giovedì 1 novembre 2012

UN PASOLINI PRIVATO




A papà, a me me sa che la vita nun è niente.
Be', certo, la morte è tanta. Quando uno è morto, tutto quello che doveva fare l'ha bell'e fatto.

(da "Uccellacci e Uccellini")




La sera del 1975 Pier Paolo Pasolini raccatta alla stazione Termini Pino Pelosi, borgataro che fa marchette. Lo porta a mangiare, lui ha già mangiato, in una trattoria sul Tevere. Poi vanno ad Ostia, all'Idroscalo, e in macchina Pasolini fa a Pelosi "una cosa con la bocca". Niente eufemismi, perché non c'è nessun santino da lucidare. 
Pasolini era posseduto, dilaniato da un'ossessione sessuale nella quale, penso personalmente e me ne prendo ogni responsabilità, non era secondo il gusto di sporcare e sputtanare l'immagine dell'intellettuale organico che era suo malgrado agli occhi della gente, e che nel profondo odiava. Come odiava la nomenklatura ammuffita del PCI dal quale era uscito nei fatti ma al quale continuava ad essere accomunato nella vox populi.
Ma fatto sta.


Terminato il lavoretto, sostiene Pelosi - o meglio lo sostenne, poi dopo ci ripensò, poi "ora non ricordo", poi "non so"... - terminato il lavoretto scoppiò una lite per futili motivi, e il piccolo Pino la Rana, gracilino e figlio di un'Italia del dopoguerra delle borgate, sofferente e malnutrita, ebbe - dice lui, ma poi cambia idea, poi non ricorda, poi non sa... - la meglio su Pasolini, uomo forte, allenato, muscolare, ben piantato. Salvo un sacco di cose che è inutile che elenchi, perché è la stessa vecchia storia dei misteri italiani: una verità per la plebe, sparata dalla tv e dai giornali in coro, e un'altra per i Servizi Segreti e per la Casta.
Salvo il fatto che sulla scena del delitto le persone erano parecchie, e che i reperti dicono che il corpo di Pasolini è stato massacrato da un pestaggio scientifico, prima che la macchina guidata da Pelosi gli passasse sopra. Salvo i soldi in contanti che Pasolini aveva con sè, parecchi milioni, una cifrona all'epoca, che - probabilmente, ma si tratta di ipotesi - dovevano servire a ricomprare il negativo di "Salò", misteriosamente rubato giorni prima, e misteriosamente riapparso dopo la sua morte, senza riscatto.
Trappola? Scientifica eliminazione? 
Io non ho alcuna prova. Ma come scriveva lui, "io so".


Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. 




Ho risentito queste parole recentemente, all'Auditorium, nella splendida lettura che ne ha fatto Cosimo Cinieri per la regia di Irma Immacolata Palazzo, e la sala vibrava. 
Perché la verità è rivoluzionaria. 
Anche quando non sa o non riesce a farle, le rivoluzioni. 
O le viene impedito.

Ma non sono qui per ritornare su una realtà processuale che è evidente a prescindere da cosa tribunali e mezzi di informazione hanno deciso di farci credere.
Voglio invece, in questa notte, la notte dell’anniversario della sua morte, fare il mio piccolo e privato ringraziamento a Pasolini, perché è una di quelle tre o quattro persone che, se non ci fossero state, avrebbero fatto di me una persona diversa. O meglio, che se non ci fossero state, non avrebbero potuto col loro influsso far di me la persona che sono.
Uno è mio padre, e non è così scontato per tutti.
Un altro è Francesco Guccini, ed ho già avuto modo di dirlo.
Il terzo, senza alcun dubbio e con un brivido di fronte all'inarrivabile,  è Pier Paolo Pasolini.
Ricordo il nostro incontro come ricordo quelli con le persone importanti della mia vita, anche se avvenne sulle pagine di un libro. E chissà se a lui sarebbe piaciuto, così. Per me fu esaltante.

Era il 1980, e per l’esame di letteratura contemporanea all’Università di Pisa il corso monografico era dedicato a Pier Paolo Pasolini. Colpevolmente, o forse solo perché non era ancora il momento, non mi ero mai avvicinato alle sue opere.
La sua prima cosa che lessi fu “Le Ceneri di Gramsci”. E mi folgorò.
Lo so, sono altri i brani di Pier Paolo Pasolini che tutti citano e che tutti conoscono (o dicono di…): dall'invettiva contro i contestatori di Valle Giulia;

A Valle Giulia, ieri
si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi amici
(benché dalla parte della ragione)
eravate i ricchi.
Mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri.
Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi
ai poliziotti si danno i fiori, amici

…all’accorata commiserazione della mia generazione;

oh sfortunata generazione
piangerai, ma di lacrime senza vita
perché forse non saprai neanche riandare
a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto…

In ambedue i casi i suoi versi sono il soffio di un geniale non allineamento, di una lontananza da, per dirla con Lucio Battisti,  “facili entusiasmi e ideologie alla moda”. Cito Battisti non a caso, perché proprio questi versi nel testo di una sua canzone, "Con il nastro rosa", assieme ad alcune altre frasi estrapolate fecero partire la famosa polemica sul fatto che fosse fascista.


Il mio amico Renato Marengo racconta, nel suo bel libro sull’unica intervista a Battisti, fatta da lui per Ciao 2001 in occasione dell’uscita di Anima Latina, che alla domanda; “Lucio, ma tu sei fascista?” Battisti abbia risposto: “E che vuol dire fascista?” o qualcosa del genere. 



A me quella risposta pare illuminante di un’era in cui le barricate erano ottusamente manichee, in cui il bene era da una parte sola e si poteva raccogliere, in briciole così come era caduto dal palco dei comizi, alla fine delle feste di piazza: per terra, dove erano “sparsi, disordinatamente, i vuoti a perdere mentali abbandonati dalla gente…”, e in cui il libero pensiero era una malattia infettiva da eliminare. 
E su questo erano d’accordo tutti.
Di quel geniale non allineamento di Pier Paolo Pasolini mi sentii immediatamente fratello, io che, per i miei astrusi interventi alle assemblee di istituto, ero stato battezzato dagli apprendisti caporioni,  i “capintesta con i distintivi sfavillanti” come “L’Anarchico Fascista”.

Mi sentii ancora più fratello quando, sostenendo queste stesse cose, con l’arroganza dei vent’anni, lo concedo, all’esame di letteratura contemporanea, docente Walter Siti (perché non dovrei fare il nome, visto che si tratta di una attuale gloria dell’intellighenzia post PCI…) mi vidi offrire un voto inferiore alla mia preparazione, fatta di mesi di ostinato studio meticoloso, “matto e disperatissimo” da innamorato perso, sull’intera opera di Pasolini, sul quale, come detto, si era tenuto il corso monografico.
“29” Sentenziò lo zar rosso, con uno sguardo sprezzante.
“Ma sa tutto…” protestò, debolmente, l’assistente.
E il Siti, dal suo trono:“Sì, ma parla troppo e fa troppe chiacchiere.”

Diedi quell’esame 3 volte. Sempre 29 fu.
Direte: e ti lamenti? Sì.
Perché era la prima volta che sperimentavo la censura ideologica. Non disse: “non è preparato” bensì: “è preparato ma fa troppe chiacchiere” leggi: esce dal seminato, dal preconfezionato, da quel che è bene pensare per essere progressisti.
Eh no. Non ci stetti. E persi un anno per scoprire che se il potere ha deciso, ti fai male solo tu. Alla quarta volta, accettai il 29.
Le esilaranti avventure dell’anarchico fascista.

Ma poi sai che c’è? Mi piace talmente tanto, questa definizione - l'Anarchico Fascista - , che me la tengo ancora oggi, mentre mi proclamo figlio di quel soffio, di quella divergenza non parallela che fu rappresentata proprio da Pier Paolo Pasolini, finché non diede troppa noia al cartello italiano fatto di Servizi Segreti Deviati, Banchieri di Dio, Petrolieri Democristiani, Miglioristi e Miglioratori, Agenti della Cia e miopi sostenitori del compromesso storico, finché non diede troppa noia, finchè non disse: "Io so."
...e allora quella divergenza fu fatta sparire.
Ma era tardi, la ventata ormai c'era stata.
Era stato un soffio che ancor oggi, a volte, con fatica, e con orgoglio, mi riesce ad imitare.



E così. in quel crepuscolo di anni ’70, quelli dei Pink Floyd, del progressive, delle occupazioni, degli indiani metropolitani, del “Vietato vietare”, la lettura de “Le ceneri di Gramsci” mi folgorò. Non tanto (o non solo) per l’aspetto civile o politico, ma soprattutto per la descrizione esatta di un conflitto che stava dentro di me e che mi ha accompagnato come uomo, prima ancora che come scrittore, per il resto della vita. Un conflitto, che allora, con il disperato egocentrismo di adolescente, credevo fosse solo mio:

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un’ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell’estetica passione...



Ecco. Pasolini scriveva, e io mi vedevo proiettato dalle sue parole sul muro della mia stanza, in una metaforica moviola: lo scandalo di non essere all’altezza dell’ideale, o degli, ideali, lo scandalo di amare la leggerezza e non la pesantezza ideologica dei miei anni settanta (comunque tanto amati), di amare il rock per come suonava e non per gli slogan di partito che a volte si sforzava di inoculare, di prediligere le vasche in centro e le compagnie femminili così difficili da ottenere alle polverose riunioni di parrocchia, cellula o sezione. 
Di essere istintivamente portato al dubbio, allo scetticismo e all’ironia, che troppo a lungo e troppo dolorosamente mi avevano creato un fardello negli anni del liceo: fardello di un non allineato, qual ero, seguace del dubbio metodico, che ad ogni intervento in assemblea, scendendo dal palco, veniva avvicinato dal caporione di turno che studiandolo in tralice, e cercando di identificarlo, come fosse un Ufo, gli chiedeva: “Ma tu… sei anarchico, o sei fascista?”

Ecco, quello ero io.
E in quel 1980 in cui per la prima volta mi avvicinai alle sue parole, Pasolini mi rivelò - lo fece in esclusiva, mi parve, a me solo e non ad altri - che era possibile. 
Sì. 
Era possibile essere insieme passione e ideologia, ma contemporaneamente nessuna delle due. 
Che era possibile aspirare all’ideale ma insieme cogliere quanto possa essere caduco e insufficiente, di fronte alla grandezza della vita, al desiderio di Eterno, di Giusto, di Perfetto.
Che era possibile credere nel futuro, eppure cogliere che a nessuna ideolologia si dovesse e si potesse appaltare o consegnare a scatola chiusa la propria esistenza e la propria voglia di Infinito.
Meno che mai, a qualunque idea che si autoproclamasse infallibile, superiore, ed eterna.


Ecco, questo mi ha regalato Pier Paolo Pasolini, in quello scorcio di 1980. 
Mi ha confidato che non ero solo, che non ero un errore dell’evoluzione, ma che condividevo con molti altri spiriti liberi l’insofferenza al dogma. 



A qualsiasi tipo di dogma.

Poi sono venute le letture appassionate di Ragazzi di Vita, Una vita violenta, la visione incantata di Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e uccellini, e Teorema. 
Nelle quali ho scoperto l'intellettuale arguto, lucido e tagliente genuflesso nel profondo della propria anima martirizzata, e la disperata implorazione di un Infinito che si rifiuta di rivelarsi, l''urlo muto di un bisogno struggente e viscerale di un “centro di gravità permanente”, una chiave di volta che il Partito non era stato capace di rappresentare e che il Dio dei cristiani continuava a ostinarsi a non divenire. 
Poi ho scoperto la sua ricerca ossessionante, al di sotto dei paramenti e delle liturgie di duemila anni di potere temporale, dentro il campo seminato a "Cielo e Denaro, a Cielo e ad Amore", perché la religione cattolica era pur sempre la sua radice, suo malgrado, nella speranza di trovare quel Verbo, quel gesto, quella Parola di Verità che finalmente ti liberi e ti renda nuovo.
E che non arrivò, perché tutto finì. 

Successe quella notte di 37 anni fa, su un piazzale sterrato dell’idroscalo di Ostia, con le labbra ancora sporche di umori maschili.




Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un’ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell’estetica passione...



Così voglio ricordarlo, in questa notte tra il primo e il due novembre, che segna i 37 anni dalla sua morte. Morte misconosciuta, taroccata, insabbiata, Ma voce limpida, cristallina, impossibile da mettere a tacere.
Certo, i suoi meriti di poeta e di scrittore civile sono molti altri, e tutti noi li conosciamo. Ma ci saranno altri, a metterli in fila e a spiegarceli.
Io, avevo solamente da dirgli grazie per quel che mi ha regalato.
E l’ho appena fatto.

2 commenti:

  1. Un ottimo ricordo Paolo. Pasolini è stato un uomo libero e, purtroppo, la morte lo ha còlto ancora prigioniero della sua stessa libertà. A Pasolini sono mancati il tempo e la forza che lo avrebbero spinto verso la speranza e verso l'atto e/o l'opera eroica ("gli eroi son tutti giovani e belli"). Quella stessa forza che tu Paolo hai magistralmente connotato e rappresentato in "Quis Ut Deus". Quasi a voler continuare il suo cammino dal punto in cui la morte lo ha costretto a fermarsi: la libertà dai condizionamenti ideologici e pseudo-politici dell'intellighenzia italiana. Grazie Paolo per questo tuo eccezionale ricordo di un intellettuale autentico di fine secolo (millennio).

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