Sono
consapevole di infilarmi in un ginepraio, soprattutto dopo gli sconcertanti avvenimenti
di Boston (riguardo alle quali, sia chiaro, vorrei esprimere una condanna senza
se, senza ma, e senza distinguo), ma la cosa che mi ha più colpito di Homeland
è che, ancor più della prima, in cui questa tendenza era già marchio di
fabbrica, in questa seconda stagione è veramente impossibile capire chi ha
ragione fino in fondo, e chi viene mosso da ideali non contaminati da calcoli
personali o da cadaveri nell’armadio.
Ma
d’altra parte questa, in cui la serie sta stracciando ogni record di ascolti
non è più - per fortuna - l’America dello sceriffo ottuso George Bush junior,
dove il bianco era candido a costo di chiudere gli occhi all’evidenza e il nero
così nero da non credere che possa esistere in natura.
Non a
caso Homeland, serie remake della israeliana Hatifum, che ha negli Stati uniti
superato qualsiasi più rosea aspettativa, facendo incetta di premi, e superando, nella seconda stagione, i
già notevolissimi risultati di ascolto della prima, è ufficialmente la serie tv
preferita da Barak Obama.
Serie in
cui il dubbio metodico prevale sulle certezze della grande provincia quacchera
statunitense, ed in cui la verità è più sfumata di quel che raccontano lo
sventolio della star and stripes e le fanfare dei Marines.
Certo,
una serie sulla minaccia araba non è, dopo l’11 settembre, la cosa più
originale del mondo, ma originale, certamente, ne è la lettura.
Non è
più tempo, per fortuna, per film pseudo eroici in cui il machismo
testosteronico dei sani figli dell’America tirati su a corn flakes viene contrapposto a truci arabi sempre e
comunque cattivi e spietati, privi di umanità, doppiogiochisti e che sicuramente
puzzano anche un po’.
Il plot di
Homeland è ben noto, ma chi ancora non ha visto il pirotecnico finale di
stagione può star tranquillo, non farò nessun tipo di spoiler.
Il
rientro di Brody è da martire e da eroe
americano, ma lei l’agente Cia tormentato – che si accusa di non avere saputo prevedere
l’attentato delle due torri - sospetta che in realtà sia passato al nemico, e
che sia tornato in patria come quinta colonna, allo scopo di compiere un altro attentato,
altrettanto sanguinoso. Ha ragione, ma nessuno le crede, anche perché la
poverina soffre di un disturbo bipolare che la rende poco affidabile.
E per
giunta, mentre tra i due si instaura una complessa relazione di competizione,
passione e sesso, Brody, sull’onda dell’immagine nazional popolare dell’eroe
stelle e strisce sopravvissuto ai cattivoni, si vede aprire la strada del
congresso e della carriera politica, che fa intravvedere, in fondo alla strada,
il peggior incubo di qualsiasi americano per bene: un terrorista di Al Queda
alla Casa Bianca.
Ma quel
che mi interessa, come sceneggiatore e come spettatore di serie tv (in questo
momento ben più stimolanti di molto cinema, nostrano e non) è che Homeland, più
di ogni altra serie negli ultimi anni, ha del tutto archiviato il clichè del
buono buono, e del cattivo cattivo, per sostituirlo con il grigio – sia pur di
varie tonalità – di cui è fatta la vita.
Ed è
andata molto oltre, non offrendo al povero spettatore, anestetizzato dalle
tranquillizzanti categorie manichee della fiction nazional popolare (anzi, di
certa fiction. Altra, per fortuna mia e vostra, si salva ancora.), non dei cliché,
ma disegnando dei personaggi appassionanti
e complessi, appassionanti anche perché ambigui, concedetemelo. Non
inquadrabili.
Carrie
ama Brody? O lo sta usando per sconfiggere il terrorismo? Brody ama Carrie? O è
la sua garanzia di non finire a Guantanamo? E Jessica, la moglie di Brody, lo
ama o fa un altro gioco?
E Saul, il capo di Carrie, si fida ancora di lei? O la
sta sfruttando per non si sa quale scopo? E l’Fbi da che parte sta?
Lo
sceneggiatore sa bene che le storie tv (ma in generale, tutte le storie…) sono
costruite su setup (semina di aspettative da parte del pubblico) e payoff
(passaggio alla cassa emozionale, con la riscossione delle conseguenze
drammaturgiche della semina iniziale).
Il bello
di Homeland è che ad oggi, dopo due serie, ne’ io ne’ gli altri spettatori
sappiamo dire se abbiamo investito emozionalmente sui buoni o sui cattivi.
Proprio
così. La domanda di fondo è da che parte sta il giusto e il diritto. E Homeland
non vuole, e forse non può, dare risposta. Perché in Homeland è tutto sfumato,
contraddittorio, poco definito. Come capita, nella gran parte dei casi, nella
realtà quotidiana.
Ma c’è
di più. Verso la fine della serie, c’è un confronto acceso tra la nostra Carrie e Abu
Nazir, lo sceicco capo della cellula di Al Queda che sta organizzando un attentato sul suolo
americano.
Quest’ultimo,
all’accusa di Carrie di essere un terrorista risponde con la domanda: e voi,
che bombardate gli asili coi vostri droni, non lo siete?
Una
domanda non nuova, certamente, ma che per la prima volta ci appare, per come è stata
messa in scena, legittimamente posta: in termini - diciamo così - politicamente
corretti. Il che non significa che la risposta sia necessariamente sì, ne’ che
chi vi scrive sia filo - Al Queda.
Significa
però che per la prima volta, esplicitamente e legittimamente, l’America si
interroga sui suoi crimini e sulle sue colpe, che ovviamente non giustificano
la bestialità degli attentati, ma che riportano la visione del mondo
contemporaneo in una prospettiva leggermente più equilibrata e meno
yankee-centrica.
E’
l’America di Obama, dicevamo. Si guarda e non si vede poi così bella o così
diversa da quella di Bush. E’ ancora un’America dove i politici giocano una
battaglia di potere e di profitto personale, e dove i servizi segreti
rispondono autoreferenzialmente solo a sé stessi.
Ma è
anche un’America, e questa mi sembra davvero la novità,che si interroga sulle
ragioni del nemico, si chiede cosa ci sia nel cuore del carnefice.
E lo fa
non sullo striscione di un manifestante oltranzista o radicale, ma in una
fiction di prima serata da record di ascolti.
Se vi
pare poco, a me no.
estratto dalla mia rubrica: Stanlio e Logli
su: Liberos, la comunità dei lettori Sardi.
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