lunedì 14 luglio 2014

C'era un omino che acchiappava nuvole. Un'idea balzana, ad un concerto di Keith Jarret.



Lo so, lo so.
Uno si aspetta un commento tecnico, un resoconto di una serata di musica, visto che si tratta di un appuntamento attesissimo: Keith Jarret da solo, al pianoforte, come ai bei tempi del Concerto di Colonia, che tante soddisfazioni ci diede.
Beh, il commento tecnico è semplice: che ficata.
Ed ora, come sempre, divagherò altrove, tanto la tecnica è sempre quella.



Flash back a venerdì scorso, 11 Luglio, ore 19.

Cominciamo male. Il divino non solo ci vieta di tossire, ma ci obbliga ad un concerto in piena ora di cena.
Ma si sa, non si è divini per nulla.
Al netto di qualsiasi considerazione sulla tecnica pianistica, sui purismi jazzofili e su qualsiasi altra polemica da conventicola, che sinceramente mi appassiona poco, guardo quell’omino abbracciato al suo pianoforte, quasi sdraiato sulla tastiera, in simbiosi, e mi domando cosa si deve provare, a percepire il respiro trattenuto di una platea intera, a sentire che le emozioni di parecchie centinaia di persone sono legate a fili sottili che dall’altro capo si annodano alle tue dita.
Ed insieme mi viene in mente che in fondo questo momento, così come lo sto vivendo ora, con gocce di musica come uno spruzzo di pioggia imperlate sulle pareti della sala Santa Lucia dell’Auditorium altro non è che un momento qualsiasi della vita. E che, lo si voglia o no, di quella parla, quella interroga, quella migliora e modifica.


"Senza musica, la vita sarebbe un errore", ha scritto Friedrich Nietszche. E, d’accordo, forse ha esagerato. 
Se non altro perché a braccio, senza neppure pensarci sopra, potrei elencarne almeno altre tre/quattro (cose grosse, in ogni caso), senza le quali la vita sarebbe un errore.
Ma questo non toglie che ho chiara, in questo momento, mentre percepisco il respiro trattenuto di tutta la platea assieme a me, che quel pianoforte non parla solo di cultura musicale, di contaminazioni tra jazz e pagine bachiane, di terre di confine dove tutta la koinè dei suoni è un suono solo.
Parla della vita, voglio sbilanciarmi e dirlo – altrimenti questo incanto non si spiega.

Mezz’ora prima del lampeggiare di questo pensiero, sbocciato improvviso nella testa mentre stavo seduto in una sedia qualunque dell’Auditorium, Keith Jarret si era presentato al pubblico col suo passo sbilenco e quasi scoordinato, con l’espressione da “cosa ci faccio qui, con tutta questa gente a disturbarmi mentre suono”, e la voce registrata aveva scandito il solito decalogo: non fate rumore, non scattate foto, non tossite (non tossite!) e tra noi del pubblico ci eravamo scambiati un sorrisino tra indulgente e comprensivo, un po’ come si farebbe per un nipotino monello che dice cacca davanti allo zio prete.
O con un vecchio parente arteriosclerotico, che però è pieno di soldi, e deve ancora fare testamento.
Perché, e so di non dire una cosa originale, Jarret è così.
O lo ritieni insopportabile, o lo ami al punto di sopportare le sue assurde idiosincrasie.
Sostiene, la voce registrata, e sono certo che stia parlando su mandato di Keith Jarret, che queste richieste monastiche con cui il pubblico viene bersagliato siano giustificate dalla difficoltà del numero che sta per andare in scena: tutta la musica che sta per essere eseguita è infatti improvvisata e registrata per i futuri fasti in cd.
Mi viene in mente – non posso farci niente, il mio spirito iconoclasta parte da solo, in automatico, per dire… - il banditore di uno scalcagnato circo durante una fiera di paese: “Si prega il gentile pubblico di fare il massimo silenzio, mentre il mago Barbanera taglia a pezzi la sua assistente…”
E così, quasi per protesta, scatto una foto, questa, che intitolo: "Keith Jarret, solo piano". 



Infatti ritrae il piano da solo, al centro del palco, tanto lui non è ancora entrato in scena, è dietro le quinte ad affilare i coltelli con cui farà a pezzi la malcapitata assistente...
Sì. La sensazione è un po’ quella, ma poi…
Poi lui si siede al piano e suona.
E devo dire, per onor di cronaca, che la serata passa in un progressivo allentarsi della preoccupazione che il divino schiacciatore di tasti bianchi e neri si possa stranire e ci abbandoni a metà del viaggio verso il mondo dei suoni – e dei pensieri – perfetti.
A poco a poco (chiedo lumi anche ad Alberto Pizzo, giovane schiacciatore di tasti dal sicuro futuro che mi pare di avere visto in platea, ad ascoltare incantato…) a poco a poco le prime idee costrette a forza di pensiero a diventare musica, che ci erano parse un po’ tecniche e quindi legnose hanno lasciato il posto a dei lampi di purissimo diamante.




Iperbole? Ma certamente sì.
Però, come detto in partenza, non sono qui per analizzare la performance artistica.
Sono qui per mettere a fuoco il pensiero che ho accennato all’inizio. Perché ad un certo punto di questo allenamento al mantra e alla meditazione che sembra essere il concerto piano solo del divino Keith, di questa pretesa di concentrazione metafisica che forse è giustificata e forse no, mi piove in mente una domanda di quelle che, quando arrivano, o le scacci come si scaccia una mosca, o se gli levi il coperchio e guardi dentro, dentro c’è un mondo.
La domanda, provo a sintetizzarla con parole mie, è:

“Che senso ha essere qui a sentire un uomo che suona?”

Da non crederci, eh?
Suppongo si tratti di una domanda abbastanza autoreferenziale, se sboccia durante un concerto.
Suppongo inoltre che così originale non sia. Magari è originale darne conto, chissà.
Suppongo poi che avrei dovuto pormela prima. Prima, dico, di dedicare la vita ad uno dei miei due amori brucianti ed assoluti (l’altro è raccontare storie): la musica.
Prima di rovistare nelle pieghe del rock, del blues, del jazz, della classica, del pop, del folk, prima di “Prova, prova a pensare un po’ diverso…”, prima di andare col sogno e col desiderio in California o alle porte del cosmo che stanno su in Germania, prima di vedere degli zingari felici, prima di scoprire un grande scherzo nel cielo e una scala per il paradiso… prima.
Mi scappa un sorriso, quando mi rendo conto che ho inseguito per decenni il pifferaio di Hamelin, che imbracciasse una Stratocaster o imboccasse un Selmer, e questa domanda:

“Che senso ha essere qui a sentire un uomo che suona?”

…non me l’ero mai fatta. Non così chiaramente.
A quella domanda birichina, veloce e luminosa come un tracciante nel cielo di Saigon, ne segue immediatamente una seconda:

“Che senso ha essere qui, a suonare per tutta questa gente che ti ascolta?”

Esattamente come Alice nel paese delle meraviglie, in assenza di risposta, si può sempre ribaltare la domanda.

“Che senso ha essere qui, a suonare per tutta questa gente che ti ascolta?”

Soldi, direte.
Notorietà. Ipertrofia dell’ego, e il nostro ce l’ha bello ipertrofico. Ma sì, ma certo. Ho frequentato anche troppi musicisti, per non saperlo. Spesse volte mi sono detto che avrei preferito non conoscerli e continuare a mitizzarli sui dischi.
Ma poi forse no. Forse è stato bello conoscerli, quei musicisti, uomini con i loro limiti e le loro meschinerie, per fortuna. Uomini giù dal piedistallo, persone come me.

Ma il senso, il senso, è un’altra cosa.
In fondo, è una domanda che coinvolge tutti noi. Chiunque abbia la fortuna di potere fare, nella vita, la cosa che sente di saper fare, o che ha sognato di fare da bambino.
D’accordo, ma qual è il senso?
Mi soccorre, ancora una volta, Fabrizio de Andrè.

Libertà l'ho vista dormire
nei campi coltivati
a cielo e denaro,
a cielo ed amore,
protetta da un filo spinato.

Suonare, perché questo sei capace di fare.
Scrivere, perché questo mi è arrivato in dono, quando è stata fatta la riffa dei talenti.
Ecco, sì. Mi pare un buon inizio di risposta.
Soprattutto, perché, se davvero senti l’urgenza di farlo, è solo suonando (o narrando, o scrivendo…) che ti senti a casa.

Libertà l'ho vista svegliarsi
ogni volta che ho suonato
per un fruscio di ragazze
a un ballo,
per un compagno ubriaco.

Ma tutta quella gente silenziosa, e attenta a non tossire…
Mi pare di capire che sia indispensabile, che al mondo ci sia qualcuno dedichi la vita a creare bellezza. Lo so, è un discorso molto molto ponderoso, e complesso, e so anche che a farlo così, dritto per dritto, senza affrettarsi a fare distinguo e a minimizzare, rischio di essere tacciato di retorica.
Ma chi se ne frega, voglio dirlo come mi è venuto in mente.
Vale la pena, eccome, che qualcuno crei bellezza. Anche se è la bellezza malinconica e struggente delle note che abbiamo ascoltato venerdì sera da Keith Jarret.
Anche se quella bellezza mi sembra sempre di più, anno dopo anno nella sua carriera di pianista, intrisa di una specie di pacata rassegnazione, come di chi, dopo una lunga corsa, alzi gli occhi e veda l’orizzonte ancora laggiù, lontano. E probabilmente irraggiungibile.
Allora, forse, bisogna anche chiedersi perché eravamo in tanti, l’altra sera, a farci raccontare suoni che descrivono un eco e nient’altro.
E che forse, di quell’eco sono orfani.

E poi se la gente sa,
e la gente lo sa che sai suonare,
suonare ti tocca
per tutta la vita
e ti piace lasciarti ascoltare.

Non è un gioco di parole.
Ho sentito – lo hanno sentito tutti coloro che erano in sala, ne sono certo – un brivido, uno struggimento, mano a mano che l’omino sdraiato sul piano acchiappava nuvole per aria e le costringeva a diventare idee e poi a scendere sulla terra, al quale, prima o poi, ognuno di noi dovrà dare un nome.

Finii con i campi alle ortiche
finii con un flauto spezzato
e un ridere rauco
ricordi tanti
e nemmeno un rimpianto.

E qui, si fa davvero difficile.
Lungi da me offrire risposte che non ho. Ma mi è parso che valesse la pena in ogni caso, essere lì ed ascoltare, se non altro per farsela, la domanda a lungo sfuggita ed elusa: ma cos’è, che mi manca, e che queste note sono capaci di raccontare?
Vale la pena.
Anche se nella casella di quel che manca, alla fine, potesse capitarci la disdetta di trovarci il nulla.

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