“Vieni
al bar, vieni al bar, e lascia perdere Superstar…” non è una mia invenzione
alla fine di una notte insonne. E’ il testo della cover italiana, ad opera dei
“Flora, Fauna e Cemento”, di “Jesus Christ Superstar”, pietra miliare del
musical rock. E come fare a dimenticarsela, una volta sentita? Soprattutto, come fare, dopo che una simile ferita ti ha deturpato l’adolescenza?
Ricordo
perfino la trasmissione in cui la sentii, e questo fa almeno in parte
giustizia: era la “Schif parade” un programma radiofonico della Rai condotto da
due sedicenti Malalingua, pseudonimo dietro il quale si nascondevano Luciano
Salce e Bice Valori… e allora tutto diventa un pochettino più chiaro. Anche
perché l’autore accreditato di questo testo è Herbert Pagani, e allora è
autorizzato il dubbio che si trattasse di un’operazione ironica e volutamente
iconoclasta.
"Lei
non c'è, lei non c'è
esce
con tutti ma non con te
vieni
al bar, vieni al bar
e
lascia perdere Superstar"
Gran
programma, la Schif Parade. Per inciso, non oso pensare in che posizione
potrebbe essere la Pausini in un programma del genere, ma ricordo che Schif
parade fu essenziale per il successo delle “Figlie del vento”, che frantumarono
la Hit parade 1973 con versi immortali come: “Sugli sugli bane bane, tu
miscugli le banane.” Bei tempi.
Però
le cover italiane, per tornare a bomba, in quegli anni erano veri e propri
capolavori. Proviamo a giocarci.
“Se tu guardi gli occhi miei
che
hanno pianto per amor
che
han versato tante lacrime,
puoi
trovarci la tua immagine
quel
sorriso, quella bocca, che baciai…
che
baciai e così saprai.
Ridestatici
dall’ascolto del sublime, basta cantare questi stralci di alta poesia sulle
note di “The sound of silence”, e il misfatto è compiuto. Il responsabile, per
non far nomi, era Dino. Il testo originale di Paul Simon raccontava un mondo
complicato, incomprensibile, in cui perfino il buio era un rifugio accogliente
e familiare:
“Ciao,
oscurità, vecchia amica
sono
qui per parlarti di nuovo
perché
una visione arrivando dolcemente
ha
lasciato i suoi semi mentre dormivo
e la
visione
che si
è fissata nella mia mente
rimane
ancora
dentro
il suono del silenzio”
Molto di peggio, a dire il vero, riuscirono a fare Piccaredda e Paolo Limiti (sì, proprio quel,
Paolo Limiti), che riuscirono ad affidare ad Ornella Vanoni e Wess il seguente
scempio di “Imagine”:
“Immagina
una parola
detta
al momento in cui
io
sono molto solo
e
accanto ci sia lei
immagina
che mi creda
come,
non lo so
Non è
vero ma succede
viene
sempre un'ora blu
e se
solo il cuore cede
stammi
più vicino tu”
Questa
divagazione mi è venuta in mente perché qualche giorno fa mi sono trovato a
parlare di “Pietre” di Antoine al Festival di Sanremo, e ho scoperto che non
molti sanno che si tratta di una cover, per quanto non accreditata, di un brano
di Bob Dylan, Rainy Day Women 12 & 35. In quegli anni succedeva
spesso, e qualche volta anche con risultati egregi.
E’ il
caso, per esempio, di “A night in white satin” dei Moody Blues, qui nel video ufficiale del 1967.
Notti
di raso bianco
non
arrivano mai alla fine
lettere
scritte
non significa che siano spedite
La bellezza si è sempre perduta
in
questi occhi.
Quale
sia realmente la verità
non
sono più in grado di dirlo.
…diventata, nella versione dei Nomadi, peraltro ripresa in quel periodo da molti altri gruppi del beat, primi tra tutti i Profeti, “Ho difeso il mio amore”.
Queste parole
sono
scritte da chi
non ha
visto più il sole
per
amore di lei.
Io le
ho trovate
in un
campo di fiori.
Sopra
una pietra
c’era
scritto così:
Ho
difeso
ho
difeso
il mio
amore
il mio
amore.
Poco e
niente è rimasto del testo originale, ma Augusto Daolio riesce a conferire a
queste parole, che paventano un oscura storia di eros e thanatos, un’epicità e
un’intensità che in alcuni momenti supera l’originale.
Qualche
volta accade. Pregherò, per esempio, è una rilettura totale di Stand by me, e
Don Backy riesce, dopo che l’impresa era stata fallita da Miki del Prete, a
costruire un testo e una storia che volano molto più in alto dell’originale,
che era solo una canzone d’amore dal testo piuttosto banale, mettendo in scena
la storia di una ragazza cieca che odia il cielo e Dio per la sua menomazione.
Non foss’altro, una storia umana e non un clichè, che verrà inciso dal
molleggiato, che almeno dal punto di vista del testo si fa notare, tanto è vero che quando Dalidà incise la versione francese, come modello si scelse la versione di Don Backy, e non quella
americana.
In
fondo in fondo, non è andata male neanche a Frank Sinatra e alla sua “Stranger
in the night” divenuta, in bocca a Johnny Dorelli “Solo più che mai, in una
notte che non finirà…”
Almeno
la notte è rimasta.
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