Lo faccio per raccontare i moltissimi emozionanti ritorni che questo libro mi sta regalando, persone che non vedo da decenni (la vita è così, ma anche noi abbiamo le nostre colpe e le nostre colpevoli distrazioni...) che mi scrivono per dire che se lo sono trovato per le mani in libreria, e dopo un sorriso del tipo: "Ma guarda un po' che sta combinando, questo..."
...se lo sono portato a casa, e l'hanno letto.
E, verosimilmente, visto che mi scrivono per dirmelo, non l'hanno trovato accio.
Mi stupisce, questo, come se non avessi del tutto preso coscienza del fatto che pubblicare un romanzo è letteralmente renderlo pubblico.
Perchè mi obbliga a domande che a prima vista sembrerebbero scontate, ma che tanto scontate, in definitiva, non sono.
Mi soccorre Aldo Palazzeschi.
Chi sono?
Son forse un poeta?
No certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell'anima mia:
follia.
Nel corso di un numero zero che sto realizzando per RaiDue insieme ad una squadra fantastica, una trasmissione sperimentale condotta da Mario Sechi in cui il dibattito è contaminato col reality e col talk, (detta così sembra complicata, ma vedrete, è godibilissima) Vittorio Sgarbi ci faceva notare come nel verbo stesso "pubblicare" si nascondesse il senso, e la magia di una delle pulsioni più profonde per chi scrive: essere pubblico. Essere letto dagli altri, essere ispezionato. E se possibile, amato.
Diffidate dagli scrittori che dichiarano di scrivere per sé, o che hanno il cassetto pieno di inediti che non concederanno mai alle voraci mascelle dei lettori.
Ho sempre saputo, vagamente, dentro di me, di scrivere per gli altri. Che poi, indirettamente, significa ancora una volta scrivere per me stesso, per avere il riscontro, l'accettazione e l'approvazione, il senso dell'abbraccio sociale e del risultato statisticamente apprezzato.
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell'anima mia:
malinconia.
Un musico allora?
Nemmeno.
Non c'è che una nota
nella tastiera dell'anima mia:
nostalgia.
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell'anima mia:
malinconia.
Un musico allora?
Nemmeno.
Non c'è che una nota
nella tastiera dell'anima mia:
nostalgia.
Al netto della grandissima difficoltà che si trova in primo luogo a rendersi visibili, quindi pubblici, e quindi ad essere letti, non solo e non tanto quella psicologica e interna, ma proprio la difficoltà di farsi "considerare" dai mezzi di informazione, senza i quali per la maggior parte dei potenziali lettori non esisti, è tuttavia verissimo che è proprio nei "ritorni" (parola non esaustiva, ma che preferisco a feedback) che giungono dai lettori, siano essi vecchi conoscenti o meno, che risiede il momento più emozionante di questa esperienza.
Certo, è bellissimo entrare in una libreria per presentare il volume, e trovare ad attenderti settanta ottanta persone, molte col tuo romanzo in mano, che sfogliano, scartabellano incuriosite, leggiucchiano, come mi è successo qualche giorno fa alla Arion del Palazzo delle esposizioni qui a Roma.
Certo, che emozione, quando leggi la recensione del tuo libro su un quotidiano nazionale, la volta che sei riuscito a scavalcare lo sbarramento e stai lì, sulla pagina del quotidiano, a far ciao ciao con la manina e a dire: "ehi, guardate da questa parte, esisto..."
Ma niente a che vedere con il brivido che ti danno messaggi come questo, ricevuto ieri:
Caro Paolo, sono entusiasta del tuo libro!Grazie di cuore, spero che tanti lo leggano, è proprio bello!
La persona che me l'ha mandato, non la vedo e non la sento, senza esagerare, da trent'anni. Abbiamo fatto teatro amatoriale assieme, abbiamo condiviso una breve stagione di interrogativi e risposte sulla vita, e poi la vita stessa ci ha mandati molto lontani l'uno dall'altra.
E quel fossato di trent'anni, come un miracolo, è colmato, di colpo, da un messaggio:
Caro Paolo, sono entusiasta del tuo libro!Grazie di cuore, spero che tanti lo leggano, è proprio bello!
E da un romanzo.
Non credo che la mia risposta sia stata all'altezza. Forse perché la nuova generazione di palmtop ti mette in condizione di ricevere i messaggi anche mentre guidi nel traffico, ma non ti obbliga a rispondere al volo. Eppure tu lo fai, accostando la macchina, per carità, ma lo fai male, con un tono che suona di circostanza, mentre vorresti dire:
"Che bel regalo mi stai facendo. Ho messo molto di me in questo romanzo, e a quanto pare, tu l'hai riconosciuto, anche dopo trent'anni. Il che significa che poco o tanto tutti e due siamo restati veri. E questo il mondo lo deve sapere."
Invece, non ho risposto così, sono riuscito ad imbastire un vago ringraziamento e una richiesta di passaparola.
Non ho risposto come dovevo, lo so.
Fino a questo momento.
Tutta questa divagazione per dire che trepido, ogni volta che entro in libreria (vi confesso che spio la pila di copie per vedere se cala, e, beh... cala....), ogni volta che penso che qualcuno sta leggendo e immaginando quei luoghi dove io sono stato prima di lui.
E' davvero una bellissima esperienza, scrivere.
Un bel modo per occupare la vita, un ideale a cui votarsi.
Ma poi, mi dico, se fosse un modo per occuparlo fine a sé stesso, non varrebbe nulla.
Il druido Merlino, il mio protagonista, direbbe che un ideale deve cambiartela, la vita. Deve devastarla, terremotarla, metterla a gambe all'aria.
Non mi è capitato così spesso che accadesse, sono sincero. Ma credo di poter mettere sul piatto della bilancia che continuo a scrutare la linea dell'orizzonte nella speranza che qualcosa si manifesti.
E allora mi sento di aggiungere che sì, scrivo per gli altri perché in questo modo scrivo per me. Ma scrivo, soprattutto, per bestemmiare contro il cielo, perché la risposta, se c'è come spero, si ostina a restare nascosta dietro le nuvole, e mi verrebbe voglia di salire fin lassù in cima, e tirarla giù a cazzotti.
Son dunque... che cosa?
Io metto una lente
dinanzi al mio core,
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell'anima mia.
Son dunque... che cosa?
Io metto una lente
dinanzi al mio core,
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell'anima mia.
Eh sì.
Sono arrivato parecchio lontano, partendo da una considerazione su un romanzo e su un messaggio che è arrivato da molto lontano nel tempo, ma al momento giusto.
Ma poi, se volete, neanche così tanto.
Perché credo, umilmente, e senza la pretesa di far prediche a nessuno, che non si debba mai perdere l'occasione di farsi domande importanti.
Magari senza risposta, o con risposte difficili.
Ma non per questo, meno inevitabili.
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