domenica 17 giugno 2012

Sono orfano del trono di spade.


Sono orfano del Trono di spade. 





O Game of Thrones, come dicono quelli che hanno letto la saga di George R.R. Martin, che ha il pregio, rispetto alla realizzazione televisiva, di dettagliare di più – per ovvia prerogativa del mezzo letterario - la ragnatela di relazioni regolari, irregolari, uterine, illegittime, viscerali che si snodano tra le decine di personaggi della serie. Perché diciamocelo:  il Trono di Spade non si fa mancare nulla. 


C’è il re ragazzino folle e maniaco, che sembra modellato a memoria su Mordred, figlio incestuoso di Artù, concepito dal re di Avalon assieme alla sorella Morgana. 





E già che ci siamo,  l’incesto tra Morgana ed Artù è replicato in un gioco di specchi nella relazione torbida tra Cersei Lannister e il fratello gemello Jaime. 




C’è la grande Madre della vendetta Daenerys Targaryen, che ha i tratti esili ed ossigenati di Emilia Clarke,data in pasto per motivi dinastici al gigantesco barbaro Khal Drogo, signore del selvaggio popolo dei dothraki, la cui storia echeggia quella di tante principesse della mitologia greca e latina, sacrificate alla ragione di stato, c’è un re in pectore, Robb Stark, anche lui un po’ Lancillotto un po’ Artù, e c’è il figlio illegittimo dall’occhio triste,Jon Snow, senza diritti di sangue e di nascita, che è un po’ Parsifal, un po’ Frodo. 


Uomo chiamato suo malgrado, uomo baciato dal destino dal principio dei tempi: lo si capisce appena entra in scena. Tanto è vero che – è notizia recente – Kit Harington,l’attore che interpreta Jon Snow, sarà il prossimo Artù prodotto dalla Warner Bros per il grande schermo.

E gli esempi potrebbero continuare, ma ci romperemmo le scatole tutti, in primis io, a scrivere e ostentare conoscenze di mitemi e frequentazione giovanile della cultura classica.
Ma, suppongo, anche lo sfortunato lettore potrebbe non sopravvivere a tanta ostentazione di cultura.
Venendo a bomba, il senso di questa prolusione è che nella grande saga di George Martin tutti assomigliano un po’ a qualcun altro nella storia della letteratura fantasy o cavalleresca, ma questo in fondo non è un difetto, perché è prerogativa catartica e liturgica proprio del fantasy, replicare i caratteri e iconizzarli in una sorta di Pantheon laico.
Definizione paradossale, dal momento che stiamo trattando di mondi in cui abbondano sacerdoti, maghi, sortilegi e antiche profezie. Ma pensateci un attimo, mica poi così peregrina.



Quel che mi rende orfano di Game of thrones è però altro. Probabilmente lo stesso motivo che mi rende orfano di Walking dead e che mi fa settare il mio counter interno su Ottobre, quando arriverà in Italia la terza stagione di ambedue le serie.
Io ho una sola considerazione da fare, e non sono neppure sicuro che non l’abbia già fatta qualcuno. Ambedue le serie fanno sospirare di nostalgia lo sceneggiatore nostrano perché nessuno, e dico nessuno, neppure il protagonista (facile da identificare in Walking dead, molto meno in Game), neppure quello o quella per cui tifano tutti è completamente BUONO.
E ancor di più, in Game of thrones spesso i buoni perdono. E muoiono pure. Come nella vita.
Eddard Stark, il protagonista della prima serie, il buono, se vogliamo applicare ad un personaggio con parecchi chiaroscuri l’etichetta di buono – facciamo così, non il buono, ma quello che lotta contro il cattivo – viene ingiustamente accusato dal re ragazzino, lo spregevole Joffrey Lannister, di tradimento.




Il bellissimo cliffhanger (letteralmente “appeso su un precipizio”, fantastica definizione americana della chiusura di serie) della prima serie vede Stark inginocchiarsi davanti al boia che brandisce l’ascia con la quale deve decapitarlo. 
Noi pubblico sappiamo che in molti si sono dati da fare, nel gioco d’intrighi che intesse tutta la storia, per avere la grazia del re. 
Lo salverà? Non lo salverà? 
Logica dice che, dato che Eddard Stark è il protagonista, all’ultimo momento, come abbiamo visto accadere milioni di volte, qualcuno, qualcosa, o solo un ripensamento del re, lo consegneranno indenne ai producer di serie e serie a venire.
E invece, l’ascia cala con violenza e schizzi di sangue sul collo del povero Stark, e tanti saluti.

Evvivaddio, urla dentro di sé lo sceneggiatore, da anni costretto a fare i conti con “se sporchiamo il personaggio la gente potrebbe rifiutarlo…” martirizzato da lustri di happy end a tutti i costi, di sorelle segrete che ritornano al momento giusto per indirizzare la storia verso il bene, di deus ex machina che calano dal cielo per elargire ricomposizioni familiari, di premi esistenziali all’impegno o alla determinazione, di donne che capiscono di aver sempre amato il protagonista nel corso di uno sbrigativo dialogo di solito piazzato a due scene dal termine, di progetti che vanno in porto per inattesi colpi di scena…
Intendiamoci, nulla contro il finale tranquillizzante, nulla da obbiettare sul fatto che la promessa di felicità fatta al pubblico debba essere mantenuta.

Ma, azzardo, forse non deve essere mantenuta sempre. Forse al pubblico, che è molto meno addormentato di quanto spesso si creda, piace, qualche volta, per sbaglio, essere sorpreso da un avvenimento inaspettato – perché così simile alla vita, in cui i buoni spesso perdono, in cui i sogni molto spesso non si realizzano, in cui le cose altrettanto spesso vanno a finire male… non “vanno male”, questo succede anche nella fiction italiana. Vanno a finire, male.
Che è molto diverso.

E ancora, capiamoci. A nessuno piacciono le storie che finiscono con le pive nel sacco. Ma forse qualche volta paga di più il realismo, paga di più – e per una ironia del destino stiamo parlando di un fantasy - la vicinanza ai sapori della vita. O anche, una volta ogni tanto, abbandonare vecchi, e spesso consunti cliché, che ancora per la maggior parte imperano nei prodotti televisivi.
Il protagonista deve essere buono.
Il protagonista deve combattere per un ideale.
Il protagonista non deve avere ombre morali.
Il protagonista deve essere bello.
Il protagonista deve combattere per realizzare i suoi sogni.
Giusto.
Alla fine della seconda serie, il protagonista di Game of Thrones che il pubblico segue con maggior trasporto è Tyrion Lannister, magistralmente interpretato da Peter Dinklage. 


Tyrion è soprannominato il folletto. E’ un’intelligenza affilata, un tessitore di piani vincenti inzuppato in un disincantato cinismo, non ha sogni, perché ha capito che i sogni sono una debolezza. Alla fine della seconda serie vince con un piano geniale una battaglia decisiva, ma nessuno gli riconosce il merito. E’ brutto. E’ sfregiato, ed è nano.
Ok, così non vale. Forse è troppo, perfino per gli innovatori. Perché la grande abilità degli sceneggiatori americani – oltre, io credo, al minor numero di lacci e lacciuoli con cui possono esprimersi e ai mezzi indubbiamente soverchianti rispetto ai nostri – è saper sistematicamente coniugare le tecniche tradizionali e i meccanismi narrativi ampiamente acquisiti con le trovate innovative o addirittura iconoclaste. Ma mai e poi mai si privano di un meccanismo che funziona – quando funziona. Perchè i produttori americani saranno anche un po' ossessionati dal dio profitto e dai numeri ma non sono fessi. E se una cosa piace, non la mollano.

E allora, guardiamo meglio.
L’ultima scena della serie non è per Tyrion Lannister, il nano dall’irresistibile e caustica ironia cinica.
L’ultima scena ci porta nel profondo Nord, oltre una gigantesca Barriera costruita, millenni prima, per tenere fuori qualcosa. E’ là che Jon Snow, bastardo di casa Stark, è andato a votare la sua vita ai Guardiani della Notte, che su quella barriera combattono da sempre contro qualcosa di oscuro, di minaccioso, di Altro.
E’ bello, Jon Snow. E’ triste. E’ buono, è pieno di sogni, e combatte per la salvezza della sua terra.


Ecco. Adesso i conti tornano. Ci vediamo ad Ottobre, Trono di Spade.

giovedì 14 giugno 2012

DUNQUE LEI HA CONOSCIUTO TENCO

http://www.youtube.com/watch?v=17EKMAeIrVE&feature=plcp


La ripresa della rappresentazione del mio testo "Dunque lei ha conosciuto Tenco" all'Urban Center di La Spezia, in occasione della rassegna "Libriamoci".

A casa, dove come si sa nemo propheta, l'emozione è particolare.

lunedì 11 giugno 2012

Brutture da cover vintage


“Vieni al bar, vieni al bar, e lascia perdere Superstar…” non è una mia invenzione alla fine di una notte insonne. E’ il testo della cover italiana, ad opera dei “Flora, Fauna e Cemento”, di “Jesus Christ Superstar”, pietra miliare del musical rock. E come fare a dimenticarsela, una volta sentita? Soprattutto, come fare, dopo che una simile ferita ti ha deturpato l’adolescenza?

Ricordo perfino la trasmissione in cui la sentii, e questo fa almeno in parte giustizia: era la “Schif parade” un programma radiofonico della Rai condotto da due sedicenti Malalingua, pseudonimo dietro il quale si nascondevano Luciano Salce e Bice Valori… e allora tutto diventa un pochettino più chiaro. Anche perché l’autore accreditato di questo testo è Herbert Pagani, e allora è autorizzato il dubbio che si trattasse di un’operazione ironica e volutamente iconoclasta.

"Lei non c'è, lei non c'è
esce con tutti ma non con te
vieni al bar, vieni al bar
e lascia perdere Superstar"


Gran programma, la Schif Parade. Per inciso, non oso pensare in che posizione potrebbe essere la Pausini in un programma del genere, ma ricordo che Schif parade fu essenziale per il successo delle “Figlie del vento”, che frantumarono la Hit parade 1973 con versi immortali come: “Sugli sugli bane bane, tu miscugli le banane.” Bei tempi.
Però le cover italiane, per tornare a bomba, in quegli anni erano veri e propri capolavori. Proviamo a giocarci.

“Se tu guardi gli occhi miei
che hanno pianto per amor
che han versato tante lacrime,
puoi trovarci la tua immagine
quel sorriso, quella bocca, che baciai…
che baciai e così saprai.


Ridestatici dall’ascolto del sublime, basta cantare questi stralci di alta poesia sulle note di “The sound of silence”, e il misfatto è compiuto. Il responsabile, per non far nomi, era Dino. Il testo originale di Paul Simon raccontava un mondo complicato, incomprensibile, in cui perfino il buio era un rifugio accogliente e familiare:

“Ciao, oscurità, vecchia amica
sono qui per parlarti di nuovo
perché una visione arrivando dolcemente
ha lasciato i suoi semi mentre dormivo
e la visione
che si è fissata nella mia mente
rimane ancora
dentro il suono del silenzio”

Molto di peggio, a dire il vero, riuscirono a fare  Piccaredda e Paolo Limiti (sì, proprio quel, Paolo Limiti), che riuscirono ad affidare ad Ornella Vanoni e Wess il seguente scempio di “Imagine”:

“Immagina una parola
detta al momento in cui
io sono molto solo
e accanto ci sia lei
immagina che mi creda
come, non lo so
Non è vero ma succede
viene sempre un'ora blu
e se solo il cuore cede
stammi più vicino tu”

Questa divagazione mi è venuta in mente perché qualche giorno fa mi sono trovato a parlare di “Pietre” di Antoine al Festival di Sanremo, e ho scoperto che non molti sanno che si tratta di una cover, per quanto non accreditata, di un brano di Bob Dylan,  Rainy Day Women 12 & 35. In quegli anni succedeva spesso, e qualche volta anche con risultati egregi.
E’ il caso, per esempio, di “A night in white satin” dei Moody Blues, qui nel video ufficiale del 1967.


Notti di raso bianco
non arrivano mai alla fine
lettere scritte
non significa che siano spedite
La bellezza si è sempre perduta
in questi occhi.
Quale sia realmente la verità
non sono più in grado di dirlo.

…diventata, nella versione dei Nomadi, peraltro ripresa in quel periodo da molti altri gruppi del beat, primi tra tutti i Profeti, “Ho difeso il mio amore”.



Queste parole
sono scritte da chi
non ha visto più il sole
per amore di lei.
Io le ho trovate
in un campo di fiori.
Sopra una pietra
c’era scritto così:
Ho difeso
ho difeso
il mio amore
il mio amore.

Poco e niente è rimasto del testo originale, ma Augusto Daolio riesce a conferire a queste parole, che paventano un oscura storia di eros e thanatos, un’epicità e un’intensità che in alcuni momenti supera l’originale.
Qualche volta accade. Pregherò, per esempio, è una rilettura totale di Stand by me, e Don Backy riesce, dopo che l’impresa era stata fallita da Miki del Prete, a costruire un testo e una storia che volano molto più in alto dell’originale, che era solo una canzone d’amore dal testo piuttosto banale, mettendo in scena la storia di una ragazza cieca che odia il cielo e Dio per la sua menomazione. 
Non foss’altro, una storia umana e non un clichè, che verrà inciso dal molleggiato, che almeno dal punto di vista del testo si fa notare, tanto è vero che quando Dalidà incise la versione francese, come modello si scelse la versione di Don Backy, e non quella americana.

In fondo in fondo, non è andata male neanche a Frank Sinatra e alla sua “Stranger in the night” divenuta, in bocca a Johnny Dorelli “Solo più che mai, in una notte che non finirà…”



Almeno la notte è rimasta.






domenica 10 giugno 2012

Breve storia di lunghi tradimenti

http://video.repubblica.it/arcipelagofilmfestival/ingorgo-sul-lago-salato/97824/96206

Immagini dalla Bolivia girate da Davide Marengo con un I-phone sul set del film "Breve storia di Lunghi Tradimenti", tratto dal romanzo di Tullio Avoledo, e sceneggiato dallo stesso Davide, da Alessandro Pondi e da me.




"Breve storia" è un piccolo film - piccolo per standard produttivo - che sa volare alto come un blockbuster. E' un bank thriller nel senso che i cattivi, pensa un po', si annidano nel sistema bancario internazionale. Va detto a nostra discolpa che quando abbiamo scritto la sceneggiatura - e prima ancora quando Tullio ha scritto il libro - Monti era solo un commissario europeo e un consulente - oscuro per la maggioranza di noi - al soldo dei veri padroni del mondo.
E ancora non si era rivelato con il suo potenziale virale di ostinato burocrate incapace di vedere la realtà ad di fuori dei suoi numerini da contabile.
Ma questa è un'altra storia: il film, dicevamo.
Noi abbiamo costruito, sul solco di un felicissimo romanzo, la storia di un uomo comune, Giulio, che si trova a poter essere il sassolino che blocca un ingranaggio diabolico.
Non solo diabolico perchè sanguinario e, come spesso succede in questi casi, nascosto dietro la facciata bonaria del saggio salvatore del mondo. Diabolico perchè, esattamente come il diavolo, ti seduce con la promessa del potere, e con quella uccide i tuoi sogni, le tue aspirazioni e i tuoi ideali.
E' quello che è successo a Giulio, che un giorno ha deciso di abbandonare la sua speranza di migliorare il mondo e la sua militanza antagonista per rassegnarsi - d'altra parte tiene famiglia - al ruolo di oscuro avvocaticchio in una banca di provincia.
Ma a volte la storia decide di passare per vicoli poco battuti, e passa da lì, proprio sotto il suo naso.
Chiedendo un tributo di dolore, e anche di sangue, a cui è troppo facile assuefarsi, abituati come siamo a pensare che il mondo non si cambia e al massimo cambia noi.
E invece, Breve storia è il racconto di un risveglio, che avviene in sudamerica, luogo di grandi contraddizioni e di spudorati populismi (che da qualche anno sono sbarcati anche qui da noi con la faccia impomatata e ipocrita del giullare che tutti conosciamo). Un risveglio che noi crediamo ancora possibile e che per Giulio arriva sulle note di "Gracias a la vida", la canzone che più di tutte ci racconta come l'antagonismo sudamericano sia fatto di una pasta del tutto diversa. Forse una pasta da imparare anche in Europa.



Tornando al film, adoro le interpretazioni di Carolina Crescentini e Maja Sansa. E sono orgoglioso di avere scritto le battute che vengono pronunciate da un Philippe Leroy in stato di grazia.






Lascio per ultimo Guido Caprino, perchè è ormai un compagno di strada, da Manara in poi.


Breve storia - che è stato prodotto con sprezzo del pericolo e animo garibaldino da Alessandro Silvestri - è un film molto importante nella mia storia artistica e professionale.
Spero lo diventi anche per il pubblico.



sabato 9 giugno 2012

ANGELUS


Affido la mia attesa d’Infinito ad una segreteria telefonica. Nella speranza che il nastro basti a contenerlo.
L'Infinito, intendo.
Non mi sono rassegnato al cellulare, non permetto alla tecnologia di violentarmi la privacy.
Ma si sa, il Tutto si organizza secondo logiche sovrumane, e potrebbe decidere di rivelarSi in qualsiasi momento… Così, per far fronte alla Sua capricciosa imprevedibilità, mi sono organizzato con una segreteria telefonica.
Casomai piovesse dal cielo, improvvisa, la chiamata che aspetto da sempre. E’ una segreteria antidiluviana, a cassettina.
Vintage, la chiamano adesso. Quando l’ho comprata io, la davano via a prezzo stracciato perché ha un difetto di progettazione. Quando la cassetta arriva in fondo, riavvolge e cancella tutto.
E questo non ha aiutato il suo successo commerciale.
La prima cosa che faccio rientrando è gettare un occhio al led, per vedere se lampeggia. Ma di solito ci trovo registrate solo chiamate dei call center.
Questa è una ricerca di mercato, risponderebbe a qualche domanda?
Ecco perché, se il led fa l’occhiolino, non salto alle conclusioni. Tolgo il cappotto, studio la lucina rossa di sguincio. Che nasconde, quell’ammicchìo vermiglio?
C’è solo un modo per scoprirlo. Clic.
La-segreteria-contiene- UNO -nuovi-messaggi.
E sentiamo.
Buonasera, sono la segretaria di Dio.
La testa mi gira. Allora è possibile. Allora a volte capita.
Nostro Signore le sarebbe infinitamente grato…
Già. Infinitamente. In che altro modo, sennò?
…se volesse richiamarLo al numero: tre-cinque-cinque-quattro-due-nove-otto-otto…
Un momento, fammi  prendere la penna. E un foglio. O un post it. O un kleenex. Visto che non mi sono rassegnato neanche al computer.
…cinque-nove-otto-quattro-due-nove-tre-tre-uno…
Completamente scarica, ti pareva?
...otto-quattro-due -tre…
Che poi si fa così? Un poveraccio Ti aspetta da sempre, e Ti fai vivo una sera qualunque, neanche parli Tu e fai lasciare un messaggio dalla Tua assistente?
...nove-otto-quattro-due-cinque-cinque-nove…
Maledetta biro. Spande inchiostro e imbratta, ma di scrivere non se ne parla.
…nove-otto-quattro-cinque-nove-tre-quattro-due…
La matita. Aspetta, la matita. Ce n’è una nel cassetto. Fa’ vedere.
...cinque-cinque-nove...
Che oltretutto che senso ha un numero di telefono così lungo? Lui non dovrebbe avere l’Uno? Non esiste una sorta di corsia preferenziale?
...quattro-due-tre…
Matita spuntata. Un temperino, ecco sì, un temperino.
…a  trovarlo.
Estote parati, tenetevi pronti, diceva il curato alla messa, tanti anni fa. I buoni consigli andrebbero seguiti, tornano utili, una volta o l’altra.
...cinque-cinque-uno...
E invece, ecco qui. Numeri a pioggia, a valanga, a tsunami, e niente per scriverli…
Però anche Tu.
Voglio dire, Ti imploro da una vita - a modo mio, ma pur sempre Ti imploro – di rivelarTi, e Te ne esci con un numero telefonico di quaranta cifre da mandare a memoria? Ma che si fa così?
…tre-cinque-cinque-quattro-due-nove-otto...
Un chiodo. Ecco sì.
…otto-quattro-due-cinque-cinque-nove-tre-quattro-nove-otto-quattro-due… Un chiodo per incidere il numero di telefono sulla parete.
…cinque-quattro-uno…
I chiodi sono nella scatola degli attrezzi, e la scatola è nello stanzino, in cima, se trovo la scala… Solo che è in soggiorno.
…nove-otto-quattro-due-quattro-due-cinque…
Potrei usare un coltello, ma è in cucina.
…otto-quattro-due-quattro-due…
Stessa cosa se scendo in cantina a prendere i pennelli.
…tre-cinque-cinque-quattro…
...forse bagnare il dito e scrivere sul pavimento…
…cinque-cinque-nove-tre-quattro…
Se non vivessi solo, avrei una donna, e se avessi una donna, la donna avrebbe un rossetto... E a quel punto, col rossetto...
...ma il rossetto sarebbe in bagno.
...sette-uno-due...
Sono troppi. Com’era? Otto cinque sette uno due… no, mi sbaglio era… …cinque-nove-tre…
Mentre mi incarto a mandarli a memoria, improvvisamente, penso che tutto questo è molto bello. Perché ora so che c’è un posto dove Qualcuno mi ascolta, e soprattutto, che quel Qualcuno esiste. Finalmente...
…nove-tre-quattro…
Quanto ho pregato, nel fondo del mio cuore, perché fosse così. Negando quella preghiera nel momento in cui la formulavo. Pregavo che facesse in modo di esistere. Che lo facesse per me. Per esaudirmi.
…uno-uno-cinque…
E questo dimostra quel in fondo già sapevo: le preghiere non vanno perdute. ..tre-due-cinque-nove...
Ringrazio il Creatore, che finalmente Si è concesso. Ora che potrò parlare con Lui, finalmente sarà tutto chiaro.
...sette-uno-sette...
Lui darà senso al tutto, renderà comprensibile il nulla, accettabile l'oblio...
giustificherà l’assurdo…
Oppure…
Oppure…
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venerdì 8 giugno 2012

Il cantautore più premiato d'Italia

Welcome to Italy


Voglio parlare di Piji.
Non solo perchè è mio amico, ma soprattutto perché spesso si ha ritegno a raccontare che gli amici sono bravi. Oppure, segretamente, li si invidia, e si fa finta di niente.
Ecco, io Piji lo invidio.



Perchè ha scritto una canzone bellissima per lo spettacolo che abbiamo fatto assieme "Dunque lei ha conosciuto Tenco?" cogliendo perfettamente quello che io ho cercato di dire nel mio testo e nella messa in scena.
Solo che io ho avuto bisogno di imbrattare una trentina di pagine e riempire un'ora di messa in scena dei miei soliloqui.
Lui si è messo lì, e zan-zan in tre minuti è riuscito a rendere le stesse cose. Le stesse emozioni, lo stesso stato d'animo.
"Ti ho tradita con la musica", si intitola il pezzo. Mi pare.
L'ho cercato su Youtube, non c'è. Bisogna rimediare.
"Ti ho tradita con la musica".
E devo dire che è verissimo. Siamo un bel gruppo di innamorati pazzi della musica, che tradirebbero tutto per un palco e sette note. Anche la madre.
Io poi, ho scoperto presto che era meglio se da quel palco stavo giù, e lasciavo lavorare la gente del mestiere.

Lo confesso: non avevo mai sentito Piji dal vivo, prima della serata di Mercoledì 6 Giugno al The Place.
E avevo fatto malissimo.
Perchè Piji sul palco ci sta - per dirla con Stan Laurel e Oliver Hardy - "come un pisello in un baccello".
E la gente che affolla il The place sembra saperlo benissimo.
Si inizia con "La crisi" che sembra proprio adeguata al momento, e si continua con godurie musicali assortite.


Perchè Piji ha una Band di grandi musicisti con un tiro of the madon.
Con alcuni di loro ho condiviso il progetto su Tenco, con altri no, ma come suonano.
Infine, auguro ogni bene al singolo "Welcome to Italy" che mi pare un capolavoro di scanzonatezza e di ironia, degno della miglior tradizione dei crooner italiani, da Natalino Otto, a Fred Buscaglione, passando per Rino Gaetano per arrivare a Gaber, che a citarlo a proposito di Piji non si sbaglia mai.


Insomma, un gran bel pezzo, ma non mi stupisco.E'  il primo singolo in vendita di Piji, ed è anche su I-tunes, ed è giusto così.



Anche perchè di pezzi belli, Piji ce ne ha regalati molti. E tra tutti, voglio concludere ricordando uno dei miei preferiti: Madama Pioggia.




Forse perchè, come diceva Brandon Lee (e non Jim Morrison, come si ostinano a scrivere i condivisori di link su Facebook): "Non può piovere per sempre."


Che mi sembra un buon augurio con cui iniziare la giornata.

giovedì 7 giugno 2012

De l'infelicità dei Paperi. Un raccontino scunnacchiato, che ho pubblicato anni fa nella raccolta "Omicidi all'italiana" (Mondadori/Colorado Noir)


DE “L’infelicità dei paperi”

Sette quattordici ventuno ventotto.

Gli è venuta in mente di colpo, quanto alla radio hanno messo su DiscoDuck. Ma tu pensa, DiscoDuck! Saranno stati vent’anni che non la sentiva. E di colpo, per associazione di idee, gli è tornata in mente la filastrocca.

Sette quattordici ventuno ventotto.
Questo è il gioco di Paperotto.

-Santa Emerenziana, che caldo…- Sbuffa, e si passa una mano sulla fronte, che è madida di sudore. Ci saranno almeno cinquanta gradi, dentro quella Panda. Puzza di asfalto spappolato dal finestrino, e l’olio che bolle.
-E bolli, bolli, che mi frega. Tanto torno e ti butto. E mi faccio il Mercedes, stavolta. Coi cazzi e i controcazzi.-
La macchina è un forno, tanto che l’aria vibra leggermente, come nei miraggi. L’aria calda del radiatore che bolle sfoga dal riscaldamento a palla. Come viaggiare in un forno a microonde con le ruote, ma almeno il motore non fonde.

Paperotto con la marsina
Va a cercare la regina.

Per strada, nessuno. Tre del pomeriggio di una giornata d’agosto, ottusa, lancinante e canicolare. Nessuno in giro. E lui lì. Col soffio bollente del radiatore in faccia, a chiedersi da dove cavolo è saltata fuori, adesso, quella filastrocca. Non ci pensava da anni. Ma come “da dove…” Da quella volta là. Quella-volta-là. Però ora sto molto meglio, si dice. Davvero molto meglio. La soluzione era semplice, ce l’aveva sotto gli occhi. Bastava pensarci. Vabbè, basta sempre, pensarci.

La regina è andata a Roma
a cercare la corona

Se la ripete, la filastrocca, e immediatamente sorride, perché lui è fatto così, gli piacciono le coincidenze. Lo conferma anche il cartello stradale che sfila via sul ciglio della strada fiorito di rovi secchi e cartacce: 150 chilometri a Roma. Non ci va solo la regina, a Roma. Ci sta andando anche lui. Centocinquanta chilometri sono nulla, confronto all’eternità. E così, compiaciuto e beato, si becca in viso l’aria bollente che arriva dal finestrino, e si sente felice. E’ rovente, l’aria della statale, spessa e soffocante come il soffio di un phon, confronto al caldo che fa, la dentro, è un refolo di brezza. Perciò, lui si sente felice. E l’eternità gli strizza l’occhio, scompigliandogli i capelli, e decorando di nuvole e arcobaleno l’orizzonte. Tipo un film americano. I tornanti morbidi della maremma hanno da un pezzo lasciato il posto ad un lungomare neorealista troppo trafficato, irto di cabine, che sfilano a fianco al finestrino facendo von-von. Ogni tanto, è costretto a rallentare, per un semaforo o un incrocio, mentre gente col materassino in collo sciabatta verso casa. Ma lui preferisce così, perché l’autostrada non gli piace. Tipo d’estate, c’è troppo casino, troppi stronzi prepotenti. Sulla statale si va più lenti, ma c’è c’è più vita. Si guarda attorno come se sfogliasse un catalogo: quello della sua vita futura.
-Aaaah. Ecco qui, vediamo. Potrei far questo, e questo e quell'altro. E quell’altro ancora. Chi me lo impedisce?-

la corona non c’è più
ora cercala un po’ tu!

…gli sfiorisce il sorriso, e pensa che alla fine è sempre così, che vanno le cose. Finisce sempre che si scopre che qualcun altro è stato più veloce, o più furbo, o con le conoscenze giuste: è piombato sulla torta prima degli altri e se l’è ingoiata a morsi. Solo che lui, uno di quei qualcunaltri che hanno sempre la porzione migliore a tavola non l’ha mai conosciuto. Di certo, non finora. Ma adesso… ehhh… da qui in poi, tutta un’altra storia. Da qui in poi si ricomincia. Rien-ne-va-plus. Frrr. Tutto nuovo, che neanche sai che prima era vecchio: anzi, vecchio non l’è mai stato. E se lo è stato non lo sa più. Tutto di nuovo giocabile. È come se ti ridanno il gettone. Stessa cosa. Lo infili nella macchinetta…
-Mangiasoldi le chiamano, tipo. Ma no, aspetta, le chiamano in un altro modo, in inglese. Tipo spot machine. Aspetta… non spot… - Parla da solo, a volte. Ma solo quando il viaggio è lungo. E stavolta non riesce a ricordarsi il nome inglese di quelle… -Macchinette mangiasoldi mi pare, ma come le chiamano? …macchinette mangiasoldi, macch… maccheccazzo guarda ‘sto stronzo!-
Freni che ridono sull’asfalto. Panda che inchioda. Inizia così.

C’è un uomo, sulla strada. Bianco. Bianco il viso, di chi non prende il sole. Giacca, bianca. E pantaloni, bianchi, e camicia, e cravatta. E scarpe. Bianche.
–Ehi tipo! Sei caduto nello smalto per cessi?- fa quello che guidava, scendendo dalla macchina. Ma l’uomo vestito di bianco non risponde. E’ sdraiato per terra, orecchio sull’asfalto come un indiano, a sentire se arriva qualcuno. E la ruota della Panda è ferma a dieci centimetri dal suo orecchio sinistro, col cinturato che gli fa il solletico al lobo.
Si chiama Michael, quello bianco, ma non lo dice. Dà un’occhiata all’altro, quello scarmigliato, occhio febbricitante, con la camicia fuori dei pantaloni. E decide che può bastare, per farsi un’idea.
-Ma sei scemo?- urla lo scarmigliato, che invece si chiama Gabriel -Se non ti vedevo, il capoccione te lo scoppiavo come un’anguria! CIAFF! Fatto: la fine dei tuoi guai, inizio i miei.-
Il cremino lo guarda, ineffabile. Si tira su. Raccoglie la valigia, gli gira intorno… -Eh no, eh. Mica mi freghi così.- …e sale in macchina senza produrre verbo, manco fosse stato invitato. Si sistema per benino sul sedile. Gabriel lo guarda interdetto.
–Vuoi un passaggio? Uei! Parlo con te! Vuoi un passaggio? Allora dillo! “Scusi signore posso avere un passaggio?” fai tu. “Ma certo, vado giusto per di là…” Faccio io. E ce ne andiamo, io e te, felici e contenti, verso l’infinito, e oltre. Facile no?-
No. Perché l’altro non risponde. -Buongiorno, eh? Piacere, e tutte quelle cose lì. Mi chiamo Gabriel.- Tende la mano. Il muto sgrana due occhi da gufo, porge il gomito. -Chi saresti, un igienista tipo Michael Jackson?- Il silenzio grava pesante come un’accusa. E Gabriel se ne torna in macchina borbottando.
-Tutti uguali, tutti stronzi. Perché secondo loro le cose uno se le sogna la notte, e la mattina si sveglia imparato, eh?-

Sette quattordici ventuno ventotto.

Il muto si chiama proprio Michael, ma a differenza dell’altro Michael –Jackson, appunto- sembra mutissimo sul serio, non spiccica una-parola-una. Il che non impedisce a Gabriel di continuare nella sua giaculatoria.
-Come fa uno a saperle, le cose, se non gliele dicono? Ma loro no! La legge non prevede ignoranza.- Ottima intuizione, sembra dire il muto, con gli occhi a palla. E allora? -Ma ora ho capito come funziona. Come il mondo si muove, lo fulmino. Ohsìsìsì. Occhi aperti, non mi faccio fregare.-
Il muto non commenta. Forse ha imparato da tempo a non contraddire gli sciroccati. Forse ha deciso che non ne vale la pena. O forse il gatto gli ha mangiato la lingua. Fatto sta che guarda avanti, la valigia sulle ginocchia. La apre, e controlla che l’altro non ci guardi dentro. –Guarda che non mi interessa, cosa porti in quel cassone. Puoi tenerci anche un cadavere, se ti garba.-
Michael non risponde, che novità. E tira fuori… Topolino.
-Vado a Roma, ti sta bene?- gli fa Gabriel, nel tentativo di essere socievole. E Michael stende il palmo verso la strada, tipo: adelante. Tutto lì.
–Che sfiga. Un cristiano ha voglia di fare quattro chiacchiere mentre guida, e tira su un muto…- …che sta muto e guarda la strada. E Gabriel se ne frega, ha voglia di parlare. Parla, parla… e sente pure la radio. Insomma, un casino. Ma -coi sincronismi che fanno bella la fiction, quindi la vita che ad essa si ispira- in quell’esatto momento il motore, put-put-put, si ferma.
-Cazzo, l’olio. Se ho fuso la guarnizione della testata ti mando la fattura a casa eh?- Stavolta, il muto pare che senta. Si punta un dito in petto, come per dire: a me? –Ah, no, a quell’altro! Ce l’ho messa io la testa sotto la ruota? Io me ne andavo buono buono per la strada mia. Te la dovevo schiacciare, la testa! E mo’?- L’omino bianco indica la spia dell’olio. Rossa.
–Dici che è basso?-
Eh sì, annuisce Michael, basso-basso.
-Sai che c’hai ragione? Ecco cos’era… Scusa eh, davo la colpa a te, invece… Sì cazzo ma adesso?-
Michael indica l’autogrill in lontananza.
-Non c’hai manco torto. Dici che me la danno, una latta d’olio?- Ecchennesa, Michael. Sa solo che a tutto c’è rimedio, fuorché alla morte. Allarga le braccia.
-Tentar non nuoce, dici tu. Eh certo. Tanto ci vado io, fin laggiù.- Silenzio di tomba. -Vabbè. Cavagli una parola a questo…- E sparisce all’orizzonte, borbottando.

Sette quattordici ventuno ventotto…
questa è la storia di Paperotto…

E qui finalmente qualcosa succede.
-Corrisponde!- Esclama Michael preso da improvvisa frenesia, appena Gabriel è sparito dietro la curva: allora parla! Deve essere importante, la cosa che ha da dire, quasi trema per l’eccitazione… Apre la valigia, tira fuori un pacco di Albi di Topolino incellophanati… e matite, gomme, cancelleria assortita, forbici. Sfoglia, con gli occhi accuminati d’un pedofilo all’uscita di un asilo.
-Corrisponde assolutamente, come un frammento al suo vaso, una tessera al suo puzzle, una spina alla sua presa, un budino al suo stampo…-
Se i pedofili sfogliano, sfogliano come lui, mani che tremano, labbro inferiore tra i denti.
-Dev’esserci, l’ho letto ieri…- Occhi che luccicano. -Corrisponde come il piede alla scarpa, la moneta alla zecca…- Eccola-eccola-eccola la cosa che cercava. Eccola lì, eccola, in fondo come sempre, sotto la pila di Almanacchi. Ahhhh. Rimira il giornalino soddisfatto, e inizia a ritagliare. E’ un metodico, Michael. E’ un meticoloso. Perciò fa un lavoro accurato.
–Tranquillo ora. Preciso. La forma è sostanza.-
Ritaglia una vignetta, la mette in una busta da filatelico. Annota qualcosa sull’etichetta, e la ripone nella valigia. Solo a questo punto, si guarda attorno.
I sincronismi, gran bella cosa: niente tempi morti. Ecco là Gabriel che torna proprio in quel momento, con la sua brava latta d’olio. Apre il cofano e glugluglu.
–Chi fa da se’ fa per tre. Gambe in spalla e ho risolto.- Uguale che dirlo a un aspirapolvere: Michael lo fissa senza espressione. Prendere e dargli un pizzone nel muso sarebbe nulla, ma…
…ma è un bravo cristiano, Gabriel, non nel senso della messa la domenica, no… nel senso che ci prova comunque, poverino, a fare un buco in quella corazza di silenzio, brillantina e vestito inamidato. E tira fuori un sacchettino di carta a scrittine rosse dell’Autogrill.
-Ho preso panini e birre, magari ci vien fame per strada…- Mette in moto e sorride, perfino. –Mezz’oretta e siamo a Roma. Non poteva andar male proprio oggi…-
Ecco, questa ultima parte del vaniloquio, al muto gli è interessata. Lo fissa interrogativo. E Gabriel non si fa pregare. –Eh sì. Oggi è un gran giorno.- conferma, l’ombra di un sorriso… che cade nel vuoto con un tonfo sordo. Ma chissenefrega, ha voglia di parlare, mica si fa smontare da uno che gioca a far la mummia.
–Ehi, coso… l'hai fatto il militare?- Michael lo fissa, angelico.
-Macché, sei troppo scemo. Senza offesa eh… ma uno che si sdraia in mezzo alla strada per chiedere un passaggio, un po' scemo dev’esserlo per forza…-
Stesse reazioni di un ficus benjamin.
–Capito tutto: non l’hai fatto. Imboscato! Mi togli una curiosità? Non l’hai fatto perché sei muto o perché sei scemo?- Michael sospira, un’espressione indecifrabile.
-Vabbè, niente di male. C’è pieno di imboscati. Tutte truccate le carte in questo paese, dico io. Almeno saprai come funziona…- Michael fa sbrigativamente cenno di sì con la testa, ma l’occhio di Gabriel si è già perso all’orizzonte, liquido e ispirato, come in un western.
Vent’anni, cazzo, sembra ieri. Eppure -se si guarda allo specchio- mica riesce a crederci: non ha più vent’anni, quando è successo? era tutto giusto, quando ce li aveva davvero, quando e’ successo che non ce li ha più?
-Quando è arrivata la cartolina, avevo vent’anni. Dai, non fare quella faccia. Ce li hai avuti anche tu vent’anni… no?- lo studia perplesso, gli sorge un dubbio: -No?- e poi ride. Che scemo. Certo che ce li ha avuti anche lui. Ce li hanno avuti tutti, vent’anni: per capirci, è quel momento della vita in cui sembra tutto nuovo, e il futuro sorride… eccome se sorride…
-Insomma mi arriva ‘sta cazzo di cartolina e sai che mi dico io? Mi dico: ecchessaràmai un anno di militare? Tanto se non sei raccomandato o hai mezza famiglia all’ospedale ti tocca… faccio finta di crederci, dico signorsì e aspetto, tanto passa, prima o poi. Che vuoi che sia un anno? E poi dicono che si diventa uomini…-
E qui, la pausa ad effetto ci vuole.
Solo che Michael non fa una grinza.
-Ma mica basta. Eh no.- Argomenta imperterrito Gabriel, e si batte la mano sulla fronte. -Tutto qui dentro avevo. Mica sono un cretino qualsiasi, io. Senza offesa, oh. Sapevo cosa fare: tutto previsto. E avevo una ragazza che mi aspettava. Marta.-

Sette quattordici ventuno ventotto.

-Sai com’è, muto? Oh, non ti offendere se ti chiamo muto, ma viene per logica, non parli… quindi sei muto.-
E Michael gli sorride esitante. Sì, la deduzione ha un suo perché… -Ecco, vedi che vieni a me? Sai com’è? Che lo devono dire prima, che è tutto truccato: prima! Così i sogni li ammazzi da bambini, e non ti ci abitui, non ci conti. non ci speri, perché tanto non c’è nulla per te.-
Eccola la’. La sentenza definitiva. Gabriel annuisce a lungo, assorto, come se ne assapora il retrogusto di quelle parole sulla lingua e sul palato, e si dice: bravo. È esattamente così. Convinto del suo apparato filosofico, prosegue. –È un baraccone, ma le regole non te le spiegano mica. E che son scemi? Se te le spiegano poi come fanno a tenerti fuori? È tutto scritto: o sei come loro o sei fuori. E siccome come loro ci nasci, non ci diventi, io ero fuori.-

Questa è la storia di Paperotto.

-Un fiore, la Marta. Bella eh? Eh sì. Cazzo se era bella… E pure un lavoro tenevo. Un po' di gavetta, la gavetta ci vuole, e io non ho mai detto di no… E poi vedevi. Zan-zan. 20 anni, idee chiare. Mi facevo la vita che volevo, non sono di quelli che si tirano indietro, io. E invece me l’hanno rubata, la vita. E sai perché? Per sette centimetri. Oh sìsìsì. Sette centimetri del cazzo.-  Michael annuisce, ma proprio perché deve. Ma già che c’è, visto che Gabriel è tutto preso dai cazzi suoi, ne approfitta per spegnere la radio, che lo sta rincoglionendo.

Paperotto con la marsina.

-Mi sentivo un fagotto dentro quella divisa. I pantaloni mi facevano il sacco al culo e la mimetica mi stringeva al collo. E poi non la capivo, quella fila. “Si deve vedere una sola testa e un solo corpo, recluta.” Ma che significa, scusa. Se basta una testa sola e un corpo solo, fagliela fare a uno solo, sta buffonata, che magari gli piace pure.- Gabriel ride e riaccende la radio, insomma, un casino di nuovo. E Michael fa un’espressione sofferente, tipo: è proprio necessario? Ma quell’altro è partito, chi lo ferma più? Non lo vede neppure, e continua, sovrastando le chiacchiere senza senso del deejay con altre chiacchiere.
-Ma loro no. Conta, che non voglio venire? No. Non conta. Vieni lo stesso e fai finta che non ci sei: coperto e allineato. E va beh, vengo. Tanto è un anno, passa. Dovrebbero capirlo, che gli ho fatto un favore, no? No. Arriva quello, che fa il grosso perché ha un baffo sulla divisa -che a me non mi rappresenta niente, perché me ne frego di lui e tutta la sua caserma- che se era per me non ci venivo. Mi gira intorno, mi fa il contropelo ai capelli col dito… “Vai a un concerto rock, recluta?” Magari, dico io: e quello s'incazza. Boh. Un mio superiore mi fa una domanda, io rispondo sinceramente, e quello s'incazza perché dico la verità. Continua a girarmi intorno. È brutto, panzone, e annoiato, poveraccio dagli torto, una vita che sta in caserma. E mi fa: “Hai problemi con la disciplina figliolo? …ho una buona notizia per te,  figliolo! Hai trovato la fatina buona del cazzo che te la insegna!” Mi gira intorno come Silvestro con Titti. Mi squadra. Controlla i bottoni della divisa. La riga dei pantaloni. Qualcosa deve trovare, ha deciso di trovarla. Infatti la trova. Mi mette le mani tra i capelli da pulcino spaventato “hai i capelli troppo lunghi, figliolo. Di sette centimetri.”-
Michael guarda fuori, con quegli occhioni languidi, tondi come fossero disegnati. C’è la vita, là fuori. Corre oltre il finestrino. – Sette capito? Non sei o otto. Sette. Ma che cazzo ne sa lui… Ma come fa a dirlo…- Basterebbe poco, basterebbe tendere la mano… oppure dire a Gabriel di fermare la Panda, scendere in spiaggia con i pantaloni tirati su sui polpacci… Ma non può, Michael. Dovrebbe parlare, per chiederlo. E Gabriel, se non viene interrotto, continua.
-Capito come? Settimo scaglione, settimo mese, eravamo in luglio, sette  centimetri, sette giorni di punizione. Torna tutto.-

Sette quattordici ventuno ventotto.

Magari per Gabriel è tutto chiaro. Per Michael, meno. -E io avanti e indietro nella cella. Sette giorni: sai che facevo? Dicevo la filastrocca del Paperotto.-
Michael solleva la testa di colpo, come se fosse stato punto da una vespa. Guarda Gabriel con occhi fiammeggianti. –Non ti piace? E che posso farci io? Solo quella sapevo. Me la diceva mia mamma per farmi addormentare…-

sette quattordici ventuno ventotto
questo è il gioco di Paperotto
Paperotto con la marsina
va a cercare la regina
la regina è andata a Roma
a cercare la corona
la corona non c’è più
ora cercala un po’ tu!

Michael lo guarda con occhi grati, quasi commossi. Forse, involontariamente, Gabriel ha toccato un suo ricordo d’infanzia, e quasi gli viene da chiedersi che bambino fosse, un neonato muto che stava nella culla tutto rigido come se, oltre al ciripà, avessero inamidato pure lui. Ma poi si ricorda che stava raccontando una storia molto, ma molto più importante.
-Insomma se non ti piace ‘sti cazzi, la filastocca quella era. Ormai è tardi per cambiarla. E ogni filastrocca dura venti secondi. Due filastrocche, quaranta. Tre, un minuto. Per contare il tempo, capito? Sette giorni. Set-te-gior-ni. centosessantotto ore. Diecimilaottanta minuti. Trentamiladuecentoquaranta filastrocche. Sono numeri, non chiacchiere. Sette centimetri, sette giorni. E’ matematica, torna tutto. Un giorno della mia vita per un centimetro di capelli, capito?-
Michael estrae un blocco notes e si mette a prendere appunti.
–Oh, vedi che cominci a capire?- E Michael neanche solleva la testa, scrive fitto fitto e veloce, come se temesse di perdersi qualcosa. -Ma io che ne sapevo? Nessuno mi aveva detto niente. Tu comanda io obbedisce. E io obbedivo: i capelli me li ero tagliati prima di partire -ce li avevo lunghi, non mi guardare adesso- ma mica avevano messo un cartello all’entrata della caserma con le misure. Se ce lo mettevano mi adeguavo, no? Basta dire: tu comanda, io obbedisce…- Michael annuisce accorato. -Tu ora dirai, che sono sette giorni…- Povero Gabriel. Aspetta pure che lo dica. -Non me lo dici. Vabbè. E io rispondo lo stesso: tutto. Possono essere tutto. Hai presente quel gioco col domino? Ne cade uno, ne fa cadere un altro e un altro e un altro… E poi cadono tutti. Frrrrrrr… Capito come?- Michael prende un Topolino, inizia a sfogliarlo. –Hai fame? Ci sono i panini…- Il muto fa segno di no con la testa, ha cose più importanti da fare. ora. E ricomincia a scrivere sul taccuino, con quella scrittura tonda, da bambino, che si ritrova. Gabriel se lo studia un attimo, col panino in mano, poi fa spallucce, e decide che lui, invece, ha fame.
-Vent’anni ci ho messo a capire. Ma ora è chiaro, non me lo ruba più nessuno. Ora vedo la luce: io-vedo-la-luce. Sette giorni li sconti alla fine: torni a casa sette giorni dopo. “Hai i capelli troppo lunghi ragazzo.” Sette centimetri. Sette giorni. Torna tutto: torno a casa e il mio posto l’ha preso un altro. Capito? Non c’era più.- Azzanna il panino in un tripudio di ketchup, che schizza ovunque. -Se quel giorno mi accoltellava al cuore…- e si colpisce proprio lì, in mezzo alla chiazza che s’è sbrodolato sulla camicia… -…m’avrebbe fatto meno male.-
La rivelazione grava pesante nell’abitacolo della Panda: un silenzio eterno, dei momenti decisivi. -I capelli, bah. Avevo programmato tutto, e invece PUFF! …un altro ha preso il mio lavoro, colpa di quel bastardo e i suoi cinque centimetri del cazzo. Potevo cercarne un altro? No! Il mio lavoro era quello. Il mio lavoro, il mio destino, il mio futuro…- … e invece frrrrrr… effetto domino. Questo però, Gabriel non lo dice. Una sorta di pudore gli impedisce di svelare il coronamento del teorema.
Effetto domino. Frrrrrrrrrrr. Che storiaccia, povero Gabriel. Marta che lo lascia. Ma come – sua moglie lo lascia prima di sposarlo? Eh sì. Lo lascia come nella canzone di Celentano: chi non lavora non fa l’amore. E sposa un altro. -La madre dei miei figli si mette a far figli con un altro!- Sbotta infine, proseguendo da un punto qualunque del suo delirio privato. Ma Michael non si preoccupa più di chiedere spiegazioni. E lui si convince che va bene così. -Dura da mandare giù, eccheccazzo! Avevo programmato tutto, e tutto andava a puttane. Sette giorni, sette centimetri, sergente di merda. Con le patacche sulla divisa. E la barba lunga. Ma come funziona? Non si deve essere sbarbati? E i capelli? Corti? Quanto corti? Tanto? Poco? Troppo?- Si è sfogato, pare. Eh sì, perché aspira profondamente, per regolarizzare il respiro. Sembra che l’abbia sputato, il rospo. Macchè.
-Stavo da mia madre, povera donna. Mi vedeva scontento e stava scontenta pure lei. Un anno infelice, incazzato, e lei appresso a me… E poi è morta. Collasso, dice il dottore. A chi la racconti: l’ha ammazzata il sergente. Che c’entra? C’entra. Perché non vivevo più la mia vita, se la son presa gli altri, uno il mio lavoro, uno mia moglie… se la vivevo io, la mia vita, magari non moriva di crepacuore. Mi vedeva contento era contenta pure lei. L’ha ammazzata lui. Effetto domino. Frrrrrrrrr…- Per la seconda volta, Michael si convince che la tirata sia finita. E invece no. Quello riparte. -…e poi non fai un cazzo per vent’anni, tanto chi se ne frega, non è la tua vita. O forse sì, non lo saprai mai. Pure peggio, perché non ti rassegni. E il tarlo mangia dentro, mangia mangia e ti consuma… Ma ora basta, la rivoglio indietro.- Sorride, e tira fuori…
EHI QUELLO HA UNA PISTOLA NEI PANTALONI!
E ride. Visto? Non dice balle! Michael inarca un sopracciglio.
-C’è solo un modo. Ce n’ho messo di tempo, ma l’ho capito.- Tira il freno a mano, afferra il viso di Michael, che sbatte gli occhi, in una rapida occhiata alla pistola.
-Eliminando la causa si elimina l’effetto.-
Michael apre il blocchetto. Si blocca, come percorso da un dubbio. Fa per segnare qualcosa, si ferma di nuovo, penna alle labbra…
-Scusa, quanto sei alto?-
Gabriel lo guarda come lo vedesse ora. -Ehi, parli…- Il sorriso sfiorisce. Si fissano. -Ora sai il mio segreto, mi tocca ammazzare pure te. Beh, peccato, eri simpatico…- se lo studia – oddio… simpatico è una parola grossa…- Sul volto di Michael un’espressione indefinibile: paura? Gabriel decide di sì.
-Oh, scemo. Scherzavo. Ma perché vuoi sapere quanto sono alto?- Michael non vuole saperlo: lo sa.
-Un metro e 75.-
Occhi sgranati di Gabriel: -Come hai fatto ad indovinare?- Michael fa due conti. -1.75 sta ad 80 chili… come 55 sta a 25…-
Bocca aperta di Gabriel: -Ma io peso 80 chili!-
Sa pure quello, Michael.
-Appunto, corrisponde.- Ovvio, no? No.
-Ma corrisponde a che?- Michael spalanca gli occhioni da cartone animato. Come fa a spiegarglielo? E’ come dimostrare l’esistenza di Dio, si può? No, Dio è perché è. Identico: -Corrisponde perché corrisponde.-
Gabriel palleggia la pistola. –Certo sei un bel tipo. Stavo per spararti, sai? M’hai messo paura.- Michael allarga le braccia, con un’espressione di impotenza che strappa a Gabriel un sorriso.
-Sarai scemo, ma mi piaci.- Gli porge ancora la mano, ma prima la struscia sui pantaloni per pulirla. Michael lo lascia lì con la mano a mezz’aria. Prende di tasca un foglio, c’è disegnata sopra un’altra mano, però ha quattro dita. Lo appoggia su quella di Gabriel, controlla. Attento, meticoloso, scientifico.
-Corrisponde.- Sentenzia.
-Ehi coso. Hai rotto le palle, con ‘sto “corrisponde”.-

Poi succede che è quasi il tramonto, e la macchina si ferma di fronte a un casermone. Tipo Mandrione, Tiburtino terzo. Muraglie di intonaco scrostato e panni stesi. Puzza di cavolfiore. Rombo della tangenziale. Gabriel salta giù, si stiracchia respirando il puzzo come fosse aria di mare. –Oh! Ci siamo.-
Michael scende, comincia a tirarsi la piega dei pantaloni, che s’è gualcita. E gli punta addosso gli occhioni da panda. –Abita qui, il sergente?- Lo sguardo di Gabriel si perde nel caleidoscopio di finestre che rifrangono l’ultimo sole della sera.
–Già. Al 13 bis.-
E gli piove addosso, d’un colpo, l’urgenza che solo le svolte decise dal destino portano con se. –Beh, muto. E’ stato un piacere, si fa per dire. Buona vita, buon tutto, e tutte quelle cose lì.- tende la mano, poi ci ripensa:
–Oh, non è che me la misuri di nuovo?-
Ma figurati. Mai appurare due volte l’evidenza. Michael si stringe nelle spalle.
–Tanto lo so, corrisponde.-
Gabriel non ha tempo per seccarsi. Sente il frrrr della roulette, aspetta la pallina: è il momento della vita, che gli frega?
–Vabbè. Allora corrisponde. Contento?- Gli acchiappa la mano, la sbattacchia ben bene con tutto Michael attaccato.
–Ci vediamo, forse. O no. Che ne so.-
E via, a fronte alta verso il futuro. Passo marziale. Pancia in dentro. Petto in fuori.
E Michael, dietro. Gabriel mica è scemo, lo vede, con la coda dell’occhio. Ma fa finta di niente. E il muto, sulle sue tracce. Gabriel sbuffa, affretta il passo… e l’altro a ruota. –Uei! Adesso ciò da fare, entiendes? Ho una cartata di cazzi miei.- spintone sul petto immacolato di Michael –Escimi dalle palle. Entiendes? Pussa via.-
E va.
E Michael, dietro.
–Ho detto fuori dai coglioni! Chi cazzo sei? Siamo parenti, conoscenti, cugini primi, zii, consanguinei?- Alza la mano per colpirlo, ma è un bravo cristiano, e poi Michael lo guarda con quei due fanali da Bambi… Insomma, non gli regge la pompa.
-Fa’ il piacere. Aspetta qui, faccio in un attimo. Poi andiamo a farci un maraschino. Ok?- Michael siede sul gradino, imbronciato. –Non mi piace il maraschino.- Sospiro.-Quel che vuoi tu. Vabbuò? Scegli tu. Fa’ da bravo, cuccia lì.- Michael annuisce lievemente.
-Vado, l’ammazzo e torno.-

“Drin. Sì arrivo. E’ in casa il sergente Binello? Sì, lei chi è? Un amico.” Tutte le notti se l’è sognata, il povero Gabriel. Se l’è sognata per anni, nel suo lettino da scapolo a casa della mamma, nella stessa cameretta di quando era ragazzino, la cameretta in cui ha lasciato trascorrere languidamente una vita di recriminazioni. Se l’è vista tutta, inquadratura per inquadratura. Suona, qualcuno arriva, ci sarà pure un cane, una cagna che vive con quella cagata d’uomo. Il cane o la cagna apre, chiede chi è, lo fa entrare. Visto e rivisto, nei particolari. Un copione mandato a memoria. “Drin. Sì arrivo. E’ in casa il sergente Binello?”
Invece, la signora che apre la porta lo squadra con aria gelida.
-Mio marito la aspettava?-
Ehi, la risposta non era così, sta per dire Gabriel: lei signora doveva dire “venga”. e io…
-Mi ha detto un sacco di volte di venire a trovarlo, il sergente…-
-Maresciallo.-
Non era così, nel sogno. A questo punto la signora doveva sorridere convinta… A proposito. Guarda lì miss Binello. Forse era carina, una volta. …ma ‘na volta, eh. Ora è un sacco: vestaglia, calzerotti, ciabatte di spugna, retino ai capelli, reggiseno nero che spunta, coppa 38C. Un sacco abbandonato a se stesso. Rimmel sbaffato negli occhi.
-Prego?-
Occhi, rimmel o no, glaciali. Venati come cristallo vecchio d’un dolore antico, incomprensibile.
-Dopo l’incidente l’han fatto maresciallo. Esita, socchiudendo la porta del tinello… -Però… ora dorme e io stavo scendendo dalla vicina…-
Ricapitoliamo. Quello lì che sonnecchia davanti al televisore con il played sulle ginocchia … quello lì che Gabriel sta spiando dallo spiraglio della porta e fa tictic col telecomando e isole e case e amici e sei stato nominato e carramba… quello lì è Binello?
-Non lo stanchi. Capita raramente che viene qualcuno…- Gabriel guarda il sergente dallo spiraglio della porta. -Com’è successo? L’incidente dico.- Lei, per un attimo, è percossa da una fitta di sospetto. –Non ha detto che siete amici?-
Prende la cuccuma dai fornelli, versa il caffè, studiandolo.
–Sono stato all’estero per un po’.-
Sembra che la spiegazione basti, oppure, più probabilmente, chissenefrega. Gli allunga la tazzina.– Glielo porti lei, vado. Però ci soffi, è bollente.- E chiude la porta dietro di se.
Solo con Binello. Solo soletto. Solo loro due. Per sempre.
–Grazie, Lucia, mi hai portato il caffè…- biascica l’ometto sul divano: ma come fa ad essere Binello? Poi vede Gabriel. –Lei chi è scusi?- Gabriel si erge, maestoso.
–Sono l’Angelo della Morte.-
Binello rotea gli occhi, cerca nello schedario pieno di ragnatele che tiene nel retrobottega della testa.
–Angelo… Angelo… figliolo, non mi ricordo proprio, come fai di cognome? Dellamorte? Sei uno dei miei ragazzi?-
Gabriel lo prende per il bavero, gli stringe il collo, gli fa ingurgitare a forza il caffè.
–Sì, nonno. Uno dei tuoi ragazzi.-
Il poverino tossisce, mentre il caffè rovente gli scorre in gola, scivola a terra. Recupera un filo di voce, tra i conati. –Ma sei matto? Lucia!- giusto il tempo che Gabriel gli impianti un tacco in una mano.
–Non gridare, stronzo. O ti tronco. Entiendes?-
Il sergente fa segno di sì. E Gabriel lo lascia andare, l’altra mano che gli pende in grembo come una medusa spiaccicata sugli scogli. Troppo bianca per essere vera, e Gabriel realizza. Ci bussa sopra con le nocche. Toctoc. –E bravo Geppetto, che ti ha rifatto la mano di legno. Che fine ha fatto quella vera?- Binello se la massaggia come potesse ancora sentire il dolore di un’esplosione lontana.
–Una bomba tattica tra quelle da esercitazione.-
Che ficata, pensa Gabriel. –Non ce l’ho messa io. Peccato.- Il sergente si arrampica sul divano. –Chi diavolo sei?- E Gabriel scatta sull’attenti. -Recluta Girini Gabriel, 3° compagnia Cobra, 2° plotone, 1° squadra, COMANDI!- Binello lo guarda con occhi vacui. Gabriel ricambia con occhi increduli.
-Tu-non-ti-ricordi-di-me?-
Il vecchietto sospira. -Una parola, sai quanti ne ho addestrati? sessanta al mese per diciassette anni, fa quasi quindicimila. Tanti eh, proprio tanti.-
Povero Gabriel. Nessun segno, ha lasciato. Ha odiato tutta la vita uno che neanche si ricorda di lui. Cazzo, non vale. -Oh si, un mucchio… a quanti hai rovinato la vita?- L’ometto sventola la protesi. -Che ne sai, di vita rovinata… Io l’ho sacrificata per servire lo Stato e far di voi degli uomini…- miagola.
-Pezzo di merda! Era il tuo mestiere! Te l’eri scelto e ti pagavano! Io ero costretto, capito?-
Attenti: adesso arriva una cosa che si chiama tourning point, e di solito a quel punto succede qualcosa di emozionante, tipo che uno cambia, perché capisce che nella vita fino a quel momento non ne ha azzeccata una. Il punto di svolta, insomma. Ci deve essere per forza, sennò è inutile raccontare le storie, se hanno lo stesso andamento incerto e inconcludente della vita reale. Succede che all’improvviso il sergente –Maresciallo, scusi…- si erge. Proprio così. Un metaforico coach gli infila una scopa in culo per farlo star dritto.
-Mi odi, eh?-
S’alza,pancia-in-dentro-petto-in-fuori-espressione-marziale. Coperto e allineato con se stesso. Pure un po’ in controluce, che fa sempre il suo effetto.
-Questo è bene. Vuol dire che ho lavorato come Dio comanda.-
Non c’è una spiegazione, succede e basta. Un attimo prima era un’ameba, ora si aggiusta il bavero della vestaglia… e non trova le mostrine. Gabriel, invece, non crede ai suoi occhi. E alle sue orecchie.
-Che cazzo dici? M’hai rovinato la vita, la donna mi ha lasciato…- Stessa storia, cristo, già sentita. Per fortuna il sergente non ama i discorsi con troppe virgole. -Non è colpa mia se sei venuto fuori una checca piagnucolosa. La mia parte l’ho fatta. Ti ho insegnato cos’è un uomo. Non potevo farti spuntare le palle come nespole sugli alberi. Forse aveva ragione, la ragazza…-
E a questo punto, Gabriel scatta. Lo prende per il collo, e lo spinge sul divano.
-Marta si chiama. Non “la ragazza”, succhiasangue maledetto.-
E Binello ride. Gettato sui cuscini ricamati a mano con rose al punto croce, ride. E si solleva di nuovo. Gabriel non crede ai suoi occhi.
-Sei un vampiro, Binello. Dracula mangia sangue, tu odio. Ci sguazzi come un cinghiale nelle marane. Se uno ti odia, stai meglio: ti odia quindi esisti.-
-Odiami, allora, che cazzo stai aspettando?-
-Eh no, Maresciallo dei miei coglioni. Io ti frego e non ti odio.- Nel suo cuore, Gabriel non è convinto: maccomecazzo fa a non odiarti sono qui per ammazzarlo cristo! Poi, un pensiero lancinante. La pistola, il ferro, cazzo. Un colpo in fronte e non ci pensa più. Ma esita. Ed è come se Binello lo capisse, perché lo guarda indulgente, con compatimento, quasi.
-Non so se ho voglia di discutere con un capellone idiota come te. Ma capita che ho tempo da perdere, e in fondo sei perfino divertente.- Beh, questa Binello se la poteva risparmiare. Se Gabriel reagisce male, si può dargli torto?
-Divertente? Santa Emerenziana! Ma io ti…-
-Zitto.-
Lo dice sottovoce, Binello. Eppure, cazzo, funziona, quando si dice l’autorevolezza. Gabriel non solo fa silenzio, si irrigidisce pure un pochino.
-Accendi il cervello e ascolta. Cinque centimetri o un metro… non è quello il problema. Fate presto voi. “Più o meno” è la stessa cosa… balle! La differenza fra più e meno è la disciplina. Di-sci-pli-na. Senti come suona bene. Secondo te perchè abbiamo la stessa divisa? Gli stessi capelli? Per essere uguali! Stessi movimenti, stesso passo, tutti insieme. Eh, recluta? Perché siete uno. Siamo, uno. Un solo corpo, una sola mente: l’esercito! L’alternativa è l’anarchia, il disordine, il caos, lo capisci, imbecille?-
Il sergente –Maresciallo, scusi– lievita come un sufflè.
Annaspa, Gabriel, cerca la pistola. Binello è gigantesco, come allora. E’ l’orco delle favole, lo guarda compiaciuto.
-Sento l’odore del tuo odio. M’ero scordato, quant’è piacevole.- Finalmente, Gabriel estrae la pistola. Trema, ma riesce a puntarla sul sergente. Che sobbalza, ma non si scompone. –Oh… abbiamo l’artiglieria. Che dovrei fare secondo te? Implorare pietà? Chiederti di risparmiarmi? Mettiti comodo, può essere che devi aspettare. Perché non ho nessuna intenzione di implorarti, “Recluta Girini Gabriele, 3° compagnia Cobra, 2° plotone, 1° squadra”? Proprio nessuna. Provo a spiegartelo, chissà se capisci. Meglio un buco in fronte, che questo.- Gli sveltola la mano di legno sotto il naso. Poi, con l’unica mano utile, afferra quella di Gabriel, che ancora stringe la pistola, e se la guida alla fronte.
-Non hai niente da dire? Allora premi il grilletto. Spara, se hai il coraggio.-
Si appoggia la canna al centro degli occhi, e li chiude, aspettando l’abbraccio della Grande Consolatrice. Si dice che sia solo un lampo bianco, un suono lancinante, acutissimo, e poi…
-Mmmmmmavaffanculo!‘fanculo,‘fanculo,‘fanculo!-
Binello spalanca gli occhi, e Gabriel se lo scrolla di dosso, agitando la pistola.
-Spara? Stai parlando con me? Stai parlando con me? Santa Emerenziana no, che non ti sparo. Sai che faccio? Non ti odio neppure, toh. Non ti sparo -ché se ti sparo esisti– non ti odio –chè se ti odio esisti– non t’ammazzo –chè se ti ammazzo esisti. Invece non sei nulla, anzi meno: radicequadratadinulla-meno-nulla-fratto-nulla! Non ti sparo no, che non ti sparo. Ficcati la mano di legno in culo, vegetaci intorno finché non crepi, e ben ti sta. Sai che faccio? Via la pistola!- La infila nella cintura, e fa gnegnegne al sergente, anzi maresciallo mi scusi, come a dirgli che l’ha proprio fregato. E di colpo, negli occhi di Binello, un lago di infinito rammarico.
-Inutile che mi guardi con quella faccia da triglia, tanto non ammazzo, ti piacerebbe. Implora quanto stracazzo ti pare, sai che faccio?-
Lentamente, inesorabilmente, Gabriel alza il pollice come fosse un grilletto, l’indice come fosse una canna, e glielo punta in fronte.
-Eh, no, Binello. Il favore non te lo faccio. Ora me ne vado, via di qui. Via.-
Fa qualche passo verso la porta, mentre l’altro lo guarda incredulo e deluso, sempre con l’indice sollevato contro di lui.
-E non muoverti, ti ho sottotiro, sei nel mirino: ti tengo l’indice tra gli occhi…-
Quando Gabriel raggiunge la porta, Binello gioca il tutto per tutto.
-Spara figliolo, è un ordine!-
Ma Gabriel, godendosi, centellinandosi ogni centesimo di secondo, apre la porta e scivola fuori.
-Me ne fotto, dei tuoi ordini.- Gli punta il dito, prende la mira, accuratamente. Un colpo solo, mortale.
-Faccio bang! E tu sei morto. Anzi. Lo sei sempre stato.-

-Allora? L’hai ammazzato?- Michael è inesorabile come un agente del fisco. Occhi da aquilotto, punta Gabriel come sbuca dal portone, meno curvo, più giovane, quasi.
-Figurati. Quello non era Binello. Era la bara di Binello.-
–Insomma, non l’hai ammazzato.-
–Uei? Sei il notaio del signor Mike? Non l’ho ammazzato, allora?-
Ci vuole una risposta precisa: la forma è sostanza.
-Beh, allora corrisponde.- Gabriel non valuta se incazzarsi. –Ti va bene che è un gran giorno, sennò ti prendevo a calci in culo, te e ‘sto “corrisponde”.-
Michael fa per ridirlo…
-E non ci provare!-
Michael alza le mani. Però lo pensa: corrisponde.

Mica capita tutti i giorni d’avere a disposizione l’Urbe Eterna, il primo giorno della tua nuova vita e la serata libera, tutto contemporaneamente. E parla, Gabriel, parla…
-Me la sono ripresa. È… bellissimo. Esaltante. Ora scelgo che farci. Pensaci. Io e te potevamo nascere in due case vicine. Magari ci scambiavano nella culla.- Ride. -E magari io ero te e tu eri me.- Ma Michael è perso nelle sue lunari astrazioni.
–Però non l’hai ammazzato.-
-Ancora? Macchissenefrega, muto del cazzo. Ho di nuovo la mia vita. Nuova di pacca. Col cellofan. Non c’è più nessun sergente.-
-Sì, però mi avevi detto diverso.-
-E poi ho cambiato idea, vabbè? Ora sono un altro, anzi, sai che faccio? Se mi gira, dico: faccio un salto a Rimini a far colazione. E lo faccio. Lo dico e lo faccio, perché mica basta dirlo, devi pure farlo. Tipo: voglio fare l’astronauta? Fatto. Faccio l’astronauta. E tu rosica, che mi frega. Faccio MOGGI, vabbè? Prendo il cellulare sloveno, telefono e trucco le partite. Poi vado pure in tivù a fare l’opinionista, me lo impedisci tu?-

-Un sacco di gente molla tutto, vende casa, mette su un chiosco di Coca Cola in Giamaica, e chi s’è visto s’è visto. Sulla spiaggia, pensa che ficata. Con le palle al sole sulla spiaggia tutto il santo giorno, poi viene uno e mi fa “Fratello, mi dai una Coca Cola?” E io: “Ma certo, fratello. Sette dollari” Sette, non uno di meno. Questione di principio.-
Una notte immensa, e tutta Roma a disposizione. Altare della Patria, Fori imperiali, Colosseo. Isola Tiberina, e dall’altra parte, San Pietro. Castel Sant’Angelo. -Ci sono certe gnocche da sturbo, in Giamaica, che ti credi.-
Michael non risponde più. Ha un meteorico distacco, come annusasse nell’aria il momento esatto in cui inizia l’era dell’Acquario. O si stesse chiedendo: “Ma l’ho chiuso, il gas?” Siede sulla spalletta del ponte, ornato d’Angeli guardiani, e tira fuori Topolino.
Solo ora Gabriel si guarda attorno: -Fico, Castel Sant’Angelo.- mormora, compiaciuto come fosse suo. Si siede vicino a Michael, anche lui in mezzo agli angeli. Sono in uno degli scenari più belli del mondo, e non lo sanno. C’è tutta la centuria degli angeli guardiani, schierata su quel ponte. E lassù in cima, sul cucuzzolo di Castel Sant’angelo, San Michele Arcangelo, il principe delle legioni angeliche, vigila su quel luogo di fede. Peccato che lì dentro ci ammazzassero gli oppositori politici. Ma sono dettagli.
Saranno le due, le tre del mattino. Poca gente, poco traffico, manco una mignotta, non è zona. Un fanatico col SUV nero lascia una scia di UNZ-UNZ e va a suicidarsi con lo stereo dalle parti di Testaccio. Poi di nuovo silenzio. Gabriel respira soddisfatto. Ha voglia di qualcosa di nuovo, per dio, che arrivi dall’Antartide, dalle isole Vergini. Se l’è meritato.
–Certo che… ci pensi alla cazzata di prima che io ero te e tu eri me? Te l’immagini?- Michael è una sagoma albina, fosforescente nel buio. Solleva gli occhi, infastidito.
–Ma dai…- lo spintona. -Col farfallino, il Topolino e la faccia da cretino… Per fortuna non è successo: io rimango io, tu rimani tu. Sai cheppalle sempre a leggere Topolino…- Silenzio. Michael è emigrato nel giornalino.
–Che poi cosa ci trovi…- Michael ha visto qualcosa, tira fuori le forbici. Ritaglia, con le punte lunghe, affilate. A Gabriel, manco un’occhiata di sghimbescio.
–Senti un po’, stronzo. T’hanno insegnato l’educazione? Se parlo rispondi, capito?- gli strappa il giornalino.
–Mi stai a sentire?- Michael protende la mano. –No, mi ascolti!-
E frulla il Topolino dal ponte, nell’acqua grigia del Tevere.
Nel buio, solo un plonf.
–L’hai buttato-
Balbetta Michael, le forbici in mano.
Guarda Gabriel.
E con un guizzo gli apre un sorriso sanguinolento nella pancia.

Kyrie eleison… Kyrie eleison… Christe, eleison…

Ora il cremino ha le gocce di fragola sul vestito, sulla faccia, sulle mani… tutta roba mia, pensa Gabriel. Rotola a terra, sui sampietrini scivolosi di sangue. Anche quello suo, cazzo. Prova a parlare ma dice solo…
-Gragughrog…-
Michael gli va viene vicino, lo prende in braccio, gli accarezza i capelli.
“Mi ami, stronzo?” Pensa Gabriel, ma non lo dice, e anche se volesse, ormai non potrebbe più. Infatti non è strano, che non lo dica. La parte strana è che Michael risponde.
-Certo che ti amo.- sussurra, la voce che arriva da molto, molto lontano. –Vi amo tutti. Tanto da dar la vita per voi.-
Apre la valigia con la mano libera, tira fuori le cartelline, le scompagina per terra, cercando qualcosa. –Ho il cuore gonfio di dolore, di fronte a tanta infelicità.- Ah, le vignette, ecco cosa: le ha ritagliate tutto il viaggio. Con lo scotch le attacca addosso al povero Gabriel. Tutte di Paperino.
-Hai mai pensato all’infelicità dei Paperi?- sussurra, mentre continua il suo lavoro, meticoloso: la forma è sostanza. -Ti sei mai chiesto perché sono infelici, quando han tutto per essere felici?-
Gabriel non se l’è mai chiesto, e allora? Ha altro a cui pensare ora. La voragine di fuoco che ha nella pancia. Cazzo se brucia, se fa male, cazzo, il sangue che scappa fuori. Non se l’è mai chiesto, e quindi? Anzi, toh. Si era quasi convinto che fosse normale. Che poi alla fine sono tutti un po’ infelici, cazzo. Anche se lui di più. Ma poi -abbi pazienza Michael, ma che ti dice il cervello- se lo dovrebbe chiedere ora che ha le gambe in Australia e la testa in Groenlandia? Eh no, Santa Emerenziana. Non ora che tra le sue dita contratte cominciano lentamente a scivolare fuori i visceri, come lombrichi in libera uscita.
-Prendi zio Paperone: il papero più ricco del mondo. Soldi su soldi, e neanche uno straccio di papera. Solo come un cane. Come un papero, scusa. Ha tutto per essere felice e non ci riesce. Perché?-
Domanda senza risposta, come tutti i grandi quesiti dell’esistenza.
Requiem aeternam dona eius, Domine… E Paperina? Aspetta che Paperino la sposi. Che pretende in fondo? Un po’ d’amore. Invece niente. Potrebbe sposare la fortuna, Gastone. E invece resta fedele a quel fallito di Paperino. …et lux perpetua luceat…-
Un filo di rosa comincia a far capolino sul Tevere. -Ma non credere che Gastone sia felice, eh no, eh. Ama una papera e lei non se lo fila. Sta antipatico a tutti. E parliamo del più fortunato del mondo, eh! Vince sempre, e non sorride mai. Trova portafogli, biglietti della lotteria, ma non trova la via. Requiscat in pacem. E Paperoga? Come credi che si senta quando si guarda allo specchio la mattina?- Dal fiume lentamente sale la nebbia che precede l’alba, come un sudario di bambagia. -Qui Quo Qua? Poveri bambini. Orfani e costretti a vivere col più squattrinato, petulante, pigro di tutti i paperi: Paperino.-

Requiem aeternam dona eius, Domine… …et lux perpetua luceat eius… requiscat in pacem. Amen.

Gliela attacca sul mento, la vignetta. E Gabriel non reagisce, ha il suo da fare a trattenere i visceri dentro il corpo.
-L’eterno indeciso.- Nel ritaglio, Paperino dice SBARECQUECK.
Altra vignetta, GULP. -Il fesso.-
Un’altra, e dice SOB! -L’imbranato.-
Un’altra ancora, SNORT. -Il presuntuoso.-
E GROAN -Che molla tutto quel che comincia.-
E GASP, GROGGLE e RONF. -Eppure ha una casetta, una papera che lo ama. Perché non si gode quel che ha?- Gabriel trova un filo di voce, che gorgoglia in gola insieme al sangue: -Che cazzo ne so, io…-
-Eppure dovresti saperlo, perché Paperino sei tu. Pensaci, corrisponde tutto. Potevi fare una vita tranquilla, dimenticare il sergente, trovare un’altra donna, un altro lavoro. Invece…- Gli bacia la fronte, a quel benedetto, sfortunato figliolo. -…invece hai la stessa infelicità di ognuno di noi. La stessa dei paperi.-
Delicatamente, per non fargli male, continua ad attaccare vignette addosso a Gabriel. Qualcuna cade, e rimane a galleggiare in quel lago rosso che riflette il cielo, e il Castello, e il ponte.
-Me lo sono chiesto per anni: perché? Perché i paperi sono così infelici? Poi ho capito. Era semplice, bastava pensarci.- Gabriel fa di sì con vigore, dissipando l’ala grigia della morte. –Eccerto. Basta sempre, pensarci…- Michael annuisce ispirato.
–Era evidente: i paperi non cambiano. Qui Quo e Qua saranno sempre bambini, Paperino sempre sfigato, Paperina sempre fidanzata…- Stavolta Gabriel si preoccupa veramente: -Non si sposeranno mai?- Michael deve dirglielo, meglio la verità che una pietosa bugia.
-No. Sono prigionieri del presente. Niente futuro, niente speranze. Non hanno l’unica cosa che rende sopportabile vivere: non muoiono. I paperi non hanno un Angelo che li porta in cielo…- Gabriel la fissa allibito la macchia di sangue che si allarga.
E’ così, morire? E’ una cosa strana che… una cosa che adesso i pensieri si aggrovigliano e sembrano matasse di zucchero filato… e la testa e le gambe e la pancia pesanti. E’ questo? Tutto qui? Non fa male in fondo, non fa male. Sale sale… un’onda come fosse la marea e ti sommerge… e non fa male. E’ così, morire?
L’Angelo che piantona il ponte, con la lancia di marmo, ha le ali distese tra le dita rosa dell’alba. Agli occhi di Gabriel che s’annebbiano, sembra che le ali spuntino dalle spalle di Michael.
-Sono io, l’Angelo che vi porta in cielo. Vi ho cercati uno per uno, per liberarvi. Paperina. Paperone. Gastone. Paperoga.- Abbandona il ponte, con Gabriel tra le braccia. Indugia sulla strada ancora deserta.
–E ora tu, Paperino. E finalmente, la mia missione è conclusa.-
Alza gli occhi alla volta del cielo, venato da nuvole ramate.
–Torniamo a casa.-
Sussurra, cullandolo. E solleva gli occhi alla casa del Padre.
Alle sue spalle, nella foschia lattiginosa che precede l’alba, la luce cresce.
E’ salita la nebbia. Gli occhi di Gabriel sono liquidi, guardano altrove. Guardano oltre. Dicono che dall’altra parte si vede un tunnel, una luce, e poi c’e’ un prato d’erba immenso, a perdita d’occhio… e tutti sorridono… sai cheppalle! Eppure Michael ci crede, si vede che ci crede, si sparerà l’extasy? Oppure… sta per dirsi Gabriel, con l’ultimo scampolo di coscienza… oppure… ma no, dai, cosa va a pensare. …oppure è un angelo davvero? Per esserci la luce c’è, alle sue spalle, e continua ad allargarsi. Forse è vero, torna lassù da dove è venuto… torna torna… “Se mi ci porta ci vado, che peggio che qui non può essere.” Pensa Gabriel, ma ormai i suoi pensieri sono scheggie di vetro, che acchiappano piccoli barlumi di luce a caso, cadono vorticando verso il nulla… “Se dice che è un angelo, scusa… avrà i suoi motivi… che, uno va in giro a dire che è un angelo così, a cazzo? Se mi ci porta ci vado, guarda. Sarò felice. Saremo felici. Per sempre, e per sempre, e per sempre.”
Lo pensa Gabriel. Lo pensa anche Michael. L’autista del 37 barrato, prima corsa della giornata, invece, no.
Poooooo! Suona il clacson per dirgli di spostarsi.

Gabriel sta chiudendo gli occhi per sempre, e non lo vede.

Michael, invece, non lo sente.