“Dormi” diceva
la mamma.
Ma la
piccola Elisa continuava a guardare fuori, a quel cielo che l’assenza di luce
elettrica riempiva di stelle.
Le notti
di Arzana cerco di immaginarmele simili a quelle che conosco, notti estive con l’odore
di mirto e di montagna che arriva galleggiando sull’aria ferma e rovente, appena
scossa da un soffio che soffia dai boschi, erano buie, probabilmente.
Interrotte dalla luce di piccole lanterne a olio che ingialliva i quadrati
delle finestre.
“Dormi,
se no arriva a Stocchino” diceva la mamma – bisnonna Murredda.
E la
piccola Elisa chiudeva gli occhi nella penombra dello stanzone.
Stocchino,
il bandito, viveva a Supramonte. O almeno, così raccontavano gli uomini in
paese, anche se nessuno poteva dire di averlo visto davvero, dove si nascondeva.
E se qualcuno
giurava di sì, fabbulando, stava.
Li
strizzava, gli occhi, quasi, per fare credere che stava dormendo davvero, e che
potevano dire al bandito che restasse dov’era, infilato nella macchia o acquattato
in qualche domus de janas, su per i boschi di lecci e querce di sughero che a
quel tempo coprivano completamente il dorso del monte.
Il
Gennargentu, la porta d’argento. Supramonte.
C’erano
i falchi, lassù. E i mufloni. E cespugli di mirto aggrappati alla roccia. E
c’erano quelli che si nascondevano.
La mamma
aspettava che gli occhi della piccola smettessero di agitarsi qui e là sotto le
palpebre – quanti sogni, nella testa di quella figlia… - e che il respiro si
facesse profondo.
Allora,
forse, rimboccava le coperte e se ne
andava a dormire pure lei.
Ma forse
no, probabilmente quello era un mondo diverso, con meno delicatezze, forse
allora tutto era più ruvido, più sbrigativo, non c’era tempo per le smancerie:
il lavoro quotidiano era sopravvivere, e i figli – soprattutto se ne avevi
dieci, e avevi un gregge aggrappato alle pendici del grande monte a rosicchiare
le stoppie e i gambi del mirto selvatico, e avevi un laboratorio di
falegnameria da mandar avanti – erano la quotidianità assidua e sbrigativa, in
mezzo ad milioni di altre cose da fare.
Non
c’era tempo per delicatezze e nostalgie da ricchi.
I
bambini che cercavano troppo la mamma erano guardati con disapprovazione dai
vecchi che stazionavano in piazza a godersi il poco fresco della sera
distribuendo lapidarie sentenze.
“Este sempere appicigau a s'antalena de sa mama”
E’
sempre attaccato al grembiale, non sa cavarsela da solo.
Così,
forse, la mamma – bisnonna Murredda – non le rimboccava proprio per nulla, le
coperte, alla piccola Elisa. Ma solo forse.
Perché è
bello pensare che qualche ruvida carezza riuscisse a strapparla, a quella mamma che cominciava a diventare
anziana.
La
piccola Elisa, zia Elisa, era l’ultima di una famiglia di dieci, dodici figli -
non ho mai capito esattamente, tra bambini morti piccoli ed altri figli dispersi in
guerre novecentesche, e carbonchio e polmonite – una bambina nata quando i
fratelli più grandi erano già uomini.
Quando
io l’ho conosciuta, o inizio a ricordarla, era già vecchia.
Gonna
nera e scialletto nero – su mucadore - sulla camicia grigio acciaio accollata.
Occhiali da vista e crocchia stretta stretta, su quei capelli ancora neri. Sempre
sorridente, di quel sorriso rassegnato di chi ha visto la vita e sa che non
vale la pena di prendersela. Saldamente appoggiata su quel fatalismo sardo che
niente al mondo può scalfire, e che la teneva al sicuro, passava gli ultimi
anni tra biscotti di mandorle e centrini all’uncinetto.
Ma gli
occhi, quelli li ricordo bene, erano occhi vivi, e sorridenti, e brillavano di
una dolcezza che mi conquistava. O forse era solo che i vent’anni, che aveva in
meno dai suoi fratelli, la rendevano più vicina a me.
Ma
allora - erano gli anni venti, i fratelli più grandi erano giovanotti e ragazze da marito, lei –
la piccola Elisa - era un affarino di sei sette anni con lo sguardo guizzante e
la carnagione olivastra, e i capelli appena venati di un vago castano a
stemperare il corvino, una sorpresa
arrivata fuori tempo massimo a rinnovare la casa di genitori ormai maturi.
E quando
strizzava gli occhi e si imponeva di dormire, lei aveva paura sul serio, che
venisse il bandito Stocchino a prenderla e a portarla chissà dove, a
Supramonte. Che da certi posti indietro non si torna, e neanche un corpo da
reclamare, torna indietro.
“Dormendo
sto. Giuro.”
Sussurrava
allora, senza aprirli più.
I fratelli,
sdraiati su coperte e pagliericci disseminati dappertutto per la notte ridacchiavano
e scuotevano la testa: Cesare, Emilio, i miei zii. Ermelinda, Elena, le mie zie.
E il nonno, Antonio.
E’ lui
che mi ha raccontato questa storia.
O
meglio, è lui che qualche volta s’è lasciato strappare via qualche ricordo a mezze frasi, perché da arzanese, vedeva i
chiacchieroni come il fumo negli occhi, e parlava lui stesso il meno possibile.
Qualche
volta la mia curiosità di bambino è riuscita a fare breccia, ed ho ottenuto,
intramezzato da borbottii e cenni incomprensibili di diniego, qualche racconto,
solo dei piccoli pezzi, intorno ai quali ho cercato di immaginare il resto.
E così,
la piccola Elisa – zia Elisa - la piccolina, il frutto tardivo di una
generazione di dieci figli De Murtas, nata quando mio nonno Antonio era già ventenne e
la primogenita, Elena, era già in età da marito - prende forma nei miei ricordi, come se ci
fossi stato davvero, e ve lo giuro, posso vederla, mentre chiude gli occhi
spaventata dalla minaccia che ‘su bandiu Stocchino venga a prenderla
e se la porti via per sempre.
E allora si gira di là, in quella stanzona
arroventata dalla vampa che sale dalla pianura, appena appena mitigata, durante
la notte, dal vento che soffia dal monte. Ma poi, col caldo, su ’entu s'adi onau un’asselliada, il vento
si è dato una calmata, ed ora stagna tutto, in un’afa sudata e tignosa.
Arzana, un’estate
degli anni venti.
Non so
come fosse veramente allora, quella casa sul confine della sera, non ho notizie
sufficienti per descriverla. La ricordo molti anni dopo, erano gli anni sessanta ed io ero un bambino.
Posso
solo tentare di immaginare, mettendo insieme ricordi e racconti, come suonava,
di che colore apparisse la mattina d’estate, quando la vampa saliva alla
pianura portando con sé l’odore delle stoppie bruciate, il dolciastro dei fichi
d’india e dei cespugli di mirto, e l’odore lontano del mare… quello lo so.
Perché
ce l’ho dentro.
E
raccontare questa storia, prima di tutto, vuol dire tornare a visitare un luogo
dell’anima con lo sguardo incantato di un bambino.
Probabilmente
i figli dormivano tutti al piano terra, in quello stanzone che faceva anche da
stalla, e da stanza comune. Forse qualcuno nel laboratorio di falegnameria, se già
c’era, come lo ricordo io, uno stanzone coi mattoni a vista e senza intonaco, con
un tavolone fatto di travi. Il piano terra della casa era completato dalla
cucina, dove c’era il camino e la stufa a carbone.
I
genitori dormivano sopra, in quel piano superiore fatto di legno, incannicciato
e malta, che ricordo ondeggiante sotto i miei passi di bambino, sessant’anni
dopo.
Sa domo manedda.
Quell’estate,
la piccola Elisa aveva per la prima volta avuto il permesso di scendere al
fosso, il Rio Flumendosa che scorreva in fondo alla valle, con la mamma, quando andava a
lavare i panni.
Giù per
il sentiero di terra rossiccia, che si disegnava incerto tra cespugli e muretti
a secco, la bambina poteva intuire laggiù in fondo la pianura che digrada verso il mare
dalla quale si alzavano verso il cielo ondate di calore.
E
sentiva la polvere depositarsi come cipria nei graffi di sassi e di spine sulle
gambe e sui piedi nudi. E si sentiva, in fondo, orgogliosa di quelle nuove
responsabilità che l’età porta con sé.
Ed
eccola che cammina di buon passo cercando di tenere dietro alle donne che si
affrettano al fosso, che c’è sempre tanto da fare, e il tempo non basta mai.
Ed
eccomi, mentre mi inoltro con cautela in una scena che ho visto troppe volte,
con gli occhi dell’immaginazione, oppure seguendo le poche tirchie parole di
mio nonno, e mi chiedo se scritta su carta sarà uguale.
Quel
giorno, mentre la mamma – bisnonna Murredda - e le altre donne lavavano, Elisa si
era avventurata su per il ruscello che scendeva a valle ad alimentare il fosso.
Non era proprio andarsene, il suo, che a pochi passi alle sue spalle, tra i
ciuffi di sterpi e di cespugli di mirto, si sentiva il tonfo ritmico dei panni
sulle pietre, e quella specie di guinzaglio sonoro la teneva legata e insieme
la tranquillizzava, ma un pochino la faceva sentire coraggiosa, la piccola
Elisa.
Così,
saltando in mezzo alle pozze di acqua stagnante, dove si affollano i girini, un
po’ spiando quale mondo fatato si nascondesse dietro il prossimo cespuglio, era
arrivata ad una radura, una specie di spiazzo polveroso tra gli alberi, con i
raggi del sole a filtrare in diagonale tra le fronte.
E si era
accorta subito che non era sola.
C’era un
uomo, scarpe nere alte, pantaloni di fustagno,
fucile in una mano e ‘sa berritta
calcata in testa, che attraversava lo spazio aperto con passo svelto, sguardo
guardingo da felino e passo leggero da creatura dei boschi, per imboccare il
sentiero che si perdeva nella selva verso il monte.
Esitarono
entrambi, vedendosi.
E alla
piccola Elisa bastarono pochi secondi, per riconoscerlo.
Il
soldato Stocchino, numero di matricola 2567,
figlio di Felice Stochino e Antioca Leporeddu, era nato a Arzana, nel
rione Preda Maiore, il 22 Maggio 1895 quartogenito di 7 figli.
Suo
padre era capraro, ed anche lui era stato avviato allo stesso lavoro, fino a
che invece, nel Giugno 1915, non partì soldato, destinazione Tripolitania e
Cirenaica.
Era un
personaggio contraddittorio, indefinibile, Stocchino.
Capace,
in quegli anni di guerra, di beccarsi otto mesi di carcere militare per non
avere obbedito agli ordini, e subito dopo – appena scontata la pena e
riassegnato al servizio - una medaglia d’argento al valor militare sul Carso, “per
avere espugnato una postazione nemica da solo, in totale autonomia.”
Indubbiamente
due avvenimenti che testimoniano allo stesso modo la sua anarchia e la sua
insofferenza alla vita militare.
O in
generale, alla logica dei militari.
Quando quel
giorno lo vide, la piccola Elisa, sgattaiolare nei cespugli come una bestia da
preda, o come un animale braccato, Samuele Stocchino era latitante già da tempo,
dopo che, congedato alla fine della guerra, aveva iniziato la carriera di ladro e di bandito di passo.
In realtà la storia sembra originarsi da questioni di furto di bestiame, e dalla decisione di Samuele prima di ritrovare le sue bestie e poi di farsi giustizia da solo.
L'escalation sembra prendere i moventi da lì.
Benito
Mussolini in persona, come d’altra parte stava facendo in Sicilia contro i mafiosi, gli aveva
dichiarato una guerra personale, e Stocchino, ladro di bestiame, bandito, ormai
fuorilegge dichiarato, aveva sperimentato tutto il peso di quella offensiva,
stretto d’assedio contemporaneamente dal Regime e dalle famiglie rivali.
Il resto
è storia del mondo.
La storia di un piano inclinato, di una sequenza di avvenimenti che trasforma una persona tranquilla in un assassino.
Come
succede in tutti i paesi di pastori e contadini del mondo, e non solo ad
Arzana, antiche rivalità, bestie sparite, muretti spostati, confini incerti e
fluttuanti avevano alimentavano faide e rancori che erano stati capaci di
rimanere sotto la cenere per decenni, ad aspettare il momento di esplodere.
Lui era un uomo mite, si racconta.
Stava progettando il matrimonio con una ragazza, Giovannangela, ed era stato accusato per antiche rivalità familiari di un furto che non aveva commesso. Dopo aver tentato di scagionarsi, inutilmente, aveva accettato di scontare la pena nell'esercito, rendendosi protagonista di atti di eroismo, oltre che di smaccata insubordinazione.
Rientrato ad Arzana, si era trovato a fronteggiare le stesse ostilità e gli stessi problemi, aveva tentato la fuga assieme a Giovannangela che gli era morta tra le braccia ai piedi di Perda Liana, dove l'aveva sepolta con le sue mani sotto un letto di timo, come un uomo innamorato.
E così,
quando ‘su bandiu Stocchino aveva
scelto la strada del Supramonte, mani ignote avevano incendiato la casa dei
suoi nonni, i campi di suo padre erano stati distrutti durante la notte,
compromettendo i raccolti, e – quindi – la sopravvivenza della famiglia, e i
Carabinieri erano venuti ad arrestare la sorella Maria, accusandola di
favoreggiamento di quel fratello alla macchia, il cui nome ormai passava di
bocca in bocca nei vicoli di Arzana con un sussurro di spavento e perfino con
un accento di ammirazione.
Un uomo
capace di assaltare una postazione nemica da solo è anche capace di concepire
una guerra tra sé stesso e il resto del mondo. E Stocchino aveva reagito in
modo esagerato e feroce, ribattendo colpo su colpo ed uccidendo senza pensarci
sopra.
Erano azioni
sfacciate, provocatorie, una sfida diretta al Potere e ai Carabinieri, con i
quali, in quello scorcio di anni venti, si scontra a fuoco più e più volte. E
più volte riesce a sfuggire ad imboscate, soffiate, retate.
Il Duce
– esasperato da quel bandito intoccabile che rischiava di diventare un mito
edificato nel terrore - era arrivato a minacciare di bombardare Arzana e
raderla al suolo.
Venne anche messa una taglia, sulla testa di Samuele Stocchino, duecentomila lire, una cifra spropositata per il tempo, che dice chiaramente quanto fosse diventato importante, per il regime, prenderlo e dimostrare che esisteva una sola linea di condotta possibile: quella della legge.
Ma
questo non aveva impedito a Samuele Stocchino, con la sua opposizione matta e disperatissima di diventare un eroe romantico.
Sa tigre de Ogliastra.
Ditelo
ai parenti delle sue vittime, mi si dirà.
Ed in
effetti, i segni del suo passaggio al mondo sono ben marchiati col colore del
sangue.
Però parliamoci chiaro, c’era qualcosa di davvero affascinante in
quell’uomo, che era riuscito per anni a tenere in scacco non solo i suoi nemici
arzanesi, ma addirittura lo Stato, combattendo da solo, dormendo nei boschi o
nelle grotte scavate nella roccia dai pastori, e prima ancora dagli antichi
abitatori preistorici dell’isola: le domus
de Janas, le case delle fate.
Inutile
negarlo, ci sono momenti in cui siamo tentati di fare il tifo per lui.
Questo,
al netto dei suoi omicidi, e delle sue efferatezze sanguinarie, della sua vita
scapestrata.
C’era in
lui quell’anarchismo senza quartiere – e probabilmente senza ideologia – che fa
sì che il pastore sardo si aggiri tra i campi e le stoppie, costeggiando gli
strapiombi di granito, beffando i confini e rubando bestie, una guerra antica
di cui non possiamo dimenticarci e che non deve scandalizzarci, perché ha fatto
parte, per millenni – giusta o no - della tradizione rurale.
Era
quella sensazione che non è neppure insofferenza, ma disinteresse verso lo
Stato che arriva dall’altra parte del mare, dal continente, a dare delle regole
e a pretendere di farle rispettare da carabinieri veneti.
Era un
qualcosa che assomiglia ad un: ma che ne sapete voi.
Parlare
di legalità e di regole era cosa difficile da comprendere.
Era come parlare ai
sassi.
Allegare a is pedrasa, a is mortusu, a is surdusu, e su desertu.
Ma
questo, la piccola Elisa non lo sapeva.
Per lei Samuele
Stochino era solo il bandito che se non dormi arriva e ti porta via, ed ora era
quell’uomo col fucile in mano, appoggiato in terra dalla parte del calcio, come
se fosse un bastone per camminare, che stava lì davanti a lei, e la guardava, indeciso, prima di
imboccare il sentiero.
Era
stato poco più di un attimo, dilatato fino all’infinito nel silenzio che di
colpo le si era fatto in testa, un silenzio assoluto, eterno, impastato di
paura e di fiato sospeso.
Lui l’aveva fissata con quegli occhi neri e guizzanti
sotto una fronte troppo larga, e si era portato un dito alle labbra. Non
avevano parlato, ma spesso, in Sardegna, è nel silenzio che si sussurrano cose
importanti.
Elisa
aveva esitato, si era accigliata, e l’espressione buffa del broncio di
concentrazione sul suo viso di bambina aveva strappato a quell’uomo l’ombra di
un sorriso.
La
piccola, di rimando, aveva sorriso anche lei.
Poi lui era sparito su per il
crinale in uno sbuffo di polvere rossa. Si era arrampicato lungo il costone di
roccia, fiancheggiando i quattro salti d’acqua che dal monte scrosciavano verso il basso.
Di
colpo, i suoni della macchia e le voci delle donne alle sue spalle e lo
sciacquettare dei panni nell’acqua del fosso erano ritornati a chiamarla alla
realtà.
Elisa
era tornata sui suoi passi, in silenzio.
Intorno
alla fonte le donne parlottavano torcendo i panni per strizzarli dall’acqua del
risciacquo. Su quei rumori si era orientata, per tornare indietro. Ma quando
ormai era a poca distanza dal ruscello e dalla voce ormai ben distinguibile di
mamma, da un’altra diramazione del sentiero erano spuntati due uomini in
divisa.
Due
Carabinieri.
Lei era
sobbalzata, pronta a fuggire, che quegli estranei con una divisa estranea le
facevano un po’ paura, e poi non si sa mai cosa vogliono, quando ti cercano
qualche guaio te lo fanno passare, la scusa la trovano, lo diceva sempre anche
suo padre.
Elisa aveva fatto il gesto di ritornare sui suoi passi, o di evitarli, o
qualcos’altro che ora non sapeva.
Ma uno
di quelli l’aveva fermata, era un ragazzo con una faccia liscia e gli occhi
chiari e un accento strano, che stringeva un moschetto bilanciandolo davanti al
petto con tutte e due le mani. E le aveva detto – con quella parlata strana
cantilenante che lei a malapena capiva - che stavano cercando
un uomo.
“Samuele
Stocchino, il bandito, lo conosci?”
Lo
inseguivano da un bel pezzo, aveva detto, ma lui era veloce, in mezzo a
quella terra e quei sentieri che conosceva bene. E le aveva ripetuto – con quella
intonazione estranea che la respingeva – se lo aveva visto, quell’uomo,
mentre saliva su per il crinale, verso Supramonte.
Lei non
ci aveva pensato un attimo.
Aveva
scosso la testa senza parlare, con le mani dietro la schiena. No, nessun uomo.
Quale uomo poi?
Qui c’era solo il chiacchiericcio delle donne che lavavano i
panni e il rombo del sole di mezzogiorno che ti batte a mano aperta sulla testa
e il soffio del vento tra gli scogli di pietra bianca del Gennargentu.
Quale
uomo.
Aveva
pensato Elisa, continuando a fare di no con la testa.
Loro si erano guardati sconfitti e si
erano arrampicati ancora, in mezzo alla selva di tasso, e leccio, e agrifoglio
e lauroceraso, su per quel monte estraneo.
E lei, raggiungendo
le donne che stavano raccogliendo le ceste piene di panni umidi per tornare in
paese, si era guardata bene dal raccontare di quegli incontri.
Quella
notte, Elisa aveva dormito.
Si era
inoltrata nel sonno continuando a pensare allo sguardo di quell’uomo e
chiedendosi cosa sarebbe successo, se la mamma avesse scoperto tutto. Ma era
sicura: non doveva parlare. Lui l’aveva guardata, ed aveva messo un dito sulle
labbra, e quel segno aveva un solo significato.
Che
doveva fare silenzio, che tutto questo rimaneva tra loro due.
E lei
avrebbe fatto silenzio, perché sentiva che poteva fidarsi, di quegli occhi. Non
era neanche servito che la mamma venisse a dirle di dormire, che se no veniva
il bandito Stocchino.
Che poi,
perché sarebbe dovuto venire a cercarla.
Le aveva
detto di stare zitta, e lei lo aveva fatto.
Ma poi, improvvisamente,
nel cuore della notte, si era trovata sveglia, di colpo. Incomprensibilmente in
allarme, aveva teso le orecchie nel buio dello stanzone in cui stagnava il
caldo e l’odore greve del sonno, ma aveva sentito solo il russare dei suoi
fratelli nei loro giacigli.
Eppure
qualcosa l’aveva svegliata.
Un movimento, un rumore, forse una porta che si
muove spinta dal vento, che a volte, nella notte, si alza e soffia dal monte.
Eppure, no, nella notte l’aria era ferma e stagnante come olio.
Ma
allora cosa. Un animale nella stradina davanti a casa. Un cane randagio. O
qualcos’altro che comunque si era portato via il sonno.
E così,
senza sapere neppure perché, la piccola Elisa si era messa a pensare.
Chissà
se Carabinieri lo avevano trovato, poi, ‘su bandidu Stocchino, mentre si arrampicava sul dorso del
monte verso le zone più erte e impenetrabili.
Ma no,
in paese lo avrebbero saputo subito, se i Carabinieri avessero arrestato la
tigre di Ogliasta. Ne avrebbero parlato nei crocicchi e negli androni delle
case, e sul sagrato della chiesa, e anche suo padre e sua madre ne avrebbero parlato, se quelli là avevano arrestato Samuele
Stocchino, su bandiu di Arzana.
Ma forse
no. Forse non ne parlavano perché era una cosa così grossa che non si doveva
commentare davanti ai bambini.
Forse
sapevano, e si erano detti con gli sguardi che avrebbero commentato dopo,
quando lei non c’era, e anche i suoi fratelli sapevano, Antonio, Cesare, Emilio
– il nonno, gli zii… - e non le avevano detto niente.
Oppure
no, non lo avevano preso, quei Carabinieri, però lo avevano raggiunto, mentre
stava raggiungendo la selva, un attimo prima che potesse sparire. Si erano
sparati, lui appollaiato sopra un
costone di roccia al riparo e loro sotto, in mezzo al sentiero, a naso in su, e
alla fine i carabinieri erano stati costretti a rinunciare, che erano troppo
esposti, e lui era riuscito a fuggire.
Ed ora
era volato via, lo sa Dio dove.
Però, se l’avevano trovato, forse Stocchino aveva
pensato che qualcuno ai Carabinieri doveva averglielo detto dove era, e come
seguirlo.
Da che
parte stava andando.
Ed ora lui
era lassù, a Supramonte, ed era convinto di essere stato tradito.
Arrabbiato
con quella bambina che nella radura, annuendo silenziosa, gli aveva giurato che
non avrebbe parlato.
Sì,
forse era scappato, ed era furioso con lei, perché era convinto che avesse
detto ai Carabinieri dove andava e come trovarlo.
Così
aveva pensato la piccola, tendendo le orecchie nel buio, attenta al minimo
rumore, perché, ora ne era sicura, aveva sentito qualcosa muoversi.
Di là.
In
cucina.
Elisa ne
era certa, non si trattava della sua immaginazione.
C’era
qualcuno che si muoveva di là. Aveva cercato di zittire il cuore che le
esplodeva tra le tempie in tonfi enormi come colpi di tamburo, e aveva teso le
orecchie, cercando di capire l’attimo in cui quell’uomo che si aggirava in
cucina – e lei sapeva, chi era - sarebbe
apparso sulla porta dello stanzone, guardandosi attorno, tra i corpi
addormentati, per scoprire dov’era quella piccola spia.
Quella
bambina bugiarda che aveva promesso di star zitta e invece no.
Si era
detta che quando lo avesse visto stagliarsi nel rettangolo della porta, sarebbe
rimasta ferma ed immobile e non avrebbe neppure parlato, non avrebbe fatto
rumore, che era meglio così.
Che se
faceva rumore e i suoi fratelli e suo padre si svegliavano lui, il
bandito Stocchino, li avrebbe uccisi tutti, perché non c’era scampo se eri
nella sua lista.
Né per
te, né per chi cercava di difendersi.
Allora
la piccola aveva deciso che se lui era venuto lì per ucciderla – anche se,
glielo giurava, lei non aveva parlato, non aveva detto nulla - sarebbe rimasta
immobile nel suo letto, con gli occhi chiusi, fingendo di dormire.
E se
così doveva andare, avrebbe aspettato il colpo fatale stingendo le palpebre e
tremando, ma non avrebbe urlato, no, così lui si sarebbe preso la sua vendetta
e se ne sarebbe andato, risparmiando tutti gli altri.
Io me lo
ricordo bene.
Fin da
bambino ho sentito raccontare del bandito Stocchino. Non erano chiari, nei
racconti, i confini tra la storia reale – che ci dice di un uomo braccato,
forse all’inizio ingiustamente, ma che poi divenne un fuorilegge feroce, e il
mito, nel quale era difficile mascherare l’ammirazione per qualcuno che - da solo - tenne
testa per anni al Sistema, di qualsiasi colore fosse.
Inoltre a molti sardi piaceva credere che le ragioni della sua ribellione fossero diverse dal semplice banditismo, che ci fosse una opposizione sostanziale ad un sistema estraneo, e che questo lo rendesse diverso, per esempio, dal bandito Mesina.
Che quella sua ribellione c'entrasse qualcosa col rifiuto di un potere che era venuto fin sull'isuledda soltanto per depredare, imporre regole dall'esterno, colonizzare la Sardegna e a farne una depandance dell'Italia dei ricchi, ed in seguito, dell'Europa.
Insomma, un altro capitolo di una guerra lunga con lo Stato unitario, nella quale non necessariamente le ragioni stanno sempre dalla stessa parte.
Però il
sangue lo versò, eccome.
La
leggenda che ha fatto del bandito Samuele Stocchino un mostro che spaventa i
bambini, ha radici storiche inconfutabili, e nasce nell’arco di un breve semestre, scandita da un rosario di
vittime arzanesi, frutto della sua spietata reazione alle offese che aveva
subito la sua famiglia.
Samuele vendicò
i torti subiti dai nonni, dal padre e dalla sorella colpendo uno per uno i
membri delle famiglie rivali che avevano partecipato a quelle azioni o coloro che
avevano aiutato. Fu una risposta violenta, senza margine di trattativa. Uccise
dodici persone in pochi mesi, si racconta, senza guardare in faccia a nessuno:
uomini, donne, e perfino una bambina di dodici anni, figlia di uno dei suoi
rivali, Antonio Nieddu.
A niente
valsero i posti di blocco, la messa in stato d’assedio della cittadina di
Arzana, il massimo allerta tra le forze dell’ordine. Samuele Stocchino scendeva
a valle, spesso di notte, attraversava le vie indisturbato, colpiva e spariva.
Alla fine di quell’ondata di omicidi tutte le famiglie dei suoi nemici avevano da
piangere almeno una vittima.
E al
mito della tigre di Ogliastra si era aggiunta una vermiglia coloritura di
sangue e il sapore greve della paura.
Paura
che aveva scandito quella notte lunghissima, che Elisa aveva passato sveglia, ad
origliare i suoni che arrivavano dalla cucina, una notte che non mi è stata mai
raccontata, ma che posso immaginare, a completare le lacune del racconto.
Poi, non
si sa come, non si sa perché, la notte si era improvvisamente trasformata in
alba e dalle scuri aveva cominciato a filtrare un po’ di luce. Nella penombra,
i suoi fratelli e le sue sorelle erano solo sagome grigie attorcigliate nel
lenzuolo. E per quanto tendesse le orecchie e si sforzasse di sentire, dalla
cucina non arrivava più alcun rumore.
Ammesso
che ci fosse stato un rumore, ammesso che avesse davvero sentito qualcuno, si era detta, in quell’attimo silenzioso che precede il
giorno.
Subito
dopo, da fuori, erano iniziati ad arrivare i primi rumori, un carretto, un
gregge che attraversa il paese, il canto di un gallo.
E infine
il passo strascicato di mamma giù per le scale, e verso la cucina.
Deur de su Chelu.
Aveva
sussurrato la mamma, così piano che l’avevano sentita tutti. La piccola Elisa
era stata la prima a balzare in piedi, con i peli ritti sulla nuca.
Erano
arrivati sulla soglia, lei e i suoi fratelli, ancora mezzi addormentati,
stropicciandosi gli occhi. Ed avevano trovato la madre a fissarli interdetta e
sconcertata, con gli occhi sgranati e le labbra che tremavano per cercare parole che
non sapeva dire.
O
spiegazioni che non poteva dare, perché tutto questo era chiaro solamente alla
piccola Elisa.
Sul
tavolo della cucina, appoggiati su un foglio di carta da macellaio stropicciata,
c’erano un prosciutto di cinghiale e una forma di formaggio.
E un
coltello serramanico impiantato nella caciotta.
Ma non
era una minaccia.
Quel
coltello era lì per tagliare, per invitare a mangiare. Per dire “Serviti pure.”
Per
dire: “Grazie”.
E solamente
la piccola Elisa sapeva perché.
Venne preso, la tigre di Ogliastra, ed ucciso, all'inizio del 1928. L'agguato e l'uccisione sono raccontati da "L'unione sarda" del 21 febbraio 1928: "Fu predisposto, di
conseguenza, un grosso accerchiamento al quale prendevano parte quattro
pattuglie. rispettivamente al commando del capitano Agnesa e del tenente
Risi: per tutta la notte la zona era stata presidiata, ma soltanto alle
luci del mattino il latitante fu avvistato, allorchè atttraversava una
mulattiera.
Alla intimazione di "fermo" gridato dal Risi, faceva
pronta risposta il bandito, con due colpi di moschetto andati a vuoto, e
con la immediata replica dell'ufficiale che colpiva il malvivente alla
gamba sinistra. Ma questi non era certo uomo da bandiera bianca, porchè
pur colpito, riusciva di spostarsi di circa cento metri in mezzo ad una
folta macchia, e da quel punto cercò affannosamente di ricaricare il
proprio moschetto. Da un'altra postazione partirono nuovi colpi ed il
celebre ed anche leggendario fuorilegge, cadeva colpito a morte, era
armato di un moschetto 91, di un binocolo, di un coltello e nel
portafoglio, oltre a lire 31,35 teneva quattro bandi scritti di suo
pugno, che doveva provvedere ad affiggere."
Ed eccolo, il testo
di uno dei bandi trovato sul corpo del bandito:
Popolazione di Arzana e
ancora da questi circonvicini purchè impongono che io sia un malvagio
invece noi sono una persona e savio e non voglio far del male a chi non
lo merita. Dunque partecipo tutti Coloro che sono a custodire il
bestiame dei miei avversari. Ormai tutti siete al corrente che m'anno
perseguito ingiustamente a me e ancora gli altri...ed io ho cominciato e
perseguirò a essere carnefice contro questi figliacchi. Dunque tutti i
servi e mezzadri di Balzani Fortunato ardito suo nipote Giulio avrà di
me in paga lo stesso.
Bistocchi del fratello...e ancora l'altro
famoso Ferrai Priamo assieme al suo figliacco figlio Luigi avrà di me in
paga lo stesso confetto: dunque se li trovo ancora sotto la tutela de
su indicati dopo dieci (10) giorni della mia pubblicazione saranno da me
giustiziati ad una terribile e barbara morte. E ancora quelli che si
permetteranno ad affittare i pascoli di questi figliacchi Balzani e di
Ferrai Priamo avranno in paga la stessa caramella.
Mi firmo e sono
sempre
Stocchino Samuele.