domenica 3 giugno 2012

TIEN AN MEN

Artù era… pazzo. Io lo conoscevo bene, l’ho reclamato ancora lattante dalle braccia di sua madre, ne ho seguito i passi e i primi movimenti guerreschi. Gli ho recitato io le prime rime poetiche e sempre io gli ho letto i testi delle antiche sapienze. Lo conoscevo bene, e lasciatemelo dire. Pazzo lo era sempre stato. Ma di quelle pazzie che si rifiutano di accettare il mondo per quello che è, che inseguono imprese e missioni, e quando le hanno compiute tutte, ne inventano un’altra. Eppure, quella volta, era dimentico di sè. Quella volta, la donna che più di ogni altra aveva amato – non l’unica, ho detto, non credete alle leggende – quella che più di ogni altra aveva amato gli era sfuggita via, tra le dita, come a uno sciocco che tenta di imprigionare una farfalla. È così, amici. Ti incapricci di una farfalla e poi pretendi di tenerla in una gabbietta. Ci ho pensato a lungo. E non ho spiegazioni da darvi.
E Lancelot… volatilizzato. Sparito al mondo. Si diceva - qualcuno giurava di averlo anche visto - che abitasse i boschi come una fiera, trascinandosi dietro un nodo ispido di capelli e di barba, vestito di sola iuta, portandosi alla bocca per sfamarsi erbe e radici, quel che raccoglieva a fianco al suo giaciglio, uno diverso per notte. Si diceva che passasse le notti a imprecare contro il cielo e ad ululare alla luna, oppure al contrario qualcuno lo dipingeva prostrato davanti all’Altissimo, a implorare perdono per la sua colpa. Ma il fatto, quello vero, è che non c’era. Artù inseguiva il sogno di conquistare il mondo, e il suo campione non c’era più. Non era solo una questione di abilità guerresca, intendiamoci. Certo, lui era forte in battaglia, e la sua mano non tremava mai. Ma gli altri cavalieri lo erano altrettanto. E poi c’era Parsifal, con quell’armatura color del sangue, che metteva scompiglio nei nemici al solo apparire… no, no. Il problema non erano le armi. E’ che Lancelot era la Fede. La parola di Artù era vera, per il solo fatto che la diceva il suo re. Lancelot amava Artù, senza riserve. Tanto è vero che gli ha fregato la moglie, direte voi. Incidentale. La sostanza, come sempre, sta altrove. Lancelot era capace di immaginare che ogni singolo sogno di Artù fosse l’unico sogno che valesse la pena di realizzare. Parsifal no. Qui stava l’unica differenza sostanziale. Parsifal faceva domande. Aveva imparato a lasciarle emergere così come premevano alla soglia della coscienza.
“Ma siamo sicuri che quelli la sono contenti, che gli portiamo la civiltà?”
Anche stavolta, non era colpa sua. Nessuno, oltre Parsifal, poteva essere Parsifal. Cavaliere per caso, guerriero per vocazione – per cromosomi, direste voi – Parsifal era, semplicemente, ciò che era. Non aveva speso l’infanzia in libri e novene. Aveva ruzzato tra le forre e i ciglioni inseguendo anguille e rubando uova di quaglia. Parsifal non conosceva le certezze che si annidano in quei segni neri tracciati sui libri. Non sapeva neppure cosa significassero, quegli arzigogoli di righe annodati sulla pergamena. Lancelot credeva. Parsifal era.

Lo capii un millennio dopo. Fa sorridere, ma è così: mille anni più tardi. Mille anni, ci ho messo a capire. In un altro tempo, in un altro dove.
Eravamo all’altro lato del mondo, e anche quella volta nessuno ci aveva spiegato perché. In quel lato del mondo, un uomo aveva pensato in grande. Aveva pensato che era meglio che tutti avessero il necessario, piuttosto che solo alcuni avessero il superfluo. Una bella idea, di quelle che quando la senti ti chiedi perché non l’hai pensata tu. Ma allora, mi chiedevo, perché quei giovani che protestano al centro della piazza della pace celeste? E perché quei draghi dal cuore che pompa gasolio e dalle narici che sputano proiettili? Perché avevano bisogno dei carrarmati, per convincere il loro popolo di una cosa così evidentemente giusta?
Intendiamoci. Quell’uomo aveva capito una cosa sacrosanta. E sacrosanta rimaneva. Ma non l’unica, oh, no. Non l’unica. E' questo, il problema. Ogni tanto un uomo crede di avere carpito il segreto che regola l’armonia dell’universo. E da quel momento, il segreto che ha scoperto lui diventa l’unico possibile. Morte agli infedeli. Morte ai reazionari. Morte ai rivoluzionari. Morte agli oscurantisti. Morte ai senza dio e morte a quelli col dio sbagliato. E morte agli stati canaglia e morte alle plutocrazie borghesi, e morte…
Piazza Tien An Men era un mare di facce urlanti. Urla di disperazione, di rabbia per un futuro scippato, di troppi lunghissimi anni di rassegnazione. E i cingoli avanzavano, a frantumare quei sogni, per sempre. Non chiedetemi come facevo a esserci. Non chiedetemi neanche perché. Ero la’, semplicemente, come ogni volta. E non capivo. Non capivo quale ideale potesse essere sufficientemente grande da negare a quei giovani il diritto al futuro. Così lasciavo indugiare lo sguardo su quella fila di carrarmati, lenti e ringhiosi, che avanzavano attraverso quel prato di corpi inermi. E poi… lo vidi.
Solo lui poteva essere lui. E stava là, al centro della piazza, ad opporsi ai cannoni a petto nudo. Camicia bianca, abbottonata al collo. Pantaloni di tela e delle scarpe basse. Capelli lisci e sottili ed occhi a mandorla. Non aveva quell’armatura color del sangue che metteva in fuga i nemici. Eppure era lui.
“Parsifal!!! Togliti di lì,  per la madre terra!  Ti passeranno sopra come a uno sterco!”
“Che ci provino!”
E continuava a spostarsi per impedire al carrarmato di aggirarlo. Quello piegava a destra, e lui a destra. Quello voltava a sinistra, e lui a sinistra… e rideva… rideva…
“Fai pure amico! Io non ho fretta, sai? Possiamo stare qui per il prossimo millennio, se ti diverte…”
Ah, Parsifal. Quale esclusivo prodigio ti ha baciato la fronte quand’eri nella culla? Cosa, che nessun altro di noi ha, ti rende Parsifal? Mi inchino al coraggio sovrumano di quell’uomo. E con me, si inchinino i cuori di ognuno di voi..


(Estratto da Avalon - un romanzo in scrittura)

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