sabato 31 maggio 2014

DEGLI EROI DI TUTTI I GIORNI - CONSIDERAZIONI SU "A TESTA ALTA"






C’erano due strade che avremmo potuto percorrere, Alessandro Pondi ed io, scrivendo la sceneggiatura di “A testa alta – I Martiri di Fiesole”, tratta dal bel soggetto di Leone Pompucci e Giovanna Mori.
La prima era semplicemente quella di mettere il pilota automatico, e mettere in scena i tedeschi cattivi che commettono soprusi sugli italiani buoni, come troppa narrativa e troppo cinema hanno fatto, narrando episodi della seconda guerra mondiale, soprattutto in quel periodo buio che va dall’otto Settembre ’43 alla fine reale del conflitto.
Sarebbe stato molto facile, e comodo, pescare qui e là qualche reminiscenza di grandi film come La notte di San Lorenzo, o suggestioni estetizzanti sul Reich, e mettere in scena il nazista ottuso o accecato dall’odio, privo di umanità contrapposto ad italiani che riassumono in sé tutti i pregi e i valori positivi di democrazia di libertà e di coraggio.

Ma questa ci è parsa da subito come un'occasione persa. Meglio cercare di capire, interrogarsi sulle ragioni di quel fatto, anche quelle del capo della guarnigione tedesca.



A Fiesole, nella piazza del paese, si fronteggiavano la piccola caserma dei carabinieri, cinque militi di poco più di vent’anni agli ordini di un vicebrigadiere (Giuseppe Amico) di poco più adulto, ed un comando tedesco agli ordini del Tenente Hiesserich, un soldato regolare, della Wermacht, non una SS, con tutto quello che comporta quella differenza.
Ci è parso più interessante narrare lo strano rapporto quasi di rispetto reciproco – rispetto dei ruoli militari prima di tutto, ma poi anche delle doti umane – che si instaurò tra i due comandanti, Amico ed Hiesserich.
Ci è parso stimolante, come scrittori, raccontare il capo della guarnigione tedesca di certo come un uomo tutto d'un pezzo e fondato sulle sue incrollabili certezze ideologiche, ma non un pazzo criminale o un esaltato. Sarebbe stato troppo facile.

Anche perché, ci pare di poter dire, sono spesso gli uomini normali, quelli che si illudono di cambiare il mondo dividendolo in buoni e cattivi, quelli che commettono i crimini peggiori. Se non altro, perché avrebbero la possibilità di esercitare il libero arbitrio, e non lo fanno.
Allo stesso modo, abbiamo voluto raccontare gli atti dei Carabinieri come il frutto di scelte dolorose e necessarie, ma senza nasconderne l’umana fragilità.
Lungi da me quindi minimizzare la durezza di quel conflitto, o ignorare che ci sono stati atti bestiali ed ingiustificabili, dalle fosse Ardeatine alla strage di Stazzema, per dirne due. Ma sarebbe stato troppo facile ridurre un atto di eroismo così umano e quotidiano come quello avvenuto a Fiesole il 12 Agosto 1944 ad un santino.
Invece, fin dal primo momento, abbiamo avuto la sensazione avvicinandoci alla storia di questi giovanissimi Carabinieri che il tema caldo, pulsante, fosse prima di tutto il ruolo che ognuno di noi deve necessariamente avere, nella costruzione di una convivenza civile.

E questo valeva non solo per i tre martiri, Alberto la Rocca, Fulvio Sbarretti e Vittorio Marandola, Medaglie d’oro al valor militare, ma anche per Sebastiano Pandolfo, medaglia d’argento, e per il loro commilitone Pasquale Ciofini,  colui che, sparando il colpo che uccise un soldato tedesco nel corso di un conflitto a fuoco, fu in qualche modo la causa di tutto. E soprattutto vale per il vicebrigadiere Amico, di pochi anni più grande di quei cinque ventenni, al comando di una stazione che sorgeva in quella terra di nessuno in cui, in quello scorcio di guerra, il potere centrale era anche meno di un’ipotesi.
Per noi è molto difficile immaginarlo, ma per un anno, dopo l’otto Settembre, la fascia centrale dell'Italia, che si stendeva tra la linea di avanzata americana e quella di ritirata tedesca era totalmente abbandonata a se stessa.

Il duce era a Salò, dove aveva fondato l’omonima Repubblica, Vittorio Emanuele III già il 9 Settembre era fuggito a Brindisi con tutta la corte, e lo stesso stato Maggiore dell’Esercito, per non correre il rischio di cadere nell’orbita di attrazione Tedesca si era auto-sciolto poco dopo.
Insomma, come facciamo dire ad uno dei Carabinieri ad un certo punto, non c’era più l’Italia. E proprio quei cinque ragazzi agli ordini di un vicebrigadiere erano, a Fiesole, ma probabilmente era lo stesso in molte parti d’Italia, l’unico riferimento per una popolazione spaventata, sconcertata, affamata ed abbandonata a se stessa.
Erano, l'Italia.

Ecco, questo ci interessava davvero. Raccontare come delle persone normali, con sogni normali “Sogni di tutti i giorni”, dice ad un certo punto Sebastiano Pandolfo, si trovino, per volere del Fato o di chissà chi altro, ad incarnare i valori, e capiscano che ci sono volte, e quella volta era una di quelle, in cui per quei valori si possono – e si devono – fare scelte estreme.
Alla fine di una escalation di sospetti che mina il rapporto di rispetto reciproco con Hiesserich e convince il tedesco a passare alle maniere forti, i Carabinieri sono accusati della morte del soldato tedesco, e quindi passibili a loro volta di una condanna a morte. Il primo a cadere è Sebastiano Pandolfo, fucilato assieme ad una giovane staffetta partigiana di appena 16 anni, ed i Carabinieri, che ben capiscono che il tempo della mediazione è finito, decidono di abbandonare la stazione e di unirsi alle forze di resistenza. Amico raggiunge la brigata Giustizia e Libertà a Firenze, dove ci si prepara a dare il segnale della rivolta attraverso i rintocchi della campana della Martinella. Ciofini ripara ai monti, e i tre carabinieri restanti, Alberto La Rocca, Fulvio Sbarretti e Vittorio Marandola si rifugiano nei ruderi romani fuori dal paese, pronti a passare le linee e raggiungere Firenze.

Ma a Firenze non arriveranno mai.
Il segretario del vescovo, mons. Turrini, li raggiunge per avvisarli che Hiesserich ha preso dieci ostaggi a caso (la solita triste tecnica di Kappler e di molti altri), e che li fucilerà se i tre non si consegnano al comando tedesco per essere giustiziati.


Ecco, credo che qui sia il nodo di questa storia. Lo dico pur comprendendo il rischio di sembrare banale. Sì, perché troppo spesso ci pare normale che un eroe faccia l’eroe. Ci pare normale che guardi il cielo e un raggio di sole gli batta in fronte. 

Ci siamo detti che probabilmente non è così, che una decisione come quella di consegnarsi e morire non può che nascere da un combattimento interno e da un devastante conflitto.
A chi obbedire? Ad uno Stato che non c’è? Ad un potere politico che come spesso succede si è defilato e messo in salvo? A qualche ideologia, in un momento in cui tutte le ideologie pretendono di avere la risposta, e per questo pretendono di dovere eliminare tutte le altre?
I carabinieri decidono di obbedire alla terra.



Non ad una terra astratta ma a “questa terra qui”, fatta di zolle, di tombe che conservano le ossa degli avi, di appezzamenti in cui nel futuro avrebbero costruito i loro sogni.
Sogni di tutti i giorni.
Ci è parso, ed è questo che ci ha appassionati nello scrivere questo film, ben interpretato da Giorgio Pasotti, Ettore Bassi, Marco Cocci, Johannes Brandrup, Andrea Bosca e David Coco, Nicole Grimaudo e Raffaella Rea, e il piccolo Filippo Agnelli, che il vero cuore pulsante di questa storia fosse qui.



Nella possibilità, che ognuno di noi potrebbe avere – anzi ha – di essere novità nel luogo in cui vive. E nell’evidenza del fatto che gli unici ideali che possono cambiare la vita sono quelli che assumono una forma umana, vivibile e condivisibile.
Nella scelta di quei tre ventenni di consegnarsi e morire fucilati, ci è sembrato ci potesse essere una risposta per tutti. Che travalica ideologie e massimalismi, perché è una risposta, per rubare la battuta che più amo di tutto il film, “di tutti i giorni”

mercoledì 28 maggio 2014

QUALCHE CERTEZZA SUL PREMIO PIGRO DEDICATO AD IVAN GRAZIANI


Ogni anno torno dal Pigro con qualche certezza. La prima, scusatemi la botta di presunzione, è di essere stato amico di un grandissimo musicista, di un grande cantautore e di una persona speciale.  E a questa certezza si aggiunge, ovviamente, il rammarico di quanto presto si sia interrotto tutto questo. Perchè Ivan, con la sua ironia scanzonata, con le sue fughe in avanti a cui seguiva quasi immediatamente quel distogliere d'occhi tipico di un timido che diventa aggressivo, era esattamente questo: una persona speciale.


Che non vuol dire dotata di particolari doni morali o intellettuali, o di una parure di verità rivelate. Vuol dire, a mio modo di vedere, una persona ricca, piena di capacità di empatia e di comprensione – e come altro potrebbe essere, viste le canzoni che scriveva – una persona che sapeva dimostrare affetto e soprattutto capace di stupirsi dell’affetto che riceveva. Perché mai ho avuto l’impressione che lo ritenesse dovuto, per il solo fatto di avere scritto cose stupende ed avercele regalate.

Lo stupore, mi pare, la sua capacità di guardare il mondo con gli occhi di un ragazzino, di ridacchiare per lo zio prete che scivola sulla buccia di banana, di incantarsi di fronte alla nebbia che sale – ad Urbino, nella fattispecie – mi pare una delle doti più belle di Ivan, insieme alla sua voglia di raccontarsi e raccontare storie e favole, di preti demoniaci, fuochi sulla collina che altro non sono che fari puntati sul campo (illuso, romantico e fesso), la stessa voglia che hanno gli adolescenti di sedersi attorno al fuoco e ascoltare o affabulare, stupire, sedurre e conquistare.



Ma insieme, quello stupore, quella capacità di farsi colpire dalla bellezza, di cogliere nelle durezze del quotidiano il segno di un senso – quale Ivan non sapeva, e spesso neanch'io, ma lo vedeva, e anch'io lo vedo – questa capacità di intuire che il bello non può essere per caso, ecco, questo sì, lo fa speciale.
La seconda certezza con cui torno indietro ogni volta dal Pigro Cantautori in Vigna è che Ivan Graziani ha avuto dalla fama e dal pubblico molto meno di quello che avrebbe meritato.



Sia perchè, in quello scorcio di anni settanta in cui la musica italiana - quella di cui val la pena di parlare - era divisa tra progressive e cantautorato, spesso troppo ermetico ed introspettivo (lo dico avendo amato quelle canzoni ed amandole ancora di amore imperituro), Ivan aveva aggiunto due ingredienti miracolosi che pochi altri, fino ad allora, avevano frequentato nella canzone d'autore: l'ironia e il rock. Per l’ironia, forse, anzi di certo, c’era anche Rino Gaetano. Ma per il rock, per lo meno nella canzone d’autore, c’era solo lui.
E Ivan, lasciatemelo dire, era un chitarrista della Madonna (che credo non se la prenda, se la uso come termine per definire l’assoluto): ricordo di avere, immeritatamente e temerariamente, suonato l’acustica insieme a lui in una ripresa che facemmo per Unomattina di Lugano addio. Sia chiaro, non si trattava di una esecuzione professionale, ma di un backstage simulato della serie ilgrandecantautoresuonacongliamiciil suopiùgrandesuccesso. Non che servisse il mio contributo, era un pegno di amicizia, a suonare ero una capra, ma a lui piaceva soprattutto perché la mia incapacità manifesta gli permetteva battutine ironiche e affettuose.
Ma sto divagando.
Torno dal Pigro certo che la capacità di Ivan di raccontare storie, piccoli film di vita di provincia e di coniugarli sulle pentatoniche e sulle seste del rock sia unica in Italia, e che abbia avuto meno visibilità di quanta meritasse. Verrà tempo per impegnarsi su questo, lo faremo. Lo dobbiamo fare.
Questa certezza è evidente soprattutto quando, nel corso delle esecuzioni delle cover fatte dai giovani finalisti del premio saltano fuori, improvvisi e luccicanti, dei cristalli di rock. Dei vincitori parlerò dopo, ma voglio dire che l’esecuzione di “Fame” un gioiello meno conosciuto di Ivan fatta dai Malamadre mi ha fatto venire I brividi.



I giovani, appunto. E questa è la terza certezza con cui torno indietro ogni anno dal Pigro. Ci sono in Italia moltissimi talenti musicali, giovani appassionati di musica e di polvere di palcoscenico e non carne da reality, e quei giovani hanno bisogno che sia dato loro spazio, visibilità, e soprattutto, consigli.
In questi anni ho visto vittorie a mani basse, per manifesta superiorità, come è stato nel caso di Angelica Lubian nel 2012, ma principalmente ho assistito a finali in cui il livello medio era buono, i musicisti tutti più o meno preparati, ma in pochi riuscivano ad avere il guizzo.

Capisco che siamo in un periodo in cui nessuno rischia, primi tra tutti I discografici che purtroppo non vendono dischi e quindi – e posso anche capirli – vanno sul sicuro. Ma capisco anche che senza un minimo di azzardo la musica muore.
Per converso, mi è parso che anche il concetto di azzardo dovrebbe essere messo a fuoco e discusso coi giovani. Perché gli azzardi che hanno cambiato la storia avevano sempre dietro una cultura e un pensiero. E invece, a volte, mi è parso che l’azzardo soprattutto nelle cover nascesse un po’ da un atteggiamento ‘o famo strano, che a mio parere difficilmente porta da qualche parte.
Mi fermo un attimo prima – spero - di diventare noioso e paternalista. Quest'anno il premio Pigro l'ha vinto Chiara Vidonis con Comprendi l'odio, e Adriano Tarullo e la sua Sband hanno conquistato il premio IvanCover con la loro versione di "Il prete di Anghiari" Auguri a loro, perchè se la buona musica prende la via del mondo, è sempre un'ottima notizia.

Voglio dire che però è bello ritrovarsi ogni anno insieme ad Annina Graziani, Filippo Graziani, Tommaso Graziani, a bere vino e parlare di rock. E a suonarlo e a sentirlo.


Ed è bello anche perchè lo si fa insieme a tanti amici di musica e di pensieri, che da un anno all’altro cambiano, ma poi alla fine fanno parte della stessa tribù. Duccio Pasqua ed Andrea Scanzi, i direttori artistici, e I membri della giuria: Fausto Pellegrini (Rai News 24), Elisabetta Grande (Radio1 Rai), Roberta Balzotti (GR1 Rai), Diletta Parlangeli (Il Fatto Quotidiano, Wired Italia), Mario Masi (Itali@Magazine), Gabriele Antonucci (Il Tempo), Fabio e Cristiano Furnari (Terre Sommerse), e negli anni Piji Siciliani, Nicola Sisto, Enrico de Regibus...

Detta così, sembra una cosa paludata ed istituzionale, ma per fortuna il premio si tiene in una vigna, quella delle cantine Zaccagnini, e la stanza in cui si riuniamo è piena di botti.
E quelle botti, sono piene di musica.

Che garantisce l’ultima certezza che mi porto via tornando dal Pigro. Che ci sarò ancora, l’anno prossimo.

Perchè ci sono cose che danno gusto alla vita.

mercoledì 21 maggio 2014

Un gran bel disco: ON THE WAY.







Quando dal pianoforte escono le note di “Era de Maggio”, riletta in un improbabile, ma trascinante tempo dispari, quasi un charleston sghembo,  improvvisamente mi trovo a Posillipo, in un Cafè Chantant. E’ l’alba del Novecento, e tutto sembra possibile.
Il gioco di prestigio, ad Alberto Pizzo, funambolo napoletano del pianoforte, in bilico tra Napoli, New York e Tokio, è già riuscito almeno tre quattro volte nel corso di questa serata di presentazione del suo nuovo
lavoro, On the Way. Ci ha caricati senza difficoltà sul suo tappeto volante fatto di tasti neri e bianchi e ci ha portati a Parigi, a New Orleans, a Londra, ed in giro per la Mitteleuropa.
Perché c’è tutto questo nella sua musica: gli echi di stanzoni di conservatorio in cui risuonano i Notturni e il Clavicembalo ben temperato, il fumo dei jazz club del Village che lo hanno ospitato nell’ultimo anno, e la voglia di giocare che arriva dal Brasile. E da Napoli, la sua Napoli.


Mi direte che è fin troppa roba, per farci un disco di successo popolare, e forse è vero. O meglio lo sarebbe, se tutti questi semi, nitidi lampi di musica e musiche che arrivano da ogni dove, non si fossero finalmente fusi in un progetto artistico personale, convincente, ed emozionante.
Conosco Alberto da qualche anno, e sono contendo di dire che sono suo amico, perché mi piace la sua purezza. Posso dire che le sue doti si
vedevano subito, erano evidenti fin dai primi passi nel mondo dello show Business, dove lo hanno introdotto il fiuto di Renato Marengo e la spericolata voglia di buona musica di Franco Bixio. Posso dire, da fan e da amico, che il musicista che ascoltiamo oggi, nella presentazione del suo nuovo CD, On the Way, è il risultato completo di quei presupposti, di quelle potenzialità che nella lunga frequentazione di quest’anno passato con New York e col Jazz americano sono finalmente esplose a creare un artista completo.
Non so se si è capito, il disco mi pare bellissimo, a prescindere dalle molte collaborazioni illustri che può vantare: Toquino, David Knofler, Mino Cinelu... 


Il concerto di presentazione, in forma di recital per piano solo,infatti,  ha dato immagini, brividi, applausi di ammirazione.
Che dire: è nato un grande pianista? No, perché Alberto un grande pianista lo era già.
Però, questo sì, è finalmente sbocciato.

giovedì 8 maggio 2014

PERE LACHAISE - RACCONTI DALLE TOMBE DI PARIGI (SECONDA)






Mi è parso, ma potrei sbagliare, anche se ho davvero la sensazione di no, che dentro questa antologia ci siano righe scritte col cuore. Il che, per quanto mi riguarda, è parecchio, anche se non tutto. Il resto, ovviamente, è che le righe, oltre che scritte col cuore, siano scritte bene.

Ed anche in questo caso, se si escludono le mie, scritte un po’ per istinto, un po’ per amore della musicalità, mi è parso che ci fossero, qui e là righe che vale la pena di leggere, e di ricordare.

Parlare di un’antologia è sempre un impegno rischioso. Se si parla del proprio lavoro si rischia di passare per egocentrici e per autoreferenziali. Peggio mi sento se si parla del lavoro degli altri. In un’antologia che raccoglie più di venti racconti, con che criterio scegliere? Perché parlare di uno piuttosto che di un altro?

Perché mi piace, direte. Eh, magari fosse così facile. Dietro un’antologia si avviluppa una rete di relazioni e di rapporti, corrispondenze di amorosi sensi, scambi di suggestioni e di idee che rendono davvero difficile prendere una posizione – quantomeno – pubblica.

La verità è che Pere Lachaise - Racconti dalle tombe di Parigi, una raccolta di scrittori italiani edita da Ratio et revelatio, una editrice rumena, è davvero un’idea fichissima, lo posso dire?
Si commenterà che non vale, visto che ci ho scritto. Un po', è vero. Ma solo un po'.
Perché mè parso, fin da quando Laura Liberale me ne parlò per la prima volta, che parlare di un cimitero e – quindi – fermarsi a riflettere sulla morte, fosse una azione che ha un profondo valore culturale, in un’era priva di memoria e profondamente dimentica del senso delle cose.

O meglio ancora, dimentica ed incapace di chiedere alle cose di rivelare il proprio senso.

Ecco allora che scrivere un racconto guardando una lapide, e cercando in un qualche modo di farsi rivelare il senso che sta dall’altra parte è un’impresa che mi ha fin da subito coinvolto e appassionato.

Laura è così. E' capace di perseguire l'impresa con una determinazione insieme mistica e guerriera che me la fa pensare, nella mia immaginazione, un po' Eva Kant, un po' Giovanna d'Arco. E con la stessa mistica ostinazione ha raccolto, editato, rotto le scatole, riscritto, ripensato. Mica da tutti, ma non ne ho mai dubitato.
Poi, ci sono state le sorprese, e la sorpresa più grande di tutti me l’ha data quello dal quale, più di tutti, ero preparato a farmi stupire. Il mio fratello di sangue sardo, e di letteratura: Francesco Frisco Abate.

Ci accomuna, forse, il fatalismo proprio della gente dell’isola. Ma ancor di più, ne sono certo, ci accomuna un’esperienza che condividiamo con milioni di persone nel mondo, e che non pretendo essere speciale, se non per il semplice fatto che è la mia: l’esperienza del proprio non essere eterni, dell’avere sperimentato, per così dire, il proprio essere a termine.

L’aver contato, scanditi dal suono di un un bip di un monitor della frequenza cardiaca, i secondi lunghi della notte, soprattutto quelli delle ore del lupo. Le ore piccole, che si chiamano così perché sono composte di poche lettere, una, due, tre, ma anche perché sono riempite di poche cose, per chi è sveglio. In certi casi che sono quelli a cui alludo, soprattutto di silenzio e di attesa.

Non ho scritto questo per guadagnare la facile solidarietà che si tributa in questi casi.

L’ho scritto per dire che la pacatezza disincantata – quasi il senso di necessità, starei per dire – con la quale Francesco, nel suo racconto “Sex toy” ha raccontato quel buco lievemente sfuocato che si apre sulla superficie della realtà nel posto dove prima c’era un amico, un uomo, una amante, qualcuno a cui abbiamo voluto bene e ora non c’è più… beh, credo che mi basti e mi avanzi come premio per avere scritto poche pagine, di certo non le più belle, di questa antologia.

L’ho voluto dire, perché Francesco sa quando sia schivo e refrattario ai complimenti gratuiti, e sa che non li farei mai, se non venissero dal cuore.

Ma ovviamente – pur nella consapevolezza della propria, artigianale pochezza – un pezzettino di cuore l’ho lasciato anche appoggiato sul mio “Voilà, Mr. Mojo Risin’”, nel quale mi sono spericolatamente concesso di scrivere di Jim Morrison, come se non fossi solamente l’ultimo dei tanti postulanti che tentano improvvidamente di vivere di luce riflessa da tanto genio.

Però sono abbastanza contento di avere scritto questo raccontino, perché mi è riuscito di dire una cosa che forse pare banale, ma a guardare il panorama musicale odierno – martoriato da Marie e da bambocci da reality - forse così tanto banale non è: che allora, in mezzo alle sette note, o officiando il rito delle dodici battute, i musicisti cercavano qualcosa, una chiave di volta, una spiegazione per il vuoto. Una rotta verso il tutto o verso il nulla, indifferentemente.

Mi è riuscito a dire qualcosa di cui sono orgoglioso. Che ho conosciuto una musica, e gente che la faceva, il cui tema non era – o non era solamente – lo show business, ma il sogno.


Fosse esso sogno di libertà, di infinito, di giustizia.

Sogno, e non illusione.

Sogno, perché si credeva di poterlo realizzare.

E, non so voi, ma ho trovato bellissimo potere affermare tutto questo di fronte alla lapide di una tomba. Forse, per lo stesso motivo per cui ho amato il racconto di Francesco. Che voglio prendere come esempio di tutti gli altri, che ho amato, e che poco alla volta, racconterò.



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