tv vive un periodo piuttosto difficile, e lo zenith a cui orientarsi è a dir poco sfocato, ma questo non vuol dire che non ci sia chi lavora e seriamente per rinnovarne il bagaglio, il tiro, le intenzioni.

Rivendico con orgoglio, a titolo del tutto personale, per esempio, la scrittura del mio “Commissario Manara”, mio e di Alessandro Pondi, che lo abbiamo ideato lavorando al format per innumerevoli notti per una lunghissima estate con 40 gradi all'ombra (è solo anedottica, ma mi conceda l'orgoglio di genitore...) limando ogni singola sceneggiatura della prima serie e riscrivendo, quando serviva, parola per parola. 
E non credo che lei possa dire che è scritto male. Sempre ammesso che l'abbia visto.
Rivendico con altrettanto orgoglio la potenza narrativa di “K2 la montagna degli italiani” che ho scritto insieme ad Alessandro Pondi, Mauro Graiani e Riccardo Irrera. E difendo ogni singola frase di quella sceneggiatura, che proprio in questi giorni ha ricevuto il premio come miglior sceneggiatura dell’anno dall’Annuario del cinema italiano.
Annuario del cinema, badi bene. Non Annuario della tv. Il che vuol dire che una giuria di qualità ha sentito il bisogno di premiare una sceneggiatura televisiva, tra le tante sceneggiature cinematografiche prodotte quest'anno. 
Chapeau, ma mi permetto di chiederle, Virzì, significherà qualcosa che sia stata premiata, con tante sceneggiature cinematografiche a disposizione?
Si vede che non era scritta tanto peggio di quelle del cinema, quanto meno.
Ma a mio parere questo premio testimonia anche l'apertura mentale e l'intelligenza della giuria, guidata da Gianluigi Rondi, che ha ben compreso che gli steccati sono dei limiti rassicuranti nei quali amano rinchiudersi le menti poco agili.
Ed è evidente che non è il suo caso.

Mi si obbietterà che quelli che ho portato finora come esempi sono casi singoli e personali. Vero. Ma vede, Virzì, non credo di doverle ricordare io che è sul fatto concreto, sul piano della realtà, quindi, sul singolo lavoro, che si costruiscono i giudizi. Altrimenti si mettono in campo solo stroncature a priori senza documentazione e dal sospetto sapore ideologico.
Ed è evidente che non è il suo caso.

Ma il fatto è che certi giudizi, e lei lo sa bene, Virzì, hanno il pilota automatico.
Il fatto è che l’Italia è la patria della parola d’ordine, degli steccati, degli ostracismi.
Pensi al dramma del sottoscritto, che ha collaborato alla stesura di ben tre soap operas (Ricominciare, Cuori rubati, Sottocasa) ed ha firmato la sceneggiatura di due vituperati film di Natale (Natale a Beverly Hills e Natale in Sudafrica). L’ostracismo è assicurato, e, già lo so, non potrò aspirare neppure a quel “lauro, da genio minore” a cui invece ha potuto aspirare, grazie ai buoni auspici di Jorge Luis Borges, il più grande narratore di storie in forma di canzone: Francesco Guccini.
Scrivo tutto questo sul filo dell'ironia, e sono certo che il suo sorriso labronico non mancherà di premiare i miei sforzi.

Vede, Virzì, il cambiamento è un lavoro duro, come ben sa lei, che combatte quotidianamente per rinnovare il cinema italiano. Ma diventa durissimo se si deve remare contro corrente e se le rapide da risalire sono degli "a priori" contro i quali per loro stessa costituzione non si può opporre alcun argomento costruttivo, e non tengono conto dei segnali (piccoli se vuole, ma ci sono) di lento rinnovamento.
Ma io che sono illuso per vocazione e rompipalle per nascita non mi rassegno al no contest, al non luogo a procedere, e provo a ribatterle e ad argomentare. Spero di trovare ascolto, e risposta, ha visto mai?

Faccio Fiction tv da moltissimi anni, e conosco bene lo scenario che lei descrive, fin negli anfratti. Di certo il fatto di rivolgersi ad un pubblico generalista non aiuta, di certo ci sono stelle della sceneggiatura costruite sulle pagine dei giornali patinati e nei salotti buoni delle varie Contesse Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, dove si mescolano allegramente le buone famiglie e le buone tessere, e dove si costruiscono e si smontano destini luminosi e dove si ipotizzano le umane sorti, e progressive. 
Ma questo non mi pare accada solo per la tv, lei concorderà con me. 
Voglio concederle che non sempre le scelte editoriali di chi progetta la televisione italiana brillano per coraggio, sarebbe sciocco ed ottuso non farlo, ma anche qui non tutto il mondo è paese.

E indubbiamente la soluzione non è gettare il bambino con l’acqua sporca. 

Quella per migliorare e rinnovare la narrativa popolare, e nella fattispecie la fiction, è una battaglia in corso, combattuta non solo da registi e sceneggiatori (registi che sanno girare e sceneggiatori che sanno scrivere) ma anche da editor intelligenti e capi struttura motivati. 
E di certo, Virzì, se si volesse davvero aiutarne il lavoro, si dovrebbe a ragion veduta separare il grano dal loglio e valorizzare quel che c’è da valorizzare. 

Perché esiste, e sono certo che lei lo sa. E mi stupisce che se lo sa dica luoghi comuni insostenibili, tipo quello che è tutto scritto e girato male. E allora, visto che dalla nascita non riesco ad esimermi dal farmi domande, mi chiedo perché lo dica.
Per collocarsi altrove? Per distinguersi? Per accreditare una posizione culturalmente e ideologicamente superiore? Faccio ipotesi. Mi piacerebbe me lo dicesse lei. Sognare è lecito.

Il fatto è che della fiction televisiva parlo a ragion veduta, perché conosco il mondo a cui lei si riferisce, Virzì, e so perfettamente – come lo sa lei, e allora mi chiedo perché non se lo ricordava, quando ha registrato il suo intervento in tv - so perfettamente che non è vero che non abbiamo registi e scrittori, che non abbiamo produttori, che non abbiamo storie, e via dicendo. 
Se mai il problema è - o meglio è stato, chissà che le cose non stiano cambiado - di coraggio editoriale, e ci tengo a dirle, ma lei lo sa, che  persone coraggiose in questo momento ce ne sono, nel mondo della fiction. E a volte - le concedo non sempre ma a volte non è poco - si prendono anche dei rischi.

Il problema è che le prese di distanze come la sua – me lo permetta, un po' snobistiche - non aiutano. Perché lei sa benissimo che ci sono progetti che con dure battaglie vanno in porto nel modo giusto, se sostenuti da professionisti coraggiosi e preparati, e se incrementati ed aiutati da dirigenti creativi e appassionati ( e ci sono pure questi...) ed altri progetti che invece seguono la corrente e sono sempre uguali a se stessi, perché, perché... perché lo sappiamo tutti. Perchè ci sono situazioni in cui agganciarsi al carro o usare il pilota automatico è più semplice. Oppure, detto tra noi, è il massimo che si possa fare.

Queste distinzioni devono essere fatte, lo sa bene anche lei, come me.
Altrimenti si finisce per chiamarsi fuori, autoproclamarsi puliti, e in questo modo si finisce per fare nella sostanza il gioco dei venditori di camomilla.
E sono sicuro che questa non era la sua intenzione, Virzì. Ma qualcuno deve pur dirglielo.

Poi scopro, sempre nel virgolettato, che la mia intuizione era vera: lei la fiction italiana non la guarda più. Buono a sapersi, ma allora mi chiedo come faccia, a tranciare giudizi così precisi su quel che non guarda, che non conosce, che schifa a priori e al quale non concede chances.
Perché vede, che io mi ricordi, vaghissimi ricordi di filosofia teoretica, il giudizio nasce dall’osservazione della realtà. Altrimenti è  - nel migliore dei casi - dogmatismo, conformismo, o pigrizia mentale. 
Sono sicuro che non ambisce a nessuno di questi tre. E l’intelligenza sapida dei suoi film è lì a dimostrarlo, ove non ci fosse il suo sorriso pungente.

E qui mi fermo, perché finisce il virgolettato del suo intervento, e per abitudine non sono solito parlare di quel che non ho visto o giudicare quel che non conosco. 
Come forse dovrebbero fare tutti quelli che hanno a che fare, a qualsiasi titolo, con la comunicazione.
Vede, Virzì io e lei lo sappiamo: il coraggio di non cantare col coro non è da tutti. Quello di giudicare a ragion veduta anche meno.
Consideriamolo un buon proposito per il 2013. 

Maya permettendo.




martedì 16 ottobre 2012

Difendersi dai vivi. Fenomenologia di "The walking dead"



“Non siamo più in democrazia.”




Dice Rick Grimes – protagonista della serie ormai culto The walking dead - in chiusura della seconda stagione, meno di sei mesi fa.
E per quanto mi riguarda, in quella frase c’è tutto l’appeal per cui The walking dead ha sostituito “Lost” nel mio cuore.




Prima di Lost c’era Twin Peaks, e c’è rimasta a lungo, con accenni sospirosi di nostalgia senile. Poi per fortuna le ultime annate televisive mi hanno aiutato a spazzarla via e ad amare il capolavoro di David Linch, la storia dei picchi gemelli e di chi ha ucciso Laura Palmer da lontano, come si amano le antichità. Come la Nike di Samotracia o la Gioconda. Con distacco.
E ora, tra le mie preferite, c’è The walking dead.
Un piccolo riassunto ad uso esclusivo di chi non sa, non ha voglia, non conosce, non ha Sky e non vede le serie in streaming.
Oppure semplicemente per quelli a cui basta, a saziare il desiderio di fiction, la visione delle Tre rose di qualcuno, mi pare Eva, non so.
Beh, in quel caso che dire. Buona fortuna.



The walking dead è ambientato oggi, o meglio in un oggi discronico e in un’America plausibile in cui un’epidemia improvvisa e virulenta trasforma le persone in barcollanti cannibali dall’aspetto ributtante, epidemia di origine non meglio specificata per ora (ma vuoi vedere che si scopre che c’è dietro la CIA e le ricerche sulle armi batteriologiche, per non dire la ineffabile UMBRELLA di Resident Evil?). 

Ma fatto sta: il virus ha infettato la popolazione terrestre e travolto il mondo come lo conoscevamo:

“It’s the end of the world as we know it…”





Gli esseri umani sono una sparuta minoranza, e il mondo è in balia di orde di Zombies come da intuizione felicissima di George Romero in pieni anni ’70:


“Quando all’inferno non ci sarà più posto, i morti cammineranno sulla terra.”

Gli zombie di The walking dead, come quelli di Romero, si muovono in branco senza senso e direzione, distruggendo e divorando quel che trovano sul loro cammino, o meglio divorando i vivi e trasformandoli a loro volta in zombie, in una evidente metafora della civiltà di massa.
E di fronte al panorama di un pugnetto di esseri umani di una volta, spauriti e senza progetto, assediati da un’orda di zombies decerebrati (attenzione, non sto forzando per avere argomenti a favore della tesi: sono proprio decerebrati. Una puntata della serie ci ha spiegato che alla morte cerebrale segue un risveglio delle funzioni primarie del sistema nervoso simpatico e dell’ipotalamo e stop…), di fronte a questo ribaltamento delle prospettive in cui le persone senzienti sono la minoranza e i pecoroni senza cervello la massa (ma quale ribaltamento, ora che ci penso?), Rick Grimes, ad un certo punto, dice quel che ognuno di noi - o forse qualcuno, di noi -pensa da tempo, e non ha mai avuto il coraggio di dire a voce alta:
“Non siamo più in democrazia.”

Rick Grimes lo dice in chiusura dell’ultima puntata della seconda stagione, mentre all’orizzonte si affaccia una ipotesi di futuro, la prospettiva in cui si svolgerà la stagione successiva – prospettiva che evito di nominare per non rendermi colpevole di spoiler, che è il peccato mortale del nostro secolo. Io mi limito a riprodurre la locandina della terza stagione e a starmene zitto sugli sviluppi.



Sì, perchè lo spoiler, tra gli appassionati di fiction televisiva è più grave del vilipendio alla religione (mussulmana, ovviamente, l’unica che si autotutela bruciando ambasciate ed emettendo fatwa. Le altre invece no.).
In ogni caso, intorno al fuoco coi suoi compagni, dopo l’ennesimo scampato pericolo, ormai unico leader di una risicata squadra di sopravvissuti, Rick, spara quella frase,
“Non siamo più in democrazia.”
…e in quella frase lo sceneggiatore e il cultore di fiction che coabitano in me riconoscono la mano illuminata del dio di quell’universo: lo scrittore, il dio creatore che si è lasciato sfuggire attraverso il suo personaggio una delle sillabe innominabili del suo nome, uno dei suoi segreti inconfessabili, uno dei semi dai quali è germogliato tutto – montalianamente, l’anello che non tiene che ci auguriamo un giorno di veder apparire.
“Non siamo più in democrazia.”
Ha detto Rick. Ed ha detto quel che i suoi sceneggiatori pensano da sempre. Fin dalla prima inquadratura della prima stagione. Fin dal concept, oserei dire.
Ora.
Combatto contro la tentazione di intavolare facili parallelismi sul potere delle banche, sul club Bilderberg e sugli inciuci della casta,  perché sarebbe troppo facile e cheap, troppo condivisibile e bipartisan, e – quindi - rischierebbe di essere anche un parallelismo troppo popolare: democratico, appunto. E forse rischierebbe di avere perfino successo, perché ormai ciò che cheap è comprensibile, uguale al pensiero unico dominante, e dato che ogni simile ama il suo simile, ciò che è comprensibile è popolare ha successo.
Ma che volete farci. Ho la vocazione per le posizioni ostinate e contrarie.



Qualche giorno fa Massimo Fini, ha pubblicato sul suo blog un interessante commento sulla crisi, anzi, sul fallimento della democrazia.
Seguo Fini sempre con avida e appuntita attenzione perché mi pare una delle poche menti lucide e pensanti di questo desolante panorama che è il mondo della cultura italiana (sedicente ed autoproclamata, nel migliore dei casi, nata nelle scuole di partito, o peggio ancora attorno ai ciclostile e alle linotype, oppure rivestita come un blazer dai cialtroni del partito azienda, che fanno a botte col congiuntivo e pensano che un’anafora sia una malattia della pelle).
Beh, Fini no. Pensa e – quindi - sa sempre dire qualcosa di intelligente e di stimolante.
E ‘sticazzi  se qualcuno avrà ancora la supponente faccia tosta di bollarlo perché è di destra, perché è fascista, e via ostracizzando a priori, secondo un rituale che abbiamo sperimentato anche troppe volte, con tutti gli ammennicoli post sessantottini che conosciamo fin troppo bene… Senza peli sulla lingua, e senza considerazioni di opportunismo di parte, Massimo Fini è stato uno dei pochi intellettuali di destra a schierarsi fin dall’inizio apertamente, e senza esitazioni, contro Berlusconi.
A non cedere cioè al ricatto al quale a destra hanno ceduto tutti, prima o poi: ingoiamo il nano e tutte le sue ballerine, pur di buttar fuori i rossi dalla stanza dei bottoni. Non è andata così, lo abbiamo visto tutti.
Ma questa è – in parte – un’altra storia. Solo in parte.

Riproduco uno stralcio dell’intervento di Massimo Fini sul suo blog e prometto che tornerò immediatamente dopo a The walking dead per spiegare cosa c’entra tutto questo, con gli zombies. Anche se credo che il lettore attento abbia già scorto il bandolo della matassa e un’idea ce l’abbia già.

“Dopo la caduta del mondo feudale la dottrina liberal-democratica nasce dalla testa di alcuni pensatori (Stuart Mill, John Locke, Alexis De Tocqueville) che volevano valorizzare meriti, capacità, potenzialità dell’individuo singolo, finalmente liberato dalle rigide divisioni di casta (nobili, ecclesiastici, Terzo Stato). Nei fatti, storicamente, la democrazia ha realizzato l’opposto, si è rivelata un sistema di oligarchie, politiche ed economiche, di aristocrazie mascherate, di lobbies che schiacciano l’individuo che non si piega a questi umilianti infeudamenti. “

E, aggiungerei io (col sospetto che Fini possa condividere questa mia convinzione) la democrazia ha dimostrato che per sostenere le lobbies basta manipolare la pubblica opinione e  ci vuole poco a dirigere le masse e irreggimentarle in un voto plebiscitario e bulgaro: basta qualche promessa populista, un paio di spot azzeccati, un sorriso piacione da omino di burro e una corposa squadra di mezzi personaggi di avanspettacolo trasformati in anchor man, o peggio ancora una squadra di escort camuffate da donne in politica, per riuscirci.
Che ce vo. Domani lo faccio pur io. Ah no. Non ho i soldi della liquidazione di papà.
Negli ultimi vent’anni, in perfetta sintonia col Piano per la Rinascita Democratica della P2 sono bastati un pugno di programmi stile tabloid (o peggio in stile rotocalco, di quelli che a volte si scorrono dalla parrucchiera e che forniscono ad un esercito di vecchiette una cosa che non solo surroga alla cultura, ma anzi che le convince di potere con la cultura competere solo sulla base di conoscenze imparaticce e nozionistiche sulle vicende matrimoniali e sessuali di questo e di quello) per manipolare e orientare le coscienze.

E poi, con quell’apparato di luoghi comuni, di bon ton o di buonismo tout court, si può andare all’assalto del Palazzo d’Inverno, seguiti da un esercito – di votanti, non ce ne scordiamo mai… - che si armano e partono senza mollare di mano il telecomando, al solo fine di sostenere la libertà di fare i fatti propri e per questo crocifiggere i giudici complottardi, il tutto senza sollevarsi dalla poltrona di sala (poltrona auto sollevante acquistata, naturalmente, ad una televendita Mediaset.)
Che c’entra? C’entra.
Non dico, sarebbe troppo onore –  o disonore, vedete voi, ma prima di decidere pensate alla faccia di certi figuri sparata sulle tv europee e americane in rappresentanza dell’Italia – che The Walking dead alluda alla situazione italiana, al berlusconismo o al Direttorio delle Banche.
Dico però che The Walking dead simboleggia, senza mezzi termini, la crisi della democrazia, io credo prima americana e poi mondiale, che in Italia stiamo vivendo in modo eclatante, con la solita platealità mediterranea capace di produrre operetta e tragedia, tanto è vero che ha prodotto Fiorito e Dell’Urti.
Di questo parla Walking dead, tanto che nell’ultima puntata della seconda serie gli sceneggiatori lo fanno dire esplicitamente al protagonista, Rick:
“Non siamo più in democrazia.”



Rick, uomo d’ordine e di etica, e di sani valori americani, dice questa cosa che suona come una sentenza ad un sistema.
Non un disadattato o un Rambo qualsiasi dei tanti che popolano la provincia degli USA e che costituiscono l’elettorato preferenziale dei repubblicani, il bacino da cui attinge qualsiasi Bush si svegli con la voglia di inoculare democrazia al mondo.


No, lo dice il personaggio della serie più amato dal pubblico, Rick Grimes, e che confesso anche io preferisco, perché dietro questa facciata da uomo del New Deal, di Mickey Mouse trasportato nel futuro post catastrofico, è amletico, combattuto, pieno di dubbi, per nulla un eroe senza macchia e senza paura ma al contrario pieno di meschinità, piccolo, a volte insopportabile, di fronte al quale l’antagonista, Shane, riesce addirittura ad avere spesso accenni di gigantismo titanico e di grandiosa auto distruttività, a partire da quel rituale taglio dei capelli a zero con la macchinetta che a me ha ricordato il taglio di De Niro in Taxi Driver di Martin Scorsese o la preparazione alla morte del Soldato Palla di Lardo il “Full Metal Jacket” di un altro mito, Stanley Kubrick.

E obbiettare che siamo in una realtà discronica, che quello non è il nostro mondo ma un altro dove possibile e alternativo, probabilmente non basta neppure a chi fa l’obbiezione.

L’intuizione, lo dicevamo, è di George Romero, ma è totalmente condivisibile. Il grande regista underground americano, che tutti quelli della mia generazione hanno amato per i suoi horror pieni di sottintesi sociali, nel secondo capitolo di Zombie ci descrive i morti viventi che affollano un supermercato e continuano a fare quel che facevano da vivi: riempire carrelli, guardare incantati le tv che trasmettono spot e commercials, lo sguardo perso nel vuoto e latitante da qualsiasi forma di pensiero associativo, e, se gli fosse permesso, andare a votare.
Visione estrema? Ditelo a Romero, relata refero.

Sentite Fini:
Peraltro quella della democrazia è una questione di secondo grado. La democrazia è un sistema di regole e di procedure, non un valore in sè. È un sacco vuoto che va riempito di contenuti. In due secoli e mezzo il sacco si è riempito solo di valori quantitativi e materialistici e la democrazia è diventata semplicemente l’involucro legittimante di un modello di sviluppo economico "paranoico" perchè si basa sulle crescite infinite che esistono in matematica, non in natura. 

Ed ecco che, nel nostro mondo parallelo invaso dagli zombie che non votano, Rick a differenza degli altri suoi compagni di sventura, si pone la domanda “Che fare?” in modo problematico e dialettico. Si domanda dove sia il limite oltre il quale non è legittimo difendere la propria comunità. Uccidere gli zombie, d’accordo. Ma figurati, li uccidiamo perfino nei videogiochi da decenni. Non si pone il problema: bang bang, e via così, in un tripudio di teste spappolate e di materia cerebrale che si sparpaglia ovunque. Uccidere gli zombie non è un problema etico che si ponga. Bang Bang.
E qui anche noi siamo tentati di dagli ragione, fuor di metafora.

Poi alla nostra carovana di sopravvissuti succedono due cose: in primo luogo il gruppetto protagonista della serie viene ospitato in una fattoria di proprietà di Hershel Greene, un veterinario sopravvissuto all'apocalisse zombie che vive con i suoi figli, con Otis, un grassone simpatico esperto di armi e Patricia, la moglie di Otis.
C’è un granaio, e esattamente come la stanza di Barbablù, non si può aprire, perché Hershel lo pone come condizione tassativa. Hershel è un brav’uomo, il prototipo del repubblicano metodista di estrazione rurale: solidi principi e intransigenza coniugati con una accoglienza franca, disponibile... ma a tempo. E sul patio di casa, ogni mattina, issa la star ‘n stripes con americana commozione.


Ora: cosa c’è nel granaio, dove nessuno, per diktaat di Hershel può entrare?
Prima di rispondere, parliamo della seconda cosa che succede.
Succede che in una tappa di trasferimento di questo eterno girovagare senza speranza, il gruppo rimane in panne sull’autostrada perché si brucia il radiatore di un camper. Sophia, la bambina del gruppo, si addentra nel bosco da sola, e sparisce. Disperazione della madre, costernazione degli altri componenti del gruppo, ricerche frenetiche, uno dei cui effetti collaterali è la scoperta della fattoria di Hershel. Ma della bambina nessuna traccia, tanto che nella testa e nel cuore di tutti si è ormai fatta strada l’idea che sia perduta per sempre, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo a voce alta.
Torniamo alla domanda di cui sopra. Cosa c’è nel granaio?

Zombie, ci sono. 
Che altro può esserci. Zombie, che altro non sono che la moglie di Hershel, i suoi amici, e i suoi conoscenti colpiti dal morbo. E che Hershel si rifiuta di considerare delle bestie, degli alieni, degli abomini da sterminare: quell’orrore ringhiante è pur sempre sua moglie.   
E in aggiunta, l’uomo di fede non può rassegnarsi all’idea che l’anima immortale si sia dispersa così:
“Gesù Cristo ha promesso la resurrezione dei morti, ma io pensavo che avesse in mente qualcosa di leggermente diverso”
E in ogni caso, visto che quelle nel granaio sono solo persone malate, Hershel non vuole sentire ragioni: le terrà là dentro finché non si troverà una cura, e non se ne parla di farle fuori.


E invece Rick, uomo di cultura accogliente e aperta all’inizio della serie - liberal, mi scapperebbe di dire – che proprio sul tema del confine tra etica e difesa del gruppo si è spesso scontrato con Shane, sostenitore invece di un macchiavellico e quasi nietszchano “la salvezza del gruppo al di sopra di qualsiasi considerazione morale” decide che il gruppo ha bisogno di un segnale forte, che dimostri che anche per lui la loro sopravvivenza sta in testa alle priorità.

Rick lo fa anche perché sua moglie, Lori, sta per dare alla luce un figlio e si chiede se ne valga la pena, in un mondo in cui zombie senza cervello irreggimentati in eserciti affamati di carne umana si aggirano indisturbati, e in cui Dio sembra essersi voltato di là.
Rick lo fa per dire a tutti che la loro solidarietà e la loro unità saranno più forti di ogni minaccia e di ogni ondata plebiscitaria di zombies che li attacchi. 
E di più, sposando una certezza sulla quale è stata fondata l’America, lo fa perché “L’unico zombie buono è uno zombie morto.”
E non stiamo a guardare il capello sul fatto che loro, gli zombie, morti lo sono già.


E quindi, Rick apre la porta del granaio e spara. E gli altri si uniscono a lui, facendo fuori gli zombie ad uno ad uno. Una carneficina. Una pulizia etnica. Già, ma per la maggiore motivazione della salvezza della razza umana. 

Fino a che dal granaio, per ultima, esce Sophia, trasformata in zombie pure lei.


E Rick spara, perché ormai il confine è chiaro. D'accordo, quelli di prima erano la moglie e gli amici di Hershel, ma prima. Ora sono nemici. E lo è anche Sophia, anche se gli spezza il cuore ucciderla. Ma ormai il confine è tracciato. 

Io e i miei di qui da questa parte della barricata, tutti gli altri di là. Qualsiasi esitazione, qualsiasi eccezione etica potrebbe essere letale per qualcuno dei miei. Quindi, non esiste più.

E così abbiamo seguito passo per passo, il periplo di un liberal che finisce per dire che la democrazia è finita, e che consacra questa affermazione sterminando gli zombie.
Che diciamocelo, non stanno tanto simpatici neppure a me, e non solo come metafora di quel che rappresentano. 

Il problema, come spesso in questi casi mi pare di semplice definizione. Tutto bene, purché si sia capaci di transfert. 


Avendo scritto un noir, ho imparato il valore catartico degli omicidi commessi sulla carta stampata, e, mutatis mutandis, credo che la catarsi nella fiction non sia poi così diversa.

Come dire: lungi da me invocare omicidi o stermini di massa, non scherziamo. Ma The walking dead, a questo punto mi pare indubitabile, ha un tema sotterraneo preciso: una democrazia che è morta affogata dal suo stesso principio di maggioranza numerica, oramai del tutto insignificante, quando le lobbies controllano l’informazione e i mezzi di comunicazione e spesso e volentieri falsificano in modo spudorato la verità e i meccanismi rappresentativi. In metafora, ca va sans dire. Però la battuta di Rick è illuminante. E se volete, lo slogan di lancio della terza stagione lo è ancor di più:

Quando muore la speranza, quando scompare la pietà, quando finisce la fede c'è solo un modo per sopravvivere: combattere i morti, e difendersi dai vivi.



Difendersi dai vivi.
The walking dead parla di questo. Di sparuti mazzetti di umani, meschini, litigiosi, corrosi dal potere perfino se questo potere si esercita su un numero di membri che si conta sulla punta delle dita, ma pur sempre umani, imperfetti ma vivi perché speranti, che combattono una guerra senza quartiere contro un’orda ributtante che sta prendendo il possesso della terra.



Stiamo parlando per metafore, questo è ovvio, e ce lo concede la zona franca della fiction dove con l'immaginazione possiamo essere astronauti o gangster, antichi romani o uomini del 40 secolo. Però...

Però guardateli bene, questi zombie, non vi sembrano familiari?
Sono infarciti luoghi comuni, forse lanciati da qualche sedicente opinionista al soldo di qualcuno, chissà, sedicenti giornalisti al soldo di un potente, che sia una banca, un miliardario corrotto o una lobby di autoproclamati amici del popolo. 
Ripetono slogan a memoria, non si confrontano ma si schierano,  perché per confrontarsi bisogna pensare, per schierarsi basta semplicemente tifare. Fanno valere il peso del numero e non quello delle idee. Hanno arroganza, supponenza, pressapochismo da vendere. 
E anche per questo odiano la cultura. 


Davvero a voi non è mai capitato di incontrarli? A me, sinceramente, pare proprio di sì. 
Sono gente comune, come me e voi, Imbottita di mezze verità o menzogne intere raccontate dai padroni dell'informazione e dai maghi del consenso. O dalle censure preventive del nuovo ordine mondiale.

E mi pare di ricordare che mormoravano, come giaculatorie, mezze frasi imparate a memoria che avevano ascoltato in tv. 

Almeno, a me è parso di sentirlo chiaramente.
Qualche altra volta, invece, tra loro c'ero anch'io. Per fortuna, non sempre, ma qualche volta c'ero.

E ho cantato in coro, mentre tutti insieme sbranavamo allegramente qualcuno, che aveva la sola colpa di essere diverso.

venerdì 5 ottobre 2012

LA FORMA E LA SOSTANZA

LA FORMA E LA SOSTANZA



2 ottobre 2012.
 Sala Sinopoli, Auditorium parco della musica. Roma Fiction fest. Tutto esaurito in ogni ordine di posti: la fiction, pur con tutte le sue incertezze e con qualche passo falso, tira ancora. E continua ad impersonare la narrativa popolare di questo paese.
Evviva, evviva, evviva.


Stasera il programma prevede il conferimento del Premio per la sceneggiatura “Carlo Bixio” istituito dopo la morte di Carlo, un uomo per bene, un signore, un grande produttore e un amico. Non necessariamente in quest’ordine. Ciao, Carlo.



Sul Palco, Eleonora Andreatta, neo direttore di Rai Fiction e Francesca Galliani capo dell’area Fiction di Mediaset, oltre ad una nutrita giuria di qualità. 
Vince il premio per la Migliore Sceneggiatura originale, Vlad e lo scudo elfico (My first life) di Davide Aicardi e Marco Renzi. Giovani, ironici, a loro agio, e con voglia di fare. Evviva, evviva, evviva.

Ma anche buona fortuna, ragazzi.

Poi il direttore artistico Steve della Casa consegna il premio assieme a Carlo Lizzani, e le mie orecchie ascoltano con piacere che questo premio alla sceneggiatura, in apertura di festival, sta a significare l’importanza che ha, nella grande macchina dei sogni, del cinema e della fiction, chi immagina e scrive le storie.
Evviva, evviva, evviva. Non che ci volessero 117 anni di cinema per ribadirlo, ma è comunque una notizia. Il pubblico applaude, e tra quel pubblico applaudo anch'io.

Che ci faccio qui? Sono intervenuto, in qualità di co-sceneggiatore (uno di quelli che scrivono e immaginalo le storie senza le quali la grande macchina dei sogni eccetera eccetera…) di “K2, la montagna degli italiani” che ho scritto assieme ad Alessandro Pondi, Mauro Graiani, Riccardo Irrera, prodotto dalla Red Film per la regia di Robert Dornhelm. E sto aspettando con trepidazione di vedere questo lavoro, che abbiamo iniziato a sognare due anni fa, assieme a Paola Masini di Rai Fiction, e che finalmente incontra il pubblico.


Ma prima, due parole dal palco, per presentarlo, dice il direttore Artistico, Steve della Casa.
Eccome, no? Giustissimo. Mi aggiusto i pantaloni, tra poco saremo lassù, (non sul k2, più in basso…) insieme a coloro che hanno dato viso alle nostre immaginazioni, gli attori (un cast fantastico) a Robert, che alla nostra fabula ha dato corpo, a Mario Rossini e alla Rai, che a questo lavoro di scrittura hanno dato la possibilità di diventare un film. Non che speri, o speriamo io e i miei complici di scrittura, di dire chissà che. Ma anche esserci, metterci la faccia, e non solo la penna… sentire applauso del pubblico, prendersi un bravi… mica fa schifo.
E invece no. Perché di tutto il cast, gli unici che l’ineffabile Steve della Casa non chiama sul palco siamo proprio noi quattro: quelli che scrivono e immaginalo le storie senza le quali la grande macchina dei sogni eccetera eccetera… senza i quali la macchina del cinema non partirebbe.



Ma chi l’ha detto? Ma come chi l’ha detto. Proprio lui. Cinque minuti fa. L’ho sentito. Quando ha consegnato il premio Bixio… Evidentemente l’emozione dell’esordio gli ha giocato un brutto scherzo. Non importa. Leggo il mio nome sui titoli di testa e mi accarezzo l’ego. E mi dico, perché non sono solito pensar male, che si è trattato di un contrattempo.

Flash forward.

4 ottobre 2012, due giorni dopo.



Auditorium parco della musica. Roma Fiction fest. Tutto esaurito in ogni ordine di posti: la fiction, pur con tutte le sue incertezze e con qualche passo falso, tira ancora. E continua ad impersonare la narrativa popolare di questo paese.
Evviva, evviva, evviva.
Forse l’avevo già detto, ma vale la pena di ribadirlo.


Stasera il programma prevede un nutrito back stage di “Trilussa, storia d’amore e di poesia”, un bel film con Michele Placido, Monica Guerritore, Valentina Corti, per la regia di Ludovico Gasparini prodotto con grande dispendio di mezzi e di amore da Guido Lombardo per Titanus, e ancora una volta sotto l’egida di RaiFiction nella persona di Paola Masini.
E io cosa ci faccio lì?
Sono qui, ancora una volta, perché ho scritto la sceneggiatura assieme a Peter Exacoustos, e Alessandro Pondi, compagno di tante battaglie.
Sono qui perchè sono uno di quelli che scrivono e immaginalo le storie senza le quali la grande macchina dei sogni eccetera eccetera…

Evviva evviva evviva. 

Ma anche buona fortuna.
Eh beh, non può succedere la seconda volta. Ormai sono tre giorni che il festival è partito, vedo Steve tonico, con la sua non chalance da vecchio lupo di cinema e di fiction. Stavolta si darà a Cesare quel che è di Cesare, in questa bellissima fabbrica di sogni che è il cinema, fabbrica di squadra, che nasce dalla storia e prende carne attraverso il lavoro di molti sul volto degli attori. Ma questo, Steve lo sa, non serve che glielo dica io.
Evviva.
E invece no. Per la seconda volta, chiama sul palco tutti, non solo i primi ruoli, l’intero cast… e i poveri scribacchini no.
Ma come, non eravamo quelli che …?
E allora Cesare si prende quel che è di Cesare.
Non ci sto. Mi alzo, e anche non chiamato, mi avvio al palco. Alessandro, che in questi casi è impavido come un viet cong in giro promozionale, mi segue. Io invece mi sento un po’ Fantozzi, tutto preso da questa piccolissima ripicca che probabilmente nessuno nota, ma raggiungo il cast e per fortuna Paola Masini sta parlando in quel momento, e al volo presenta me e Alessandro alla platea. Grazie per le sue parole, e per gli ammicchii complici di Guido Lombardo, di Ludovico Gasparini, di Michele Placido. L’unico che ci guarda come se pensasse “Chi cavolo sono questi?” è Steve Della Casa. Per fortuna Paola Masini lo toglie dall’imbarazzo e ci colloca:  siamo gli autori della storia. Clap clap clap. Qualche applauso, ma l’abbiamo fatto solo per quello?
No.
L’abbiamo fatto perché pensiero ed azione non possono essere due binari separati, Steve.

Non basta dire che la sceneggiatura è la base di un film, incensarla, conferire premi, e poi ignorarla. Perché se questa nobile arte è costretta ad entrare sempre dalla porta di servizio, di straforo, allora la forma e la sostanza si perdono. E la forma e la sostanza non sono due cose diverse. Sono la stessa cosa. Altrimenti ti rimangono solo i lustrini e le pailettes del red carpet. Che servono, ma che non sono il sogno.