Mi è parso, ma potrei sbagliare, anche se ho davvero la sensazione di no, che dentro questa antologia ci siano righe scritte col cuore. Il che, per quanto mi riguarda, è parecchio, anche se non tutto. Il resto, ovviamente, è che le righe, oltre che scritte col cuore, siano scritte bene.
Ed anche
in questo caso, se si escludono le mie, scritte un po’ per istinto, un po’ per
amore della musicalità, mi è parso che ci fossero, qui e là righe che vale la
pena di leggere, e di ricordare.
Parlare
di un’antologia è sempre un impegno rischioso. Se si parla del proprio lavoro
si rischia di passare per egocentrici e per autoreferenziali. Peggio mi sento
se si parla del lavoro degli altri. In un’antologia che raccoglie più di venti
racconti, con che criterio scegliere? Perché parlare di uno piuttosto che di un
altro?
Perché
mi piace, direte. Eh, magari fosse così facile. Dietro un’antologia si
avviluppa una rete di relazioni e di rapporti, corrispondenze di amorosi sensi,
scambi di suggestioni e di idee che rendono davvero difficile prendere una
posizione – quantomeno – pubblica.
La verità è che Pere Lachaise - Racconti dalle tombe di Parigi, una raccolta di scrittori italiani edita da Ratio et revelatio, una editrice rumena, è davvero un’idea fichissima, lo posso dire?
Si commenterà che non vale, visto che ci ho scritto. Un po', è vero. Ma solo un po'.
Si commenterà che non vale, visto che ci ho scritto. Un po', è vero. Ma solo un po'.
Perché mè
parso, fin da quando Laura Liberale me ne parlò per la prima volta, che parlare di un
cimitero e – quindi – fermarsi a riflettere sulla morte, fosse una azione che
ha un profondo valore culturale, in un’era priva di memoria e profondamente
dimentica del senso delle cose.
Ecco
allora che scrivere un racconto guardando una lapide, e cercando in un qualche
modo di farsi rivelare il senso che sta dall’altra parte è un’impresa che mi ha
fin da subito coinvolto e appassionato.
Ci
accomuna, forse, il fatalismo proprio della gente dell’isola. Ma ancor di più,
ne sono certo, ci accomuna un’esperienza che condividiamo con milioni di
persone nel mondo, e che non pretendo essere speciale, se non per il semplice
fatto che è la mia: l’esperienza del proprio non essere eterni, dell’avere
sperimentato, per così dire, il proprio essere a termine.
L’aver
contato, scanditi dal suono di un un bip di un monitor della frequenza cardiaca,
i secondi lunghi della notte, soprattutto quelli delle ore del lupo. Le ore
piccole, che si chiamano così perché sono composte di poche lettere, una, due,
tre, ma anche perché sono riempite di poche cose, per chi è sveglio. In certi
casi che sono quelli a cui alludo, soprattutto di silenzio e di attesa.
Non ho
scritto questo per guadagnare la facile solidarietà che si tributa in questi
casi.
L’ho
scritto per dire che la pacatezza disincantata – quasi il senso di necessità,
starei per dire – con la quale Francesco, nel suo racconto “Sex toy” ha
raccontato quel buco lievemente sfuocato che si apre sulla superficie della
realtà nel posto dove prima c’era un amico, un uomo, una amante, qualcuno a cui
abbiamo voluto bene e ora non c’è più… beh, credo che mi basti e mi avanzi come
premio per avere scritto poche pagine, di certo non le più belle, di questa
antologia.
L’ho
voluto dire, perché Francesco sa quando sia schivo e refrattario ai complimenti
gratuiti, e sa che non li farei mai, se non venissero dal cuore.
Ma
ovviamente – pur nella consapevolezza della propria, artigianale pochezza – un pezzettino
di cuore l’ho lasciato anche appoggiato sul mio “Voilà, Mr. Mojo Risin’”, nel
quale mi sono spericolatamente concesso di scrivere di Jim Morrison, come se
non fossi solamente l’ultimo dei tanti postulanti che tentano improvvidamente
di vivere di luce riflessa da tanto genio.
Però
sono abbastanza contento di avere scritto questo raccontino, perché mi è
riuscito di dire una cosa che forse pare banale, ma a guardare il panorama
musicale odierno – martoriato da Marie e da bambocci da reality - forse così
tanto banale non è: che allora, in mezzo alle sette note, o officiando il rito
delle dodici battute, i musicisti cercavano qualcosa, una chiave di volta, una
spiegazione per il vuoto. Una rotta verso il tutto o verso il nulla,
indifferentemente.
Mi è
riuscito a dire qualcosa di cui sono orgoglioso. Che ho conosciuto una musica,
e gente che la faceva, il cui tema non era – o non era solamente – lo show
business, ma il sogno.
Sogno, e
non illusione.
Sogno, perché
si credeva di poterlo realizzare.
E, non
so voi, ma ho trovato bellissimo potere affermare tutto questo di fronte alla
lapide di una tomba. Forse, per lo stesso motivo per cui ho amato il racconto
di Francesco. Che voglio prendere come esempio di tutti gli altri, che ho
amato, e che poco alla volta, racconterò.
PERE LACHAISE E' ACQUISTABILE ON LINE SU ABEBOOKS:
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