E se, in mezzo a tante voci che rimpiangono
l’artista, per una volta, ci si soffermasse a pensare al momento?
E se ogni tanto parlassimo di cose
importanti, come la morte?
Avviso ai lettori: il post che segue
potrebbe essere estremamente sgradevole, perché parla di vita privata, di sentimenti intimi,
e di senso dell’esistenza.
Ieri sera, nel corso di un concerto in provincia di Matera, Mango è stato colpito da un attacco di cuore. Che non l'ha risparmiato. La notizia la sanno tutti, ormai. E' girata e sono moltissimi coloro che hanno scritto e diffuso messaggi di cordoglio.
Non voglio aggiungerne un altro, ma affidare alla carta (! seppur telematica) alcune riflessioni. Provo a farlo cercando di non finire mani e piedi nella retorica che purtroppo in queste occasioni si spreca.
Senza pretendere di dare nessuna
spiegazione, per carità, chi siamo noi per spiegare una cosa talmente grossa
come vivere.
Però, si sappia, il post che segue non è un
post politically correct.
Nel senso che si interroga sul nostro stare
a questo mondo.
Lo ripeto, senza risposte. Magari averne.
Ho ceduto, come molti, alla tentazione di
vedere quel filmato che riprende gli ultimi attimi di Mango.
Non che avessi nessuna particolare
inclinazione nei suoi confronti, mi dicono fosse una brava persona, a me è
capitato di incrociarlo a Sanremo, quando partecipò all’Ariston ad una
trasmissione tv che ho scritto, ma troppo poco per dire di conoscerlo. E troppo
poco conosco la sua opera per dire se era o no, un grande artista.
Ma come tanti altri, a giudicare dai clic,
sono andato a vedere gli ultimi attimi della sua vita. E non credo di dovermi
giustificare, è umano, molto umano guardare ad un attimo estremo.
L’ho guardato con la
consapevolezza che è un attimo di tutti, anche mio.
E che è certo.
E nonostante questo,
tremendamente sottovalutato, o ignorato.
L’ho fatto, come molti altri, perché
in quel filmato c’era l’attimo, quello in cui si scavalla il crinale, e si va,
forse, di là.
O forse, per altri, semplicemente,
si spegne la luce per sempre, e addio tutto.
E allora che problema c’è.
Prima c’eravamo, dopo no, clic.
Ho guardato il filmato e l’ho
fatto anche perché mi colpisce personalmente, la morte per infarto. Una morte
che mi fa sentire in un qualche senso miracolato, perchè da lì sono passato ho
attraversato, e sono qui.
Premiato a prescindere dai
meriti, come se gli anni dopo quell’evento, che ho vissuto, fossero regalati.
Sia chiaro, non ci vedo niente di speciale
nella mia vicenda personale, che condivido con centinaia di migliaia di persone
che ogni anno, nel mondo hanno un attacco di cuore. E già che ci sono, non ci
vedo nulla di speciale nella mia vicenda personale, punto.
Ma delle considerazioni mi viene di farle.
Dopo il suo infarto, Roberto
Vecchioni, nell’Album Blumùn, affidò a Gene Gnocchi il difficile compito di
impersonare Dio, che quasi sorride di quel sentimento che evidentemente è così
comune a chi l’ha scampata:
Vecchioni, Vecchioni... già il nome che hai avuto in
sorte,
Vecchioni... ma non ti dice niente? E continui a
rubarmi giorno dopo giorno, anno dopo anno... e io
a concederli questi anni e sai perché?
Ogni anno che passa, mi piace vedere la tua faccia
da viaggiatore di commercio che ha scoperto al
casello che c'è lo sciopero e non si paga e fa la
faccia seria ma dentro... ride.
E’ esattamente la sensazione che
ho io: che ogni attimo - dopo quell’attimo - sia solo il regalo di un
casellante distratto che si è dimenticato di chiedermi il pedaggio.
Nel video del concerto, il suo
ultimo, ma lui non lo sapeva, per fortuna, che era l'ultimo, Mango cerca disperatamente di
continuare a cantare, la sola cosa
importante, la sola che volesse fare, in ogni caso quella a cui aveva dedicato
la vita.
Sono andato a cercarmi i suoi
testi, non conoscendo moltissimo della sua opera, ed ho trovato questa:
Siedi qui
e getta lo sguardo giù
tra gli ulivi
l'acqua è scura quasi blu
e lassù
vola un falco lassù
sembra guardi noi
fermi così
grandi come mai
guarda là
quella nuvola che va
vola già
dentro nell'eternità
La canzone si chiama “Mediterraneo”,
forse l’ho anche sentita, giuro, non c’è snobismo, semplicemente amo un altro
tipo di musica. Ma mi pare che si riconosca, in quelle parole la vertigine di
cose e pensieri troppo grossi per contenerli tutti.
Ecco, forse di questo dovremmo
parlare.
Quanto meno, di questo sto
tentando di parlare io. Magari per dire che la mia ricerca è durata anni – dura
tuttora - ma non ha portato nessuna parte.
Magari per dire che quando penso
a queste cose, leopardianamente, mi sperdo e contemporaneamente mi sento
cullato.
Mango, ieri sera, su quel palco, non
cantava “Mediterraneo”, ma “Oro”, il suo brano più celebre, che conosco anch’io.
(Lo cantò anche quella sera, all’Ariston di Sanremo, quando ci conoscemmo)
Su un piccolo palco a Matera o
nelle vicinanze, perché la vita degli artisti è fatta di una lunga sequela di
date e di piccole e grandi piazze, e non solo dell’Ariston.
Eccomi qua
sono venuto a vedere
lo strano effetto che fa
la mia faccia nei vostri occhi
e quanta gente ci sta
e se stasera si alza una lira
per questa voce che dovrebbe arrivare
fino all'ultima fila
oltre al buio che c'è
e al silenzio che lentamente si fa
e alla luce che taglia il mio viso
improvvisamente eccomi qua
C’è qualcosa che colpisce
fortemente l’immaginazione, nell’andarsene su un palco, mentre si canta, e
mentre si canta la propria canzone più famosa. Affermando la vita con uno degli
atti che più di tutti la sanno descrivere e celebrare: suonare.
No, non parlo di “gioia di vivere”;
parlo di omaggio all’esistenza. Questo si fa, io credo, quando si canta, si
recita, si scrive, si dipinge.
Anche, questo.
Si omaggia questa “esistenza
tremante” che vorrebbe maggiori spiegazioni. Che le implora.
C'è un poemetto di Pascoli, purtroppo relegato tra le cose che ti obbligano a studiare a scuola, e - quindi - tra le cose che ti affretti a dimenticare appena finisci, il cui incipit recita così:
Uomini, se in voi guardo, il
mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell'eterno vento;
voi vedo, fermi i brevi
piedi al loto,
ai sassi, all'erbe dell'aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.
Oh! voi non siete il bosco,
che s'afferra
con le radici, e non si getta in aria
se d'altrettanto non va su, sotterra!
Oh! voi non siete il mare,
cui contraria
regge una forza, un soffio che s'effonde,
laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.
Eternamente il mar selvaggio
l'onde
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde.
Ma voi... Chi ferma a voi
quassù le piante?
Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti
a questa informe oscurità volante;
che fisso il mento a gli
anelanti petti,
andate, ingombri dell'oblio che nega,
penduli, o voi che vi credete eretti!
Ma quando il capo e l'occhio
vi si piega
giù per l'abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichìo di Vega...?
Allora io, sempre, io l'una e
l'altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d'erba, per l'orror del vano!
a un nulla, qui, per
non cadere in cielo!
Ma poi, nel filmato, con la voce
che si rompe, come se si rendesse conto che sta per fare qualcosa che non si
fa, che non sta bene, Mango dice: “Scusate”.
Ecco, adesso anche io sto per
fare qualcosa che non si fa, sto per parlare di cose intime, private.
Perché vedete, quello
"scusate" io l'ho riconosciuto.
L'ho vissuto, identico, cinque
anni fa. “Scusate” è solo un attimo tra la battaglia che hai combattuto per
scacciare la marea che monta, e il momento in cui ti travolge.
Solo che io sono qui a
raccontarmelo, e lui, no, pace all'anima sua.
Però conosco esattamente le
sensazioni che stava provando da qualche minuto, quel fastidio dentro che “…ora
passa, lascia che vada”, quella paura di ammettere che qualcosa sta succedendo,
prima di decidersi a dire “Scusate”, perché da qualche minuto stava cercando di
ignorare qualcosa che - se smetti di ignorarlo - diventa reale.
E poi "Scusate".
Dice.
Dice l'ammissione della propria
fragilità. del fatto che hai capito che quella battaglia non puoi vincerla se
non abbassando le braccia e sperando che la corrente del destino sia clemente.
Nelle rappresentazioni medievali, spesso, la morte è associata ad un motto socratico che per molti è una reminiscenza ginnasiale:
γνῶθι σεαυτόν
Gnothi seautòn, cioè conosci te stesso.
E allora.
In quella stessa canzone, di cui parlavamo prima, Blumùn,
Vecchioni si premette di rispondere a Dio, nientemeno (ancorché impersonato da Gene
Gnocchi, che, lo ammetto, lo rende un tantinello meno autorevole, all’Essere Perfettissimo
Creatore e Signore), e lo fa così:
Non mi dire più niente, sì lo so!
che ti ho fregato sugli anni, se lo so!
Ma gli anni io li ho amati da incosciente,
ad uno ad uno senza preferenze:
e ridarteli indietro brucia un po'.
Non rimpiango le cose che non ho, oh no,
sono molte, molte di più quelle che ho;
da Viaggiatore di malinconie
mi trovo a corto di furfanterie:
le stelle della mia sera sono mie
Mi sono avventurato in questo
intervento temerariamente, ora me ne rendo conto, senza sapere dove portasse,
senza risposte e senza interpretazioni.
Mi rendo conto, a questo punto,
che non mi soccorre la conoscenza dei poeti, delle canzoni, delle scritture.
Forse
sì, mi viene in mente il passo iniziale dell’Ecclesiaste che ho sempre stampato
nel cuore, e che probabilmente qualcosa centra:
2 Vanità delle vanità, dice
Qoèlet,
vanità delle vanità, tutto è vanità.
3 Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno
per cui fatica sotto il sole?
4 Una generazione va, una generazione viene
ma la terra resta sempre la stessa.
5 Il sole sorge e il sole tramonta,
si affretta verso il luogo da dove risorgerà.
In questa visione, in questo
sguardo dall’alto che sorvola la storia e l’esistenza umana, ho percepito
sempre un senso ultimo, al quale – purtroppo per me – non sono stato capace di
dare il nome di una divinità. Ma è indubbio che quando ci pensi, e non sfuggi
alla domanda, ti rendi conto che è questa. Ed è solo una.
Almeno, così mi pare.
6 Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a
tramontana;
gira e rigira
e sopra i suoi giri il vento ritorna.
7 Tutti i fiumi vanno al mare,
eppure il mare non è mai pieno:
raggiunta la loro mèta,
i fiumi riprendono la loro marcia.
8 Tutte le cose sono in travaglio
e nessuno potrebbe spiegarne il motivo.
Non si sazia l'occhio di guardare
né mai l'orecchio è sazio di udire.
9 Ciò che è stato sarà
e ciò che si è fatto si rifarà;
non c'è niente di nuovo sotto il sole.
D’accordo, mi si potrebbe dire
che già vivere è così duro, senza pensare alla morte. Che già è dura ripartire
ogni mattina, trovare motivazioni, guardare oltre, in un momento – almeno in
Italia – in cui sembra non ci sia futuro. Ma forse è proprio nelle domande
inevitabili che si annida una possibilità di speranza.
Ma forse, se non ci raccontiamo
questo, almeno una volta ogni tanto, di che cosa dovremmo parlare?
10 C'è forse qualcosa di cui si possa dire:
«Guarda, questa è una novità»?
Proprio questa è già stata nei secoli
che ci hanno preceduto.
11 Non resta più ricordo degli antichi,
ma neppure di coloro che saranno
si conserverà memoria
presso coloro che verranno in seguito.
Non lo so.
Chi sta leggendo. accolga con
indulgenza questi pensieri senza una vera direzione, che contengono anche un
gesto di rispetto per un uomo che ha varcato un limite.
E come i nostri vecchi, che si
toccavano il cappello entrando in una stanza in gesto di omaggio, anche io, vedendolo attraversare la soglia, gli
mando questo mio pensiero.